https://www.vice.com/it 09 aprile 2019
Dopo dieci anni, ora nessuno potrà dire di non sapere la verità sulla morte di Cucchi di Leonardo Bianchi
In aula, il carabiniere Francesco Tedesco ha raccontato i fatti di quella notte e chiesto scusa “alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria.”
Ci sono voluti 3458 giorni, migliaia di articoli, un documentario, due libri, un film, diversi processi e l’estenuante battaglia di una famiglia, ma alla fine la verità sulla morte di Cucchi è arrivata in un’aula di tribunale. Si tratta di quello che i familiari per primi hanno sempre sostenuto: Stefano è stato massacrato di botte dai carabinieri che lo avevano arrestato la notte del 15 ottobre 2009.
A dirlo è stato Francesco Tedesco, accusato di omicidio preterintenzionale nel processo-bis. Proprio ieri, all’udienza in corte d’assiste, il carabiniere ha voluto chiedere scusa “alla famiglia Cucchi e agli agenti della polizia penitenziaria” (imputati e assolti al primo processo) per poi raccontare ai magistrati e alla famiglia quello che ha visto dieci anni fa. A dare il via al pestaggio nella caserma Casilina di Roma, ha spiegato, fu Alessio Di Bernardo. “Avevano battibeccato più volte per tutta la notte, erano arrivati all'insulto. Cucchi non voleva fare il fotosegnalamento, non voleva sporcarsi con l'inchiostro e aveva mimato il gesto dimostrativo di una sberla,” ha dichiarato Tedesco. “Di Bernardo invece diede a Cucchi uno schiaffo violentissimo mentre D'Alessandro [un altro carabiniere imputato] gli sferrò un calcio al gluteo.”
A quel punto, “Di Bernardo spinse a terra Cucchi, che cadde col bacino e picchiò la testa, tanto sentii il rumore. E mentre stava giù gli arrivò un calcio in faccia da parte di D'Alessandro.” Tedesco era poi intervenuto per allontanare i due gridando “che cazzo fate” e “come vi permettete, fatela finita.” A suo dire, senza il suo intervento, “i due colleghi avrebbero proseguito.”
Il carabiniere aveva poi chiesto a Stefano come stesse. “Sto bene, sono un pugile." Ma, lo sappiamo, Cucchi non stava affatto bene: “Si era tirato su il cappuccio, stava a capo chino e non diceva una parola.” Lo stesso Tedesco si è definito “sotto choc,” mentre—nel viaggio di ritorno verso la caserma Appia—Di Bernardo e D’Alessandro sembravano tranquillissimi. Da cosa derivasse questa tranquillità lo stiamo scoprendo solo recentemente; ed è quella serie di depistaggi e coperture che per dieci anni hanno cercato di occultare la verità, e che sono oggetto di un’altra inchiesta che vede indagati altri otto carabinieri. Tedesco, infatti, ha spiegato di essere stato subito isolato dai colleghi e invitato da Roberto Mandolini (all’epoca comandante della stazione Appia) a seguire “la linea dell’arma” se voleva continuare a fare il carabiniere. A suo dire, la sua relazione di servizio sul pestaggio di quella sera era stata fatta sparire: “avevo fatto delle denunce precise e non c’era più niente. Sono state modificate le annotazioni in mia presenza come se non esistessi.” In questi anni, Tedesco si è comunque conformato a quella “linea.” Tant’è che nel 2009 non ha raccontato nulla al pubblico ministero Vincenzo Barba; e nel primo processo aveva dichiarato il falso. Se ha deciso di parlare, è solo perché è arrivato il capo d’imputazione per omicidio nel processo-bis. “Era esattamente descritto quello che io avevo visto con i miei occhi,” dice, “ci ho pensato e ho capito che non riuscivo più a tenermi questo peso.”
Quello che è andato in scena ieri, insomma, è l’ennesimo colpo—forse quello più importante—inferto al muro di omertà che la catena gerarchica dei carabinieri ha cercato di erigere intorno alla morte di Cucchi. Ormai nessuno potrà dire di non sapere, né negare la verità nascondendosi dietro perizie o “stili di vita sbagliati.”
Che nel caso Cucchi qualcosa sia cambiato irrimediabilmente lo dimostrano anche altre due circostanze. La prima è che Giuseppe Conte, sempre ieri, ha dichiarato che “il governo è ben favorevole alla costituzione di parte civile in giudizio dell'amministrazione della Difesa”; e la seconda, che pure l’atteggiamento dei massimi vertici dei carabinieri potrebbe cambiare.
Il comandante generale Giovanni Nistri, infatti, ha scritto una lettera a Ilaria Cucchi in cui dice che intende chiedere “l’autorizzazione a costituire l’arma parte civile nel processo per depistaggio ai suoi militari qualora nella richiesta di rinvio a giudizio appariranno evidenti le circostanze che la vedono parte lesa,” oltre a procedere disciplinarmente nei confronti degli autori del pestaggio, delle calunnie e dei depistaggi. È una svolta abbastanza clamorosa, se si considera che qualche mese fa l’incontro con la famiglia Cucchi era stato a dir poco deludente. Tuttavia, c’è anche da far notare che all’interno dell’arma rimangono resistenze. Propria questa mattina, il nuovo sindacato dei carabinieri (Sim – Sindacato dei militari) guidato da Sergio De Caprio—il famoso “capitano Ultimo”—ha rilasciato una nota in cui esprime “profonda delusione e amarezza per non aver mai sentito dagli stessi vertici dell’Arma la possibilità di costituirsi parte civile in favore e a difesa dei Carabinieri che subiscono sputi e insulti da manifestanti nelle piazze o negli stadi e dai Carabinieri che vengono insultati solo per avere indosso una divisa […].” Siamo di fronte alle solite tentazioni: quella di trincerarsi dietro un malinteso “spirito di corpo”, e quella di addossare responsabilità evidentemente gerarchiche—e quindi di sistema—al comportamento “deviato” di poche mele marce. Che è esattamente ciò che abbiamo visto fare finora nel caso di specie, e pure in tutti gli altri “casi Cucchi” per i quali non è stata ancora fatta giustizia.
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