http://www.euronomade.info https://www.dinamopress.it/ 15 dicembre 2018
Cronache francesi di Toni Negri
La frattura sociale determinata in Francia dai gilets jaunes non sembra affatto ricomporsi: “Nessuno al momento può dire se questa moltitudine, anziché popolo, non voglia rappresentarsi come classe. Macron lo sospetta, lo teme”
Finalmente il Principe Macron, ha parlato. Ha espresso il suo orrore per la violenza, ha aggiunto quattro chiacchiere sulla miseria del povero popolo francese e sulla sofferenza delle sue famiglie (qualche parola, caratterizzata dal mio vicino come: «Quattro chiacchiere alla Vichy!») ed ha infine chiuso un discorso condiscendente, promettendo tre o quattro cose che con il 2019 avrebbero alleggerito le sofferenze: un aumento di 100 euro sul salario minimo, la rinuncia a tassare le ore di lavoro supplementari e, infine, la sospensione degli aumenti previsti dall’infame tassazione del cosiddetto “contributo di solidarietà” delle pensioni più basse. Per finire, una comica ciliegina: la preghiera ai padroni d’impresa di fare un dono ai lavoratori per la fine d’anno!
Che tutto ciò sia derisorio è evidente. Più grave è il fatto che il sovrano abbia parlato senza rendersi conto della profondità della frattura sociale, della densità della frattura territoriale e della irrecuperabile frattura politica che l’emergere dei gilets jaunes rappresenta.
La loro risposta è stata ovviamente negativa, sdegnosa, spernacchiante. Ed anche sul capitolo “violenza” la risposta è stata dura: «Non hai capito che è solo la nostra violenza che ti ha obbligato a parlarci oggi, mentre cerchi una soluzione ai problemi che abbiamo posto». Questo è il grosso della questione. Fra le righe che cosa ancora leggere? In primo luogo: Macron ha concesso quasi nulla e comunque quel poco è interessante. Aumenta lo SMIC, per la prima volta senza una richiesta esplicita dei sindacati ma semplicemente a fronte di una pressione sociale. Il terreno contrattuale con la forza-lavoro – Macron lo riconosce – si è spostato dalla fabbrica alla società, dal salario al potere d’acquisto. E poi, in secondo luogo, quasi incidentalmente, Macron ammette quel che ha sempre negato, e cioè che il sistema rappresentativo non funziona più come sistema di mediazione tra l’autorità e la società, tra lo Stato e i cittadini. Concede, dunque, dopo questa ondata di lotte, che la discussione debba continuare in una serie di assise generali (sulla fiscalità, sulla salute, ecc.) ma soprattutto rinvia alla mediazione sociale dei sindaci. È un richiamo alle tradizioni “federaliste” della Repubblica, sempre oppresse, ed ora, per ragioni di necessità, resuscitate. Insistiamo ancora su questo passaggio. Macron deve aprire un volet sociale. Capisce che svolgere un discorso, cercare una mediazione semplicemente sul terreno istituzionale non è più sufficiente. Introduce tuttavia ancora accanto al tema del salario minimo quello della moltiplicazione di istanze di mediazione sociale ed il ricorso al municipalismo, al lavoro dei sindaci. È chiaro che qui parla in stato confusionale. È infatti quello che la propaganda istituzionale dello Stato francese e della politica di destra come di sinistra ha sempre rifiutato, pronti ad aprirsi semmai a tematiche referendarie e/o alludendo alla possibilità di uno scioglimento e rinnovamento delle camere. Abbiamo tuttavia visto che la resistenza in proposito è dura e difficilmente superabile.
La moltitudine, che fin qui si è espressa in forme disordinate ma coerenti nel tentativo di riappropriarsi del potere costituente, è più che probabile che non voglia ridiventare il popolo di Macron. La lotta è aperta. Nessuno al momento può dire se questa moltitudine, anziché popolo, non voglia rappresentarsi come classe. Macron lo sospetta, lo teme, lo immagina come il vero pericolo. La sua risposta economica (da finanziere), il suo punto di vista “sociale” (da padrone), sembrano realisticamente riconoscere che questo è il terreno sul quale si svilupperà lo scontro.
Nelle settimane che hanno preceduto l’8 dicembre, quarto sabato di lotte, si è assistito, nel silenzio di Macron, allo svilupparsi di un larghissimo apparato repressivo. La campagna contro le violenze della “terza giornata” (1 dicembre) che aveva visto la polizia circondata ed incapace di uscire dall’Étoile, mentre gruppi di gilets jaunes si diffondevano nella metropoli, è stata feroce. L’indignazione del potere contro la violenza politica dei subalterni ha sempre questi picchi. Naturalmente, senza porre il problema che tutti gli esperti dei movimenti (e di repressione dei movimenti sociali) in Europa si pongono: come disinnescare il movimento, piuttosto che reprimerlo. In Francia, nel felice rapporto che ha sempre legato governi (più o meno socialdemocratici) a sindacati che più o meno cooperavano, la polizia francese non si era mai posta il problema di controllare un’attività autonoma di massa. I gilets jaunes l’hanno fatta impazzire. Ora, la tanto decantata (da macronisti e non) riorganizzazione della polizia per la “quarta giornata” (8 dicembre) non sembra davvero aver risolto quel problema. Invece dell’ascolto e della divisione nel/contro il movimento, la polizia ha cercato ancora un’odiosa prevenzione che ha portato in carcere migliaia di persone e, in seguito, scontri diffusi che non hanno fatto altro che aumentare gli spazi investiti dalla lotta e l’odio (nonché il disprezzo) nei confronti di questo cieco utilizzo della forza. Da notare in questo periodo – ed è stata una cosa estremamente importante – il riaprirsi delle lotte degli studenti e la prima manifestazione delle donne NUDM. Il fronte della protesta contro Macron si sta dunque moltiplicando e stratificando, si costituiscono nuovi focolai di lotta. Anche su questo terreno la repressione è fortissima.
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