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23 10 2019
Ecuador: tra rivolta e dollarizzazione
di Giona Di Giacomi
Sinistra Anticapitalista
Dopo 12 giorni di scioperi e manifestazioni che hanno sconvolto l'Ecuador, le trattative, che hanno per ora sopito la rivolta, si trovano in una situazione di stallo. Per soddisfare le richieste del Fondo Monetario Internazionale, in cambio di nuovi finanziamenti, il presidente Lenin Moreno aveva emanato una serie di decreti tra i quali la revoca del sussidio statale ai combustibili, una misura che avrebbe determinato, in un paese in cui il trasporto avviene quasi esclusivamente su gomma, un rincaro del 30% del costo della vita. A questi provvedimenti se ne aggiungevano altri che andavano a colpire i lavoratori, in particolare quelli pubblici, quali il dimezzamento dei giorni di ferie, tagli agli stipendi e la riduzione del 20% del salario di ingresso per i giovani assunti. L'annuncio dei decreti aveva in un primo momento provocato lo sciopero delle imprese di trasporto, che avevano paralizzato il paese, ma il Presidente aveva subito avviato una trattativa concedendo loro di aumentare le tariffe. Tale misura, se da una parte aveva fermato la protesta dei padroncini di autobus e taxi, dall'altra aveva ulteriormente scatenato le ire popolari. E così il 2 ottobre , la Conaie (l'organizzazione degli indios dell'Ecuador) e i sindacati avevano proclamato una mobilitazione generale, che aveva portato in breve tempo al blocco totale del paese. Più di 300 strade chiuse dai manifestanti, occupazione dei pozzi petroliferi, intere città rimaste senza energia elettrica, blocco del servizio idrico, mercati e negozi chiusi per mancanza di merci e di alimenti. Contemporaneamente migliaia di indios si dirigevano verso la capitale accolti con entusiasmo dalla popolazione che li riforniva di coperte, alimenti, bevande calde. Giovani, studenti e organizzazioni di donne insieme alla popolazione dei quartieri poveri erigevano barricate e si scontravano per giorni con le forze dell'ordine. A nulla era servito lo stato di emergenza e il coprifuoco proclamati come risposta da Moreno. La stessa Conaie a sua volta aveva proclamato un "coprifuoco indios" nei territori da essi controllati, annunciando che ogni poliziotto o militare sorpreso senza autorizzazione sarebbe stato arrestato...dagli indios. E così, interi reparti dell'esercito o della polizia venivano sequestrati dalla popolazione e rinchiusi negli stadi. Durante l'assemblea popolare convocata alla casa della cultura di Quito venivano esposti, davanti alle grida dei manifestanti, una decina di poliziotti catturati dagli insorti. Inutili sono stati anche i tentativi di Moreno di accusare i manifestanti di essere manipolati dall'ex presidente ed ex alleato, Rafael Correa o dal Venezuela (utilizzando anche la becera propaganda anti immigrati venezuelani che ha attecchito in diversi strati della popolazione ecuadoriana). La stessa Conaie ha preso più volte pubblicamente le distanze da Correa e, anche se tra i manifestanti erano presenti partitari dell'ex presidente, questi hanno avuto un peso marginale nel movimento, spesso addirittura nocivo. La rivolta, che aveva assunto un carattere insurrezionale, aveva costretto il presidente Moreno a fuggire dalla capitale e a rifugiarsi nella più tranquilla città costiera di Guayaquil. La notte del 14 ottobre, con il paese totalmente paralizzato e una Quito devastata dagli scontri che hanno provocato, come bilancio finale, almeno 8 morti, 1200 arresti e 1300 feriti, Moreno cede e accetta di trattare, in diretta televisiva, con la Conaie e le organizzazioni sindacali. Durante la trattativa pubblica, il decreto che eliminava i sussidi ai carburanti viene sospeso e la rivolta rientra.
E’ stata una vittoria, come molte organizzazioni, inclusa la Conaie, hanno prontamente dichiarato? Ovviamente la popolazione, alla notizia del ritiro del decreto 883(quello sui combustibili), ha festeggiato ed esultato, ma non si può negare la sproporzione tra le forze che erano state messe in movimento e il parziale risultato ottenuto. Durante le mobilitazioni i manifestanti chiedevano non solo il ritiro del decreto sull'aumento dei combustibili, ma l’abrogazione di tutto il pacchetto di richieste del FMI, invece restano ancora in vigore tutti i provvedimenti che colpiscono i lavoratori. Chiedevano anche a gran voce le dimissioni del presidente e dei ministri della difesa e degli interni, responsabili della brutale violenza da parte delle forze dell'ordine, oggi, invece, dopo l'accordo, questi stessi ministri ordinano arresti illegittimi, non solo degli avversari correisti, ma anche di militanti sindacali e dei movimenti sociali e studenteschi. Inoltre, il decreto sui combustibili è stato solo sospeso e dovrà essere sostituito da uno nuovo, concertato tra organizzazioni sociali e governo e già si parla di una sua diluizione negli anni. Sul parziale esito delle lotte ha sicuramente pesato anche la quasi totale assenza di forze seriamente rivoluzionarie e la debolezza del movimento operaio. Moreno stava cedendo e davanti alla brutale repressione del suo governo, cominciavano a manifestarsi segnali di disaffezione anche all’interno dello stesso esercito, tanto che, appena due giorni dopo la firma dell’accordo, il presidente ha destituito alcuni membri della cupola militare, tra cui lo stesso comandante in capo dell’esercito. La fretta di arrivare ad un accordo da parte dei vertici delle organizzazioni sociali unito alla volontà dei dirigenti della Conaie di smarcarsi dalle accuse di correismo( non a caso si sono subito precipitati, dopo l’accordo, a dichiarare che mai avevano chiesto la caduta del presidente) ha di fatto lanciato un’ancora di salvezza a Moreno, che potrà giocare la carta del tempo e sperare nella smobilitazione delle forze sociali.
A queste considerazioni occorre aggiungere che l'Ecuador presenta una struttura monetaria che la distingue dagli altri paesi latinoamericani. Infatti, dall'inizio del 2000, il paese è stato completamente dollarizzato. Si è trattato del primo esperimento neoliberista del nuovo secolo portato avanti con la compiacenza del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Banca Interamericana di Sviluppo e del governo degli Stati Uniti. A parte la piccola Panamà, nata già dollarizzata all'inizio del novecento, per rimarcare da subito la sua dipendenza dagli USA e per consolidare il controllo del canale da parte della potenza imperialista, in nessun altro paese era stata mai ipotizzata una misura così drastica: ritirare dal mercato tutta la valuta nazionale e sostituirla con i dollari, bruciare i milioni di banconote in sucre (la moneta nazionale) e gettare le macchine per la stampa nell'Oceano Pacifico, in modo da rimarcare l'irreversibilità del provvedimento. Gli Stati Uniti avrebbero beneficiato di grandi vantaggi con la dollarizzazione, non solo in termini immediatamente economici quali il signoraggio (produrre un biglietto da 100 dollari costa alla Federal Reserve 6 centesimi e l'80% delle banconote da 100 dollari si trova fuori dagli USA), ma anche, tenendo in considerazione che in quel periodo stava per entrare in circolazione l'euro e, che la dollarizzazione di interi Stati sudamericani, avrebbe impedito la perdita di potere del dollaro rispetto alla nuova divisa europea.1) Nel 2001, un anno dopo l’esperimento con l'Ecuador, anche il piccolo El Salvador adottò la dollarizzazione. Ma per un paese dipendente come l'Ecuador, quali vantaggi può offrire tale misura? A parte la stabilità cambiaria e una limitazione dell'inflazione, in realtà ben pochi. Un paese che dollarizza non può più stampare moneta nemmeno in situazioni di emergenza, al contrario, i dollari necessari per il funzionamento del paese deve conseguirli attraverso le esportazioni e l'Ecuador è un paese produttore di petrolio che rappresenta quasi il 60% delle esportazioni totali. Per anni, dopo la dollarizzazione, fino al 2014, l'Ecuador ha potuto beneficiare di due fattori positivi contingenti: un dollaro debole, che aiutava l'esportazione garantendo un costo competitivo dei prodotti nazionali e un alto costo del petrolio, che generava un notevole ingresso di dollari.2) Oggi, al contrario, con un dollaro che si sta rafforzando e un costo del barile del petrolio ridimensionato, le importazioni hanno superato le esportazioni e di conseguenza hanno ridotto l'ingresso di valuta. Nello stesso tempo, la dollarizzazione ha favorito la fuga di capitali dal paese (è molto più facile trasferire dollari all'estero rispetto ad una moneta nazionale di scarso valore), per un valore complessivo di 30 miliardi di dollari. Il rischio di un crollo finanziario ha costretto il presidente Moreno a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale e a sottomettersi ai suoi diktat, in cambio di un prestito di 4.2 miliardi di dollari. Nel 2018 lo stesso Moreno aveva condonato buona parte di un debito di 4.5 miliardi di dollari che grandi imprese e banche nazionali e straniere (tra cui la nostra ENI) avevano accumulato sotto forma di imposte non pagate. Oggi, altri paesi dell'America Latina, tra i quali lo stesso Venezuela stanno ipotizzando una dollarizzazione dell'economia. Nello stesso tempo, in Ecuador, diversi economisti di ispirazione marxista, tra i quali Alberto Acosta, da anni suggeriscono un'uscita lenta e controllata dal dollaro, per sottrarsi dalla dipendenza monetaria dagli USA, primo passo per un cambio reale che veda le classi popolari del paese riappropriarsi delle ingenti risorse naturali di cui dispone, espropriando multinazionali, latifondisti e banchieri e rilanciando un programma di vere riforme sociali. Oggi i lavoratori e gli indios ecuadoriani hanno compiuto un primo passo, ottenendo una vittoria solo parziale e temporanea, che dovrà presto essere difesa e rafforzata attraverso nuove mobilitazioni e collegandosi con le lotte che in America Latina si stanno sviluppando in Cile, Honduras, Haiti, Argentina.
Proprio come ha scritto il giornalista uruguaiano Raul Zibechi:
“I tempi della storia di coloro che stanno in basso non sono lineari, macereranno lentamente nel calore dei focolari, dove vengono discusse e prese le decisioni collettive che cambiano le direzioni del mondo. Per tutte quelle persone che fanno del collettivo il centro della propria vita, gli eventi dell'Ecuador saranno come la stella polare per i marinai: riferimento e orizzonte, guida e orientamento in questi tempi di caos e confusione”.
1)Nel suo rapporto sulla dollarizzazione, nel 1999 il presidente per gli affari economici del congresso USA, il senatore Connie Mack, scriveva: "Con l’aumento del numero dei paesi che utilizzano il dollaro, la dollarizzazione ufficiale contribuirà a preservare il dollaro come prima moneta internazionale, una posizione che l’euro sta intaccando".
2)Dopo che nel 2007 Rafael Correa divenne presidente dell'Ecuador, nel giro di un solo anno, il prezzo del petrolio passò dai 57 ai 140 dollari al barile. Tale situazione favorevole, mimando il chavismo venezuelano, gli permise di destinare una parte di queste risorse verso investimenti pubblici e sociali, modernizzando il paese e introducendo una serie di riforme sociali al fine di ridurre la miseria estrema. Tali politiche di forti investimenti continuarono anche quando il prezzo del barile cominciava a ridursi, ciò produsse una prima crisi di valute che costrinse Correa ad indebitarsi con la Cina, in cambio dello sfruttamento minerario di vaste zone del paese, Amazzonia compresa. |
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lunedì 28 ottobre 2019
Dall’Ecuador al Cile ripartono lotte di grande ampiezza...
di Antonio Moscato
I provincialissimi giornali italiani si sono accorti che sta succedendo qualcosa in “Sudamerica”, ma l’hanno buttato subito sul pittoresco, cercando di non vedere le analogie che ci sono nelle tematiche e almeno nell’innesco delle mobilitazioni.
Eppure i punti di contatto sono molti, non solo tra paesi pur tanto diversi e lontani tra loro come Ecuador e Cile, ma anche tra le molte altre proteste esplose in parti del mondo che sembravano tranquille. Penso ad esempio alle imponenti manifestazioni del lontanissimo Libano, considerato il più stabile dell’intero Medio Oriente. Inutile dire che quasi nessuno si interessa alle durissime proteste nelle strade di Haiti contro il governo di Jouvenel Moise per la corruzione e il carovita, che durano senza tregua da quasi un mese, anche se alla loro testa non compare una direzione riconoscibile. Ma non è una sorpresa: negli oltre due secoli di esistenza Haiti è stata dimenticata anche dal resto dell’America Latina, a partire da Simon Bolivar, che non ricambiò l’aiuto militare ricevuto dalla piccola repubblica caraibica in un momento difficile; figuriamoci dai paesi europei che sono stati all’origine delle sue disgrazie, e che hanno usato innumerevoli volte la violenza più feroce per imporre eterni risarcimenti per il suo “peccato originale”, quello di aver costituito per primi nel continente uno Stato indipendente, una repubblica di schiavi insorti. Solo il Vaticano ha informato fin dai primi giorni sulle proteste senza tacere le violenze della polizia ma anche la durezza della risposta popolare alla repressione.
Il caso degli scontri di strada in Cile contro un aumento del biglietto per la metropolitana di Santiago che ai ben pasciuti giornalisti nostrani sembra irrisorio, ma non appare tale a chi se la deve cavare fino alla fine del mese con un salario di 40 o 60 dollari, è quello che ha attirato i maggiori commenti, quasi tutti basati sulla sorpresa per l’uso pesante dei blindati per l’ordine pubblico, “per la prima volta dal tempo di Pinochet”; nessuno dice che esercito e polizia non erano mai stati smobilitati e ridimensionati durante le due presidenze di Michelle Bachelet, che d’altra parte era stata già ministro della Difesa nel governo di centrosinistra di Ricardo Lagos, che aveva avuto un atteggiamento conciliante verso le forze armate e lo stesso Pinochet.
Le leggende sui successi dell’economia cilena diffuse da giornalisti compiacenti, ovviamente tenevano conto soprattutto dei bilanci delle tante imprese privatizzate finite in mani straniere (a partire dall’energia elettrica monopolizzata dalla nostra ENEL) ma non delle reali condizioni di lavoro, di alloggio, di accesso alla sanità e all’istruzione pubblica per gran parte della popolazione. Uno degli slogan più efficaci delle recenti mobilitazioni studentesche contro il costo della scuola e dell’università diceva “Se il rame fosse cileno, l’istruzione sarebbe gratuita”...
Sembra calata invece l’attenzione al caso dell’Ecuador, che ha visto protrarsi per più di dieci giorni una grande mobilitazione, ma sembra sia stata archiviata con un eccessivo ottimismo sul risultato finale della straordinaria protesta da parte di diversi commentatori di sinistra. In realtà il bilancio è ancora incerto: il presidente Lenin Moreno è un abile manovratore, e ha puntato ad attribuire le mobilitazioni ai nostalgici di Correa, procedendo ad arresti a freddo di funzionari pubblici vicini all’ex presidente, mentre passava dalla violenza poliziesca e militare alla trattativa. Ma ha concesso di concreto solo l’annuncio dell’abrogazione del decreto 883 che aboliva i contributi ai combustibili, rinviando la stesura della nuova versione a estenuanti trattative previste per mesi, e dando per scontato che comunque bisogna trovare altre misure per soddisfare le richieste del FMI. L’accordo non sembra solido, perché non è prevedibile che possa reggere per tanto tempo la mobilitazione delle migliaia di indigeni scesi a Quito da paesi lontani centinaia di chilometri per esercitare una forte pressione sul governo. La smobilitazione delle forze arrivate dalle zone andine e anche dalla costa, non può non ripercuotersi anche sulla popolazione urbana. La direzione della CONAIE (la confederazione delle popolazioni indigene) è stata rinnovata di recente, ma l’organizzazione ha una lunga tradizione di accordi col potere, e i vecchi dirigenti d’altra parte non sono spariti ma solo passati in seconda fila. Ma su questo rinvio all’esauriente articolo di Giona Di Giacomi scritto per il sito di Sinistra Anticapitalista, che riproduco in calce integralmente.
Tuttavia sono già possibili alcune riflessioni sulle caratteristiche di queste esplosioni, a cui mentre scrivo questo articolo se ne è aggiunta una nuova in un paese piccolo ma significativo, la Bolivia. Da tre anni questo paese, che pure ha problemi economici meno gravi del Venezuela e dell’Argentina ha visto accrescersi le tensioni tra il governo e le opposizioni non tanto sulle grandi questioni economiche e sociali, quanto sulla possibilità che il presidente Evo Morales si presentasse ancora una volta alle elezioni, nonostante l’esplicito divieto sancito dalla costituzione. Nel febbraio 2016 Morales aveva sottoposto a referendum l’articolo contenente il divieto, e aveva perso inequivocabilmente. Ma, forse mal consigliato, ha chiesto un parere al Tribunale supremo, in cui aveva una sicura maggioranza, che ha dichiarato senza pudore che una costituzione non può privare un uomo del diritto a essere eletto. Quindi Evo si è presentato per la quarta volta e ha “vinto” grazie a un espediente ben noto nel continente: ha sospeso la trasmissione dei risultati per venti ore quando lo scrutinio del 90% delle schede sembrava costringerlo a ricorrere a un pericoloso ballottaggio con il concorrente più forte, l’ex presidente Mesa; quando i collegamenti sono stati ripristinati, lo scrutinio era stato completato al 95,22, e i voti di Evo erano miracolosamente cresciuti fino al 46,86% mentre Mesa era arretrato al 36,73%, quanto bastava per evitare il ballottaggio, che non è previsto quando tra il primo e il secondo candidato c’è uno stacco di almeno 10 punti. La risposta all’annuncio è stata clamorosa, assalti agli uffici elettorali, barricate, lanci di bottiglie molotov, ecc. Il vicepresidente Álvaro García Linera ha risposto alle insinuazioni di brogli parlando di una “guerra” per colpire il governo, esattamente come ha fatto Sebastian Piñera in Cile o Nicolás Maduro a Caracas (riferendosi non tanto alle opposizioni politiche ma ai sottoproletari saccheggiatori di negozi). E anche le proteste dei giovani, studenti o abitanti delle favelas a Rio erano state bollate così da Dilma Rousseff e Lula nel 2013, e peggio ancora erano stati attaccati duramente dai corpi speciali ai quali qualunque paese anche mal ridotto non rinuncia. Anche nei confronti dei “gilet gialli”, quando erano in ascesa, era stata mossa l’accusa di essere manovrati da subdoli stranieri. Ma chi sarebbe il misterioso burattinaio che ha interesse a scatenare guerriglie urbane contro governi tanto diversi?
Inoltre c’è una specificità che accomuna questa ultima crisi boliviana alla vicenda di altri paesi con governi progressisti: l’esistenza di leader che non hanno nemmeno provato a costruire una direzione collegiale, che accettano l’idea di una forza politica solo in funzione elettorale: non penso solo a Evo Morales e Rafael Correa ma allo stesso Lula che un partito ce lo aveva ma lo concepiva esclusivamente come strumento subalterno alla sua direzione personale indiscutibile. Tutti, senza eccezioni, hanno avuto paura di un ricambio all’interno del loro schieramento e hanno concentrato le loro energie in una battaglia per garantirsi una rielezione perpetua anche se esclusa dalle rispettive costituzioni. Mentre si rafforzavano opposizioni sempre più pericolose, pronte ad approfittare di ogni errore: il caso brasiliano è paradigmatico. (a.m.)
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