Articolo pubblicato su Tiempo Argentino. https://www.dinamopress.it/ 24 ottobre 2019
Il modello cileno: governare con la violenza e i privilegi di Pablo Mardones Traduzione di Susanna De Guio e Giampa
Una testimonianza narrativa e fotografica dalle piazze di Santiago del Cile: le ragioni della rivolta, le assemblee popolari e la manipolazione mediatica, mentre aumentano i morti, i feriti e le violenze dei militari e della polizia.
La rivolta in Cile, cominciato come protesta contro l’aumento dei biglietti del trasporto pubblico metropolitano, si è estesa a tutto il paese. La durissima repressione e il coprifuoco imposto in diverse città ha portato, secondo le ultime cifre diffuse dall’Osservatorio per i diritti umani, ad almeno 16 morti (5 per mano delle forze repressive dello Stato), 2410 arrestati, 535 feriti (di cui 210 da armi da fuoco) e decine di desaparecidos. Sono decine le denunce di violenze sessuali da parte di poliziotti e militari nei confronti di donne arrestate e si moltiplicano le denunce di desaparición e di operazioni repressive illegali da parte delle forze armate nelle case private, scuole e università. Intanto, due nuove giornate di sciopero e mobilitazione generale sono state lanciate per ieri e oggi chiedendo le dimissioni del presidente e del governo e un cambiamento radicale rispetto alle politiche neoliberali. Pubblichiamo un contributo scritto da un antropologo e fotografo cileno per il giornale recuperato e autogestito dai lavoratori “Tiempo Argentino” (Nota della redazione).
Sono nato durante la dittatura e in pieno coprifuoco. Mio padre, al volante, sventolava un fazzoletto bianco mentre mia madre si teneva la pancia con entrambe le mani per non partorire nell’auto. Avevano paura che le forze di sicurezza confondessero le ragioni della loro fretta e fermassero l’auto con violenza.
In Cile si viveva così: la vita e la morte erano segnate dalla paura, dalla persecuzione. Oggi, quarantun anni dopo, mi ritrovo in strada, commosso e pieno di speranza. Le forze di sicurezza stanno lì, come in passato; però la paura non è più la stessa. Questo è senza dubbio un momento unico e irripetibile per questa sottile frangia di terra.
A differenza che in Cile, in Argentina le manifestazioni in strada e l’espressione pubblica delle rivendicazioni sono socialmente legittimate e sono quotidiane. Nel mio paese queste pratiche erano anestetizzate. Mentre gli argentini e le argentine sono famosi per scendere in strada quando i loro diritti vengono toccati, i cileni e le cilene sono visti come sottomessi, muti. Questo sguardo l’ho percepito vivendo e viaggiando in diversi paesi, in occasioni in cui emergevano i «però voi in Cile state bene» oppure a volte, in modo più sarcastico, «voi siete i migliori alunni”» dell’allineamento alle politiche neoliberali. Oggi questo meccanismo si è rotto: la bolla è scoppiata, la pentola a pressione – forse la metafora più appropriata – è esplosa. Mentre il ministro dei trasporti non usa la metro, quello della salute si cura nelle cliniche private e la ministra dell’educazione, devota pinochetista, ha studiato in un istituto di suore esclusivo così come le sue figlie, Piñera crede che siamo in guerra contro un pericoloso nemico e la first lady parla di una «invasione aliena». Alla Moneda i maggiori think thank si chiedono: cos’è successo?
È successo che la gente si è stancata di governanti elitisti. Siamo di fronte a una rivolta sociale prodotto di un esaurimento generalizzato per i continui saccheggi di questa élite e dei suoi amici: salari miserabili, pensioni indegne, educazione di bassa qualità, debiti universitari a vita, congedi per depressione e salute precaria.
Queste sono le condizioni della vita del popolo cileno. Nel frattempo, sono lampanti gli enormi guadagni della classe politica e i sempre più numerosi casi di corruzione. Tutti insieme, questi elementi costituiscono le principali ragioni di una rivolta che nasce come la promessa di smantellare un modello di violenza e privilegi che non è più grado di governare.
Foto dal profile Facebook di Pablo Mardones Charlone
Sabato 19 e domenica 20 ottobre sono uscito in bicicletta. Sono stato nei diversi punti cruciali del centro della capitale cilena. Ho sentito gli slogan contro la polizia e il governo, ho visto le barricate con il fuoco, la gente facendo rumore con la cacerola, i saccheggi nei supermercati, la speranza, l’indignazione, il timore e molti gesti di solidarietà. Mi sono sentito parte di un collettivo, ho sentito di star vivendo un momento unico, mi sono sentito orgoglioso di essere cileno. Poi sono stato a pranzare da mia madre e lì mi ha invaso la paura. Ascoltando la radio e la televisione sembrava che tutto fosse un furto e un saccheggio, non c’era nient’altro per i mezzi di comunicazione di massa, in gran maggioranza alleati del governo. I dubbi mi hanno assalito e sono entrato in panico. Poi sono uscito di nuovo in strada e ho visto che i saccheggi, sebbene ce ne fossero, non erano l’unica cosa che stava succedendo.
Lunedì ho partecipato all’assemblea auto-convocata del quartiere Yungay, nella zona di Santiago Centro, uno spazio in cui i partecipanti hanno messo a disposizione le loro case, i loro saperi e le esperienze, hanno concordato di esigere ai media e alle autorità l’immediato ritiro dei militari dalle strade, e la convocazione di un’Assemblea Costituente che modifichi l’attuale carta magna pinochetista.
È già martedì e tutto è cambiato, ma la violenza persiste. I morti si dividono tra quelli assassinati dalle forze dell’ordine e quelli carbonizzati negli incendi dei supermercati (l’assicurazione non copre i saccheggi, però gli incendi sì). I media aggiustano i loro discorsi e si moltiplicano i video in cui si vedono poliziotti e militari sparare, rubare e organizzare saccheggi. Adesso la priorità è guardarci, riunirci e parlarci. Però ci costa fatica. I valori dell’individualismo sono profondamente ancorati in noi. Forse l’unica esperienza collettiva dopo la dittatura è stata quella del grande terremoto del 2010 quando, per necessità, la gente ha aperto le case, ha ospitato i vicini e dato da mangiare agli sconosciuti. Adesso che è il popolo, e non la terra, a tremare, bisogna sperare che queste azioni si moltiplichino. Sebbene sia difficile, ho la speranza che la grande esperienza di organizzazione sociale di Yungay si possa replicare nel resto del paese, riunendo le persone nei quartieri e creando spazi di discussione e riflessione. Siamo di fronte a un’opportunità unica e non possiamo rischiare di perderla.
|