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10 Agosto 2019
Il suicidio politico del M5S
di Sergio Cararo
Tanto tuonò che piovve. Dopo aver logorato da dentro e da fuori il suo governo, Salvini ha rotto gli argini ed è andato alla carica aprendo la crisi.
Che l’obiettivo dichiarato sia quello di mettere a capitale i sondaggi puntando ad un risultato elettorale che gli consegni il paese, non è un mistero per nessuno. Che l’operazione gli riesca non è affatto scontato.
Ma nello scenario di crisi e nuove elezioni che si profila all’orizzonte, due sono le cose che vogliamo sottolineare con forza.
La prima è chiarire sin da subito che non accetteremo il ricatto del voto utile e del meno peggio. Il Pd è da mesi che sta lavorando per sfruttare questo ingannevole contrapposizione con la Lega. Lo ha fatto per anni con il pericolo di Berlusconi ed ha materializzato alternanze peggiori di quelle che invocava a battere. Salvo poi, specialmente sotto la “gestione Renzi”, fare accordi proprio con il Caimano e agire di conserva con la Lega. Non solo. Una onesta disamina delle questioni principali del paese – dal salario minimo alle grandi opere come Tav e Tap, dall’autonomia regionale differenziata alla politica di subalternità a Ue e Nato – vedono una sistematica convergenza tra Lega e Pd. Le uniche (molto parziali) dissonanze sono sulla gestione delle politiche sull’immigrazione, ma solo perché al ministero degli Interni ci sta Salvini e non più Minniti (in quel caso non si sentì nessun grido d’orrore per i lager in Libia). E allora dove sarebbe l’alternativa?
La seconda è un redde rationem con il M5S. Raramente abbiamo visto un movimento politico con la maggioranza dei parlamentari riuscire “a portare l’acqua con le orecchie” ad un soggetto politico differente e “vecchio” come la Lega. L’unico paragone possibile è con “antichi” leader di centro-sinistra come Rutelli, D’Alema e Veltroni nei confronti di Berlusconi; giustamente strapazzati proprio per questo dalla satira.
Ora come allora si cercano le responsabilità al di fuori e non dentro il M5S. Si enfatizzano le cose portate a casa con l’azione di governo (poche e molto depotenziate, rispetto alle promesse), si occultano le occasioni perse e i regali fatti al competitore. Una rimozione e un rifiuto di mettere in discussione una strategia, o un modo d’essere.
L’unica parziale attenuante è che il depotenziamento del M5S è stato sin da subito l’obiettivo dichiarato e convergente sia della destra che del Pd, del Quirinale come della Commissione europea. Un accanimento superiore di quello contro la Lega e Salvini che in fondo è uomo subalterno agli interessi del capitale.
L’anomalia prodotta, facendo saltare il bipolarismo maggioritario, non era ulteriormente tollerabile dai poteri forti, tant’è che ZingaRenzi si è affrettato a rispolverare la jattura della “vocazione maggioritaria del Pd”, mentre Salvini evoca “i pieni poteri” e la logica dell’uomo forte al comando. Due scenari parimenti graditi alle classi dominanti, che da tempo hanno dichiarato la fine della democrazia rappresentativa e la primazia della governance autoritaria.
Ma niente e nessuno può assolvere il M5S e la sua leadership dalle proprie responsabilità.
Il successo può dare alla testa, soprattutto se viene ottenuto troppo facilmente. Un gruppo dirigente con ambizioni di governo non può nascere dalla rete e dal dilettantismo politico, non regge al confronto con i fatti né con competitori, magari per niente onesti, ma sicuramente più esperti.
I rospi ingoiati coscientemente dal M5S (con le rare eccezioni di pochi parlamentari che hanno avuto il coraggio di opporsi), ci hanno ricordato molto da vicino quelli ingoiati dagli onorevoli dei partiti di sinistra dentro i vari governi Prodi.
Sono stati tutti rospi velenosi che allora hanno ucciso l’organismo che li aveva ingoiati pur di tenere in piedi un governo e “impedire che tornasse Berlusconi”; fino al ridicolo di lasciare da soli due senatori della sinistra a votare contro le missioni di guerra e vedere il governo comunque cadere poco dopo sui guai giudiziari della consorte di Clemente Mastella.
Il sì alla Tap, il suicidio politico sulla Tav, la mancata revoca delle concessioni private sulle autostrade, l’approvazione di ben due Decreti sicurezza liberticidi, sono rospi velenosi ormai ingoiati e che saranno letali per i Cinque Stelle.
A poco serviranno un reddito di cittadinanza ancora lontano dall’essere una misura sociale strutturale o la stucchevole litania sulla “riduzione dei parlamentari”. Una idiozia vera e propria. Se c’era (e c’è) un problema di costi della politica, sarebbe stato più semplice e rapido ridurre le retribuzioni, non i numeri della rappresentanza democratica nelle istituzioni (ossia con una legge ordinaria, non con una modifica costituzionale che richiede almeno quattro passaggi e infatti non arriverà al traguardo).
Resta dunque aperto e irrisolto il problema di un’alternativa radicale e credibile al “bipolarismo fittizio” che sostanzia la governance neoliberista nell’Occidente capitalistico; e soprattutto in questo paese, dove mai come oggi questo obbiettivo appare lontanissimo.
Una stagione e una cultura politica di una dilettantesca lotta contro la “casta” (sbagliando troppo spesso bersaglio) sono finite, ma i luoghi comuni che ha prodotto, ancora aleggiano nell’aria e continuano a ostacolare la ricerca di soluzioni efficaci. Prima ce ne liberiamo, prima arriveremo a costruire qualcosa che rompa la gabbia e funzioni davvero nella lotta politica.
Per quanto riguarda ci stiamo provando, seriamente.
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17 agosto 2019
La retromarcia su Roma non basta: Salvini ha già perso (anche se resta al governo)
di Francesco Cancellato
Qualunque strada prenda la crisi di governo, a Salvini non è riuscito il colpo di andare a votare subito. Non solo: ha rivoltato le piazze contro di lui, ha pacificato il Pd, ha ridato il pallino in mano a Luigi Di Maio. Come rovinarsi la carriera politica in dieci giorni al Papeete. Applausi
Voleva andare a votare. Voleva capitalizzare il consenso al suo massimo. Voleva mangiarsi tutto il centrodestra. Voleva avere la maggioranza assoluta del Parlamento. Voleva diventare Presidente del Consiglio di un governo monocolore leghista. Voleva eleggere da solo un Presidente della Repubblica morbido e accondiscendente. Voleva cambiare l’Italia in senso autoritario e illiberale, sul modello dell’Ungheria di Viktor Orban. Voleva blindare il proprio potere per decenni. Voleva tutto questo, Matteo Salvini, e probabilmente l’avrebbe ottenuto se Cinque Stelle e Pd avessero accondisceso alle sue richieste e deciso fosse giusto ridare la parola agli elettori, a causa di una crisi aperta al buio, in pieno agosto, senza alcuna motivazione se non quella di fare il pieno di voti.
Così non è stato, così non sarà. Se c’è una certezza, nel caos di questi giorni, è che alle urne non si torna. Non ci voleva molto a immaginarlo, del resto. Non lo vuole il Movimento Cinque Stelle, che vedrebbe dimezzati i propri rappresentanti in Parlamento. Non lo vogliono i gruppi parlamentari del Pd, composti in larghissima parte da renziani che non verrebbero ricandidati da Zingaretti. Non lo vuole Forza Italia, che verrebbe cancellata dallo scacchiere politico. Non lo vuole Sergio Mattarella, che lavora dal 4 marzo affinché il prossimo presidente della repubblica sia eletto da questo Parlamento, possibilmente da una maggioranza Pd-Cinque Stelle, possibilmente Mario Draghi.
Evidentemente, Salvini sperava in una rivolta di piazza contro il Palazzo, ma gli è andata male pure lì, perché le piazze, improvvisamente, si sono riempite pure di contestatori che hanno rovinato il clima plebiscitario dei suoi comizi in giro per l’Italia. Non solo: da quando c’è la crisi, l’emergenza è lui. Nessuno parla più di migranti, nessuno parla più di Bibbiano, nessuno parla più dell’Europa cattiva, del taglio delle tasse, della prossima legge di bilancio.Come un mostro che finisce per fagocitare tutto, il Salvini d’agosto è riuscito pure nell’impresa di mangiarsi pure tutti gli argomenti che l’hanno reso popolare.
Non bastasse, il Capitano è riuscito pure a resuscitare i suoi avversari e a farli parlare tra loro. È riuscito a pacificare il Pd, con Renzi che oggi condivide l’idea di una maggioranza Pd-Cinque Stelle con D’Alema e Franceschini, fino a ieri suoi nemici giurati. È riuscito a ridare spolvero a Luigi Di Maio, che fino al giorno uno della crisi era un leader virtualmente morto e che oggi si permette di rifiutare l’offerta salviniana di andare a Palazzo Chigi, pur di salvare la maggioranza gialloverde, manco fosse Konrad Adenauer. È riuscito pure a far tornare in vita il simulacro di Silvio Berlusconi, cui Salvini ha offerto un’alleanza fino a ieri negata pure in cartolina, e si è visto pure rimandare al mittente l’offerta di una lista unica.
Può succedere di tutto, d’ora in poi, ma Salvini non potrà cancellare nessuno di questi errori, nemmeno se il governo gialloverde dovesse miracolosamente restare in vita. Non potrà più forzare la mano per andare al voto, non potrà più ricattare il Movimento Cinque Stelle, non potrà più chiedere teste di ministri come Tria, Trenta e Toninelli. Allo stesso modo,dovesse finire all’opposizione, non potrà incolpare nessuno se non se stesso, per esserci andato e dovrà rendere conto al suo partito di aver mollato il colpo senza aver portato a casa l’autonomia per le regioni del Nord. Con l’incognita di un’incriminazione per corruzione e riciclaggio internazionale, nel caso l’inchiesta della procura di Milano sul Russiagate arrivasse davvero a qualcosa, senza più alcuno scudo governativo a proteggerlo. Un capolavoro, davvero.
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