https://jacobinmag.com https://jacobinitalia.it/ 21 Ottobre 2019
Lenín Moreno ha tradito l’Ecuador di Daniel Finn e Guillaume Long La traduzione di Gaia Benzi.
Lenín Moreno aveva promesso un approccio meno «divisivo» del suo predecessore, Rafael Correa. Ma gli ecuadoriani stanno resistendo alle riforme neoliberiste e all’austerità
Le ultime due settimane in Ecuador sono state teatro di una storica rivolta popolare, con il presidente Lenín Moreno costretto a fuggire dalla capitale e otto persone uccise negli scontri con la polizia e l’esercito. Mentre i manifestanti prendevano possesso degli edifici governativi attorno Quito, Moreno ha dovuto dichiarare l’emergenza nazionale, ordinando ai militari di imporre il coprifuoco. Anche se le trattative di domenica hanno visto il governo cedere alle principali richieste dei manifestanti, la situazione rimane estremamente polarizzata. Queste proteste sono particolarmente sorprendenti, soprattutto considerando che l’Ecuador negli ultimi anni ha rappresentato un faro per la sinistra in America Latina, grazie al governo di Alianza Pais di Rafael Correa. Nel 2017 il suo collega di partito Lenín Moreno gli è succeduto in qualità di presidente in nome della continuità, ma all’atto pratico ha sconfessato bruscamente le posizioni del precedente governo, non solo restituendo agli Stati uniti una base militare sgomberata da Correa, ma anche riportando il paese verso l’austerità e le riforme neoliberiste. Guillaume Long è stato ministro degli esteri nell’ultimo governo di Correa. Daniel Finn l’ha intervistato per Jacobin Mag, e insieme hanno discusso delle forze che animano le proteste, della rottura interna al vecchio partito di Correa, e del ruolo del governo di Moreno come apripista all’interferenza statunitense in Ecuador e nell’intera regione. Che sta succedendo in Ecuador? Sembra che Lenín Moreno abbia completamente perso legittimità. Moreno è diventato una figura clownesca, le persone ridono di lui con battute sempre più aggressive nei suoi confronti e nei confronti del suo governo. È importante capire il significato di queste prese in giro, perché sono in forte contrasto con l’immagine di cui ha goduto il governo di Correa. Correa è stato accolto come governo di ricostruzione nazionale in quello che molti accademici hanno descritto come uno stato fallito, con sette presidenti in dieci anni. Prima che Correa arrivasse al potere, l’Ecuador era devastato da crisi economiche, istituzionali e politiche, continuamente in stallo. Ma grazie al suo governo, l’Ecuador è finalmente comparso sulle mappe. I dieci anni di governo di Correa hanno avuto diverse sfumature, incluse alcune più «di sinistra», redistributive e anti-imperialiste. Ma c’è stato anche un forte elemento culturale, il recupero dell’autostima nazionale, di pari passo con una rinnovata vitalità, con la stabilità politica e il recupero di un progetto di stato-nazione. Quando Moreno ha preso il potere nel maggio 2017, questo elemento ha iniziato a deteriorarsi, e le persone hanno cominciato a vergognarsi di lui. Ma durante primi due anni e mezzo le manifestazioni sono state poche, con circa 30 mila persone in piazza contro Moreno – di certo non il genere di insurrezioni a cui assistiamo oggi. Era una situazione simile a una pentola a pressione, con la pressione che lentamente aumentava e nessuna valvola di sicurezza per far uscire il vapore. Quando gli ecuadoriani hanno deciso che ne avevano abbastanza, l’intera pentola è saltata per aria. È quello che abbiamo visto nelle ultime due settimane. La ribellione è stata improvvisa, ma non inaspettata. C’era un forte risentimento verso l’amministrazione Moreno e le vecchie pratiche politiche delle élite degli anni Novanta e dei primi anni Duemila che Moreno stava riproponendo. Le misure economiche annunciate all’inizio di questo mese sono l’ultimo tassello di un pacchetto di aggiustamenti strutturali di stampo neoliberista, proposti dal governo e dall’Fmi. Ma queste misure rappresentano il pezzo più pesante di tutto il pacchetto. Sono state la scintilla che ha innescato le proteste. Il giorno seguente all’annuncio delle misure abbiamo assistito a manifestazioni di massa come non se ne vedevano da decenni. Oggi, diversi giorni dopo, ci troviamo di fronte alla più grande mobilitazione della storia contemporanea dell’Ecuador. Gli storici potrebbero sostenere che se si guarda ai tempi premoderni non è così, ma per me e per quelli della mia generazione questa è la mobilitazione più grande mai vista. L’altro elemento nuovo è la repressione feroce, qualcosa a cui gli ecuadoriani non sono abituati. L’Ecuador non ha avuto una storia politica violenta come quella dei suoi vicini, la Colombia o il Perù. In passato, prima del decennio di governo di Correa, c’è stato un periodo di instabilità politica in cui i governi cadevano o venivano rovesciati. Ma nessuna di queste cose è mai successa attraverso la violenza politica. In realtà, i governi hanno spesso fallito nel chiedere alle forze armate di reprimere le rivolte; si sono sentiti rispondere: “Mi dispiace, ma non possiamo farlo”. Questa volta il governo ha spinto le forze di sicurezza, incluse la polizia e l’esercito, ad attuare una repressione mai vista nella storia recente dell’Ecuador. I manifestanti sono passati dagli slogan economici, anti-neoliberisiti e anti-Fmi, a un appello per un cambiamento politico più generale, perché la repressione è stata durissima. Le persone adesso cercano un modo per uscire da questa crisi, magari indicendo nuove elezioni, ma non si esclude nessuna alternativa. Come dici, sia le proteste che la crisi sono senza precedenti. Anche la risposta del governo è apparsa inedita, sicuramente se ci riferiamo agli ultimi anni, con la dichiarazione dello stato di emergenza, lo spostamento della capitale, e l’apparizione di Moreno sulle televioni nazionali affiancato da ufficiali dell’esercito in divisa. Pensi che un giro di vite del genere sia sostenibile, o rischia di diventare un boomerang? Se me l’avessi chiesto qualche giorno fa, ti avrei risposto che l’esercito avrebbe ritirato l’appoggio al governo. Non è necessariamente ciò che desideriamo; non vogliamo usare l’esercito per rovesciare il governo. La costituzione in effetti prevede delle vie d’uscita da questo caos. Stabilisce che in caso di grave dramma nazionale, come questo, il presidente può sciogliere il parlamento. Ma può farlo solo una volta nel corso del suo mandato, e nel farlo deve indire anche nuove elezioni presidenziali. E così, potremmo anche avere nuove elezioni politiche, ma il nuovo parlamento potrebbe ugualmente incriminare il presidente. E anche questo ci costringerebbe a nuove elezioni parlamentari. Senza dubbio, siamo in presenza del dramma nazionale al quale fa riferimento la costituzione. Il presidente è fuggito a Guayaquil, la sede del governo non è più la capitale, c’è gente che muore per strada e tutte le strade sono bloccate. Diverse sedi del governo sono state occupate dai manifestanti. È davvero il caos. Ma se me l’avessi chiesto qualche giorno fa, ti avrei risposto che l’esercito si sarebbe rifiutato di seguire la linea repressiva ordinata dal governo, e anche io, come molti, sono stato sorpreso dagli eventi. So per certo che all’interno dell’esercito ci sono alcune voci dissidenti, che dicono: «Non vogliamo più reprimere la nostra gente». Non dimentichiamoci che in Ecuador i soldati provengono da famiglie umili, e molti di loro hanno famiglie indigene o lavoratrici, con fratelli, sorelle, figli e cugini. L’esercito è diviso, anche se fino ad ora il governo è riuscito a conservare la sua lealtà. È molto difficile dire cosa accadrà. Nel primo weekend di poteste abbiamo assistito all’ondata di repressione più dura fino ad ora, con la polizia che sparava lacrimogeni e proiettili di gomma su una folla di persone che essenzialmente stava seduta sull’erba, cucinando insieme ai figli, ed è stata colpita da una repressione incomprensibile e gratuita. Questo ha mobilitato i barrios – i quartieri di Quito – che non avevano ancora partecipato alle manifestazioni, mossi da pura e semplice rabbia per quello che era successo e per le immagini che giravano sui social. Domenica le persone arrabbiate per le strade di Quito erano più numerose del giorno prima. Il governo ha provato a evitare una situazione in cui il presidente fosse costretto a chiudere o sciogliere il parlamento. Sa di essere talmente impopolare da perdere qualsiasi elezione venisse indetta, mentre probabilmente la fazione di Correa andrebbe molto bene, e così sta evitando il voto. Per quanto tempo potrà sostenere questa scelta, e chi sarà costretto a cedere per primo: i manifestanti o le forze di sicurezza? Entrambi i fronti sono ovviamente esausti, perché entrambi sono stati impegnati a occupare le strade per molto tempo. Non è chiaro quale sarà l’esito. Ma penso che indire nuove elezioni sia la soluzione migliore. Nelle tue precedenti interviste per Jacobin hai fatto riferimento alla lotta per il potere interna al partito Alianza Pais dopo che Moreno è succeduto a Correa, notando che il nuovo presidente è riuscito a trasformarlo in un mezzo per perseguire la sua propria agenda politica. I sostenitori di Correa sono stati in grado di sviluppare un nuovo centro politico alternativo ad Alianza Pais capace di presentarsi alle prossime elezioni? Alianza Pais di fatto non esiste più. È diventata un’organizzazione estremamente marginale, che sta lottando per sopravvivere perché la legge elettorale, in Ecuador così come in molte parti del mondo, stabilisce una percentuale minima per esistere come organizzazione politica riconosciuta. Nelle elezioni provinciali e locali di marzo Alianza Pais ha avuto risultati scarsi perché Moreno voleva impadronirsi del partito – non per usarlo come strumento personale, quanto per strapparlo a Correa, che dopotutto è il padre fondatore del partito, e gode dell’appoggio dei suoi militanti. Moreno è riuscito a intralciare Correa, togliendogli un partito che contava eletti in tutto il paese, l’accesso agli account Facebook e Twitter, alla sua infrastruttura, e così via. Ovviamente Correa ha dovuto creare un nuovo partito, e nel farlo si è scontrato con un sacco di ostacoli amministrativi, che ne hanno impedito la formazione. Questo problema si è in parte risolto perché siamo riusciti a stringere un’alleanza con un partito già esistente, così da poter avere dei candidati nelle elezioni di marzo. Ora penso che la situazione si sia risolta, e il correaismo ha un partito capace di avere una rappresentanza istituzionale e prendere parte direttamente alle elezioni. Ma Alianza Pais si basava sull’eredità del decennio di governo di Correa, e i tradimenti di Moreno l’hanno di fatto distrutto. Quello che rimane è una fazione correista chiamata Movimento per la Rivoluzione dei Cittadini. Detto questo, è importante ribadire che le proteste attuali non riguardano soltanto il correaismo. C’è anche una grossa presenza del movimento indigeno. Correa raccoglieva circa i due terzi del voto indigeno, ed era molto popolare in quelle comunità. Ma ai piani alti del movimento – inclusa la Conaie [Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador] – c’era anche una nutrita opposizione a Correa. Oggi parliamo di un fronte anti-Moreno più ampio, che include anche pezzi di sinistra, o almeno che si identificano come sinistra, che non sono mai stati molto vicini a Correa, e che oggi manifestano contro Moreno e il pacchetto dell’Fmi. C’è dunque un insieme complesso di attori che si oppone all’attuale governo – e non sappiamo se, in realtà, saranno mai in grado di formare un’alleanza. Ma parlando da un punto di vista politico ed elettorale, il blocco più grande coinvolto nelle proteste è quello dei correistas. L’ex-presidente rimane il politico più popolare del paese e, malgrado la guerra legale e le persecuzioni messe in campo per distruggere questo blocco, è ancora onnipresente, anche se lo è a fianco di altre forze. Al di là della diversa composizione politica, è vero che la base sociale di queste proteste è composta da persone che hanno votato Moreno due anni fa e che prima votavano per Correa? Credo che sia vero per la maggioranza – che queste siano persone disilluse da Moreno perché ha mentito quando ha detto che questo governo avrebbe proseguito il lavoro di un decennio di rivoluzione. Chiaramente, non l’ha fatto. È un cavallo di Troia, e sin dal 2017 ha provato – e a volte è riuscito – a distruggere molte delle cose che la Rivoluzione dei Cittadini aveva fatto in Ecuador. Ma, in via precauzionale, devo dire che probabilmente sono presenti anche forze che non hanno votato per Moreno nel 2017 e che sono comunque coinvolte nelle proteste. Non ci dimentichiamo che nel 2017 persino alcuni della cosiddetta sinistra, e alcuni nel movimento indigeno, si sono rifiutati di appoggiare Moreno contro l’imprenditore conservatore Guillermo Lasso. Non sappiamo quanti di loro esattamente abbiamo votato per Lasso o quanti non abbiano votato affatto. Ma credo che hai ragione a dire che la maggior parte dei manifestanti sono elettori disillusi di Moreno. Nel parlare del Fondo monetario internazionale sembra di fare un salto indietro nel tempo: anche se non è mai stato cacciato del tutto dall’America Latina, sembrava che non avesse più il ruolo intrusivo dei decenni scorsi. Ma adesso siamo di fronte a un classico dell’Fmi, con la proposta di un programma di austerità in cambio di un prestito, il che ci riporta al tempo in cui persone come Joseph Stiglitz parlavano di «rivolte Fmi». Pensi che l’Fmi abbia perso il suo tocco politico, dopo essere stato lontano dalla regione per un po’ di tempo? Non so se l’Fmi abbia mai avuto il tocco politico di cui parli. Sicuramente ha creato il caos nell’Ecuador degli anni Novanta, e in quel ciclo ci sono state anche quelle che Stiglitz chiamava le rivolte Fmi. Penso che quello che sta succedendo adesso con l’Fmi nella regione – le politiche anti-Fmi in Argentina, la probabile vittoria del peronista di centro-sinistra Alberto Fernandez nel paese, e le proteste che stanno avendo luogo – è un esempio perfetto di rifiuto del neoliberismo, certo perché è iniquo, e aumenta le disuguaglianze, la precarietà e la povertà, ma anche perché semplicemente non funziona. Non è più buono nemmeno per le élite. Non produce una maggiore accumulazione di capitale. Crea cicli di austerità più lunghi, che a loro volta riproducono potenziati i cicli di crescita e crollo. L’argomentazione tipica dell’Fmi di dover imporre un dolore a breve termine per un guadagno a lungo termine non convince più le persone. Per le strade è sicuramente così. Ma non convince nemmeno la maggior parte degli economisti latinoamericani. La classe intellettuale, inclusi molti economisti ed esperti di sviluppo, non sono più allineati con quella che è stata la «marea rosa» [la svolta a sinistra delle democrazie latinoamericane nel ventunesimo secolo, Ndt], ma il dibattito si è comunque spostato dall’instabilità monetaria e la macroeconomia – argomenti cardine degli anni Ottanta e Novanta – verso discorsi più ampi e compositi. Questo ha a che fare con lo sviluppo recente del continente, e soprattutto con la transizione da economie primarie, basate sulle materie prime e sull’esportazione di prodotti, a economie molto più diversificate e meno vulnerabili agli shock esterni. Lo stesso messaggio di Correa riguardava soprattutto il superamento di un’economia basata sulle materie prime, ma persino i suoi oppositori lo attaccavano dicendo che non stava adottando le giuste misure per avviare la transizione. Voglio dire che anche gli oppositori di Correa non erano partigiani del classico pensiero neoliberista dell’Fmi, ossessionato dal debito, dall’inflazione e dalla privatizzazione. Il dibattito riguardava più che altro lo sviluppo, e il creare un’economia più stabile e meno vulnerabile alle fluttuazioni dei prezzi. E sullo sviluppo si può anche adottare il punto di vista dell’Fmi, tutto basato sugli equilibri di bilancio, il deficit e l’inflazione. Ci sono ancora alcuni fondamentalisti fanatici del neoliberismo in America Latina, ma direi che sono una minoranza. Insieme all’Fmi stanno remando contro il corso della storia sia in termini di relazioni con i popoli – come possiamo vedere in queste proteste – sia nel dibattito accademico e più generale relativo allo sviluppo economico. Tradizionalmente, l’Fmi è stato visto come un’estensione del Dipartimento del Tesoro statunitense, ma l’intervento degli Stati Uniti in America Latina ha anche assunto altre forme, molto più intrusive. La svolta politica di Moreno dopo la sua vittoria elettorale è stata ovviamente vista da Washington come un inaspettato colpo di fortuna, soprattutto in termini di politica estera, e senza che il suo candidato favorito avesse vinto le elezioni. Il drastico cambiamento di posizione del governo ecuadoriano sulla vicenda di Julian Assange da questo punto di vista è stato simbolico. In quest’ultima ondata di proteste, ci sono state dichiarazioni o altre forme di intervento da parte dei funzionari statunitensi? Sì, il Dipartimento di Stato ha rilasciato una dichiarazione importante, in cui dava pieno supporto a Moreno. È una dichiarazione decisamente radicale, che sostiene l’idea che tutto questo non sia altro che una cospirazione di Nicolas Maduro e Rafael Correa. Nella sua semplicità e volgarità è una dichiarazione davvero notevole. Dimostra un profondo disprezzo per la capacità delle persone di analizzare da sole la situazione, così come per la decisione sovrana del popolo ecuadoriano di resistere a queste misure economiche imposte in modo antidemocratico. Non ci dimentichiamo che la costituzione dell’Ecuador stabilisce che se c’è un prestito dell’Fmi dev’essere discusso in parlamento. Il governo ha completamente bypassato questo processo, e sotto molti aspetti le misure sono state imposte in maniera autoritaria. Ma il Dipartimento di Stato ha risposto interpretando le reazioni popolari come un’ingerenza di Maduro nella politica ecuadoriana, una posizione patetica se si pensa alle dimensioni delle proteste. In realtà, se guardi agli attori coinvolti, molti di loro non sono allineati col Venezuela – è davvero un argomento assurdo. Ma il ruolo degli Stati Uniti come alleato chiave di Maduro è evidente, e la sua stessa amministrazione ha già portato a compimento un gran numero di compiti che le erano stati assegnati. L’abbandono di Assange era uno di questi, così come lo è stato il riconoscimento del governo auto-proclamato di Juan Guaidó in Venezuela, e la concessione di una pista di atterraggio all’esercito statunitense nelle Isole Galapagos. L’Ecuador di Moreno è stato uno dei paesi che ha accettato con più convinzione il ritorno della Dottrina Monroe nel continente, sposando un bilateralismo esclusivo che vede gli Stati Uniti opporsi alle posizioni dei latinoamericanisti. Fa il paio con il Brasile di Bolsonaro, o forse è addirittura più radicale di lui. C’è una componente geopolitica nelle proteste, non perché i manifestanti pensino necessariamente in termini geopolitici, ma perché questo è un banco di prova per gli Stati Uniti per invertire la storia recente di quella che molti hanno chiamato la «marea rosa» in America Latina. Sono stati molti i modi con cui i governi di sinistra o di centro sinistra in America Latina sono stati sconfitti, o rimossi dall’incarico, attraverso le elezioni come nel 2015 in Argentina, o in altri casi attraverso battaglie legali, o direttamente da colpi di stato, come in Honduras, Paraguay, e forse persino in Brasile. L’Ecuador, tuttavia, ha assistito a un altro genere di transizione, dove un presidente-successore ha voltato le spalle al suo predecessore, alle sue promesse elettorali e al suo programma. Moreno un mese dopo le elezioni aveva detto: «Voglio ringraziare quelli che non mi hanno votato. Sto iniziando a odiare le persone che lo hanno fatto». Una dichiarazione incredibile. Da un punto di vista geopolitico, dalla prospettiva dell’amministrazione Trump, è stato un enorme successo. Eppure le proteste attuali segnano un’importante battuta d’arresto in questo processo, soprattutto nel contesto di quello che sta avvenendo con il ritorno della sinistra in Argentina. Vedremo cosa succederà nelle elezioni di Bolivia e Paraguay, ma queste proteste sono chiaramente uno scacco per la strategia statunitense in Ecuador e nella regione. Era opinione diffusa che la svolta a sinistra dell’America Latina avesse fatto il suo tempo, e che fosse arrivato il momento delle forze conservatrici di diverso tipo. Eppure i cicli politici ed elettorali non sono sincronizzati in tutte le nazioni, e ora vediamo che, dopo quattro anni al governo, l’Argentina di Mauricio Macri – visto come uno degli araldi di questa svolta a destra – si trova di fronte a una situazione insidiosa alla vigilia delle elezioni presidenziali. Persino in Venezuela, malgrado Maduro non abbia trovato un modo positivo di risolvere questa crisi, il favore di cui godeva l’opposizione sembra essere scemato. E ora assistiamo a ciò che sta avvenendo in Ecuador. Hai la sensazione che il pendolo stia tornando indietro, o ti sembra un’affermazione prematura? Ho sempre sostenuto che al limite avremmo perso al ballottaggio – quando la sinistra si dedica alla politica elettorale anziché alla lotta armata, inevitabilmente prima o poi inizia a perdere le elezioni. Ovviamente, il calo dei prezzi delle materie prime iniziato nel novembre 2014 ci ha colpito duramente nei due anni successivi, ma è stato anche un campanello d’allarme per la sinistra, un invito a non concentrarsi esclusivamente sulla redistribuzione, ma a pensare a un cambiamento sistemico dell’economia e delle forme produttive. Come ho già detto, la svolta a destra non sarebbe mai stata capace di spazzare via la sinistra restando trent’anni al potere. Le destre non hanno vinto le elezioni al primo turno con grandi figure carismatiche come ha fatto la sinistra, ma hanno ottenuto vittorie più risicate, e a volte sono state favorite da colpi di stato e guerre legali. Non hanno mai goduto di ampie maggioranze parlamentari, e la loro popolarità è diminuita nel giro di pochi mesi, per via delle riforme neoliberiste a cui davano corpo. Nessuno dei governi di destra della regione gode di un ampio consenso. Se resta confinato nelle regole democratiche, il ciclo della destra sarà breve. Potrebbe forse essere più lungo se diventa autoritario. Nel mondo di oggi, con «autoritario» si possono intendere diverse cose. Sicuramente, includerei le battaglie legali, la persecuzione dei leader e l’inibizione a candidarsi, e altre cose del genere, nella categoria di «autoritario». Ma sono ottimista, e credo che resteremo nell’ambito della democrazia.
Guillaume Long è stato presidente della Commissione per le Relazioni Internazionali dell’Ecuador sotto il governo di Alianza Pais e ministro per le relazioni estere dell’Ecuador. Ha conseguito un dottorato presso l’University of London’s Institute for the Study of the Americans. Daniel Flinn è vice-direttore del New Left Review. È autore di One Man’s Terrorist: A Political History of the Ira.
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