http://contropiano.org/ 9 Aprile 2019
I cinesi d’Europa siamo noi. Conto terzi, però… di Claudio Conti - Guido Salerno Aletta
Da tempo cerchiamo di spiegare che “i soldi ci sono”, come paese e come entrate dello Stato. Ci sono per fare politiche sociali e investimenti produttivi, per far sviluppare il paese in modo armonico e senza le attuali diseguaglianze mostruose. Quei soldi accantonati ogni anno (“saldo primario”) vengono però usati per tutt’altro, in omaggio a un paradigma di pensiero (il mercantilismo ordoliberista) che copre “virtuosamente” interessi materialissimi. Di imprese multinazionali quasi mai italiane. Di una finanza speculativa che solo in parte ha basi nelle nostre città. Di Stati europei che si mantengono grazie ai nostri “sacrifici”. Il tutto in nome dell’”Europa”, che è tutt’altra cosa rispetto all’Unione Europea (così come “l’Italia” è fortunatamente ben diversa dallo Stato italiano e dalla sua degradata classe dirigente). Spesso, nello sforzo di farci capire, siamo stati accusati di fare “ideologia”. Anche quando indichiamo meccanismi concreti, niente affatto eterei come i concetti astrusi. Spesso abbiamo utilizzato materiali e analisi provenienti anche dai media mainstream, o comunque della stampa economica specializzata. Proprio per costringere tutti a guardare la luna (la realtà del paese e dei meccanismi imposti dai trattati europei) invece che il dito (le nostre modeste risorse giornalistiche). Tra i diversi analisti, ancora una volta è Guido Salerno Aletta – con un editoriale su TeleBorsa – a fornirci dati che dimostrano l’esatto opposto rispetto alla narrazione sulle “cicale italiane”. E che inchiodano il mercantilismo tedesco alla responsabilità di essere la causa della caduta dell’economia europea. E di quella italiana in particolare, visto che nel corso degli ultimi tre decenni – dagli accordi di Maastricht in poi – gran parte della capacità produttiva di questo paese è stata ridisegnata per diventare complementare (e subordinata) alle filiere produttive tedesche. Una scelta miope e suicida, sparagnina come capacità di investimento e soprattutto come capacità di visione; tutta giocata sulla compressione salariale e dei consumi interni per poter “competere” sui mercati globali. Poi capita – com’è capitato – che la “globalizzazione” vada a sua volta in crisi e quindi che chi aveva puntato tutto sulle esportazioni si ritrovi improvvisamente con (molti) meno sbocchi di mercato. E non può neanche vendere all’interno, perché i salari sono diventati troppo bassi per assorbire merci che non possono più andare altrove. E dire che stiamo parlando dell’Europa (stavolta è giusto usare questo termine), un mercato di mezzo miliardo di persone, in teoria ai vertici del benessere mondiale! Oltre alla Germania, però, emerge un altro responsabile: Confindustria, ossia l’imprenditoria italiana. Fino agli anni ‘80 – Fiat e Pirelli a parte – questa “classe dirigente” contava abbastanza poco nella politica economica, sovrastata com’era dalla centralità delle imprese pubbliche in settori strategici (Eni, Enel, Iri, Fincantieri, Italsider, Alitalia, Telecom, le cinque banche di “interesse pubblico”, ma anche i panettoni Motta e Alemagna). Poi le “privatizzazioni”, volute dall’Unione Europea e gestite alternativamente da centrodestra (Berlusconi) e centrosinistra (Prodi, D’Alema, Versani, ecc). Et voilà… Una classe di mezze cartucce si ritrova a speculare su un patrimonio produttivo invidiabile ed invidiato (e competitivo). Se ne appropria, lo spezzetta, lo vende, rivende e lo svende, con l’occhio tutto ai patrimoni personali (Colaninno, Tronchetti Provera, Riva, ecc) e nulla agli “interessi del paese”. La parte che resta impegnata nella produzione – proprio come il corrispettivo tedesco – preme per avere salari bassi, niente tutele del lavoro, nessun diritto sindacale reale, niente spese per ricerca e sviluppo. Ottiene tutto, in abbondanza e sempre. Il risultato si vede oggi: brevetti quasi ridotti a zero, l’innovazione rivolta solo a risparmiare lavoro umano, l’università allo sbando, la scuola sulla via dello smantellamento, i lavoratori ridotti a schiavi (orari folli, contratti tutti precari e salari al di sotto delle possibilità di riproduzione), natalità insufficiente a compensare i decessi, “guerra tra poveri” per tenere sotto controllo il malessere popolare… Un paese sulla via della distruzione, “grazie” alla priorità data agli interessi delle imprese private. Buona lettura.
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I nuovi Cinesi? Siamo noi, gli Italiani Guido Salerno Aletta
A guardare i numeri, viene da ridere: una volta era la Cina che sfruttava i mercati esteri per crescere, con la bilancia dei pagamenti correnti in forte attivo. Ma, a partire dal 2016, i rapporti si sono invertiti: ora siamo noi a battere la Cina quanto a saldo attivo dei pagamenti correnti con l’estero. Inutile parlare della Germania, che in questi anni ha macinato un record dopo l’altro, fondando il paradigma della sua crescita sul mercantilismo: conquistare i mercati esteri con una produzione ineccepibile per qualità e prezzi. Questo è il paradosso: mentre per anni abbiamo unanimemente criticato la politica economica e sociale cinese, perché faceva dumping con i bassi salari pur di vendere all’estero, l’Unione europea ha imboccato la stessa strada, a partire dalla Germania, con le Riforme Hartz: mercato del lavoro flessibile, in entrata ed in uscita, precarizzazione del lavoro ed estensione della percentuale dei lavori part-time.
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