Fonte: Il giornale del Ribelle

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30/08/2019

 

Bauman come Kalergi

di Matteo Simonetti

 

Mi è capitato tra le mani, e lo ho comprato anche per il piccolo prezzo di tre euro, un libretto scritto da Zygmunt Bauman ed edito da Laterza. Il testo, il cui titolo è “Oltre le nazioni. L’Europa tra sovranità e solidarietà”, presenta in forma autonoma le integrazioni che lo stesso Bauman fornì nel 2012 ad un suo più ampio saggio sull’Europa del 2006. Ora, tutti conoscono Bauman, soprattutto per l’ormai abusata definizione di società liquida affibbiata all’epoca postmoderna, e lo considerano un esponente della critica alla mercificazione dell’uomo e alla sua omologazione, entrambe frutti della globalizzazione. Personalmente, esattamente come avviene per gli esponenti della Scuola di Francoforte, credo che Bauman sia uno dei coperti fiancheggiatori della stessa globalizzazione, e la lettura di questo libretto ne è una conferma. È indubbio che questa Unione Europea, fin dalle sue origini, come ho mostrato nel mio testo “Kalergi. La prossima scomparsa degli europei”, sia una creazione delle élite finanziarie e che in essa la politica è scaduta al rango non di ancella, ma di sguattera, china col panno in mano sui luridi pavimenti dei palazzi dell’economia virtuale. Ognuno degli attori della grande finanza, del mondo delle multinazionali, come nel caso della Brexit è stato ancora una volta evidenziato, si spende per il sostegno a questa unione come ad ossigeno per i propri polmoni. Le masse popolari, le periferie produttive e legate al territorio delle varie nazioni europee, da qualche anno si stanno invece liberando dal giogo mediatico che li avvinghiava e hanno voltato le spalle a questa cricca europeista, lasciando i cosmopoliti abitanti delle “city” a sostenerla.

Procediamo ad una analisi approfondita del testo. Bauman scrive che “La sensazione che prende piede tra la gente […] è che i parlamenti eletti e i governi […] non riescano a fare il loro lavoro” e che sia “tramontata la fede nella capacità di agire delle istituzioni statali nazionali” e che “viviamo in un’era in cui le istituzioni non credono più in se stesse”. A me pare, contrariamente a quanto sostiene Bauman, che sia tramontata la fiducia nelle istituzioni europee, ovvero l’antagonista degli Stati nazionali, ai quali neanche velatamente richiedono continue cessioni di sovranità. Non sono le istituzioni nazionali a non credere più in se stesse, piuttosto le stesse istituzioni sono state colonizzate dai poteri economici transazionali che dettano le loro agende e che intervengono, direttamente o tramite loro nominati, ogni qualvolta queste rialzino la testa attraverso il consenso popolare. La Ue ricatta gli Stati e condanna a morte gli inadempienti e i devianti, in combutta con Fmi e Banca Mondiale, come nell’emblematico caso greco. La convinzione di Bauman sulla necessaria estinzione degli Stati nazionali viene motivata, con un excursus genealogico, con un richiamo alla Pace di Augusta e a quella di Vestfalia, che pose fine alla sanguinosa guerra dei 30 anni, le quali secondo Bauman imbevono di se stesse le modalità di relazione tra gli Stati fino alla stessa creazione e all’azione dell’Onu, incapace di incidere perché ingessata da quell’infausto richiamo alla non ingerenza e alla autodeterminazione dei popoli di wilsoniana memoria. Nell’interpretazione del filosofo ebreo-polacco il trattato di Vestfalia è stato il modello deleterio, con la semplice accortezza da parte degli Stati di sostituire la “religio” del celebre motto con la “natio”. Ecco che da Bauman la nazione viene subito accostata ad una entità dal sapore metafisico e sganciata dalla storia dei popoli. Essa fornisce al potere “il clichè” e la “cornice mentale” per perpetuarsi, quasi fossimo in un contesto di propaganda mediatica novecentesca. La criminalizzazione dell’idea di Stato-nazione viene rinforzata da una, prevedibile, ulteriore presa di posizione: “Nei secoli successivi quel modello [… venne] acquisendo uno status di auto evidenza e indiscutibilità e gradualmente ma inesorabilmente fu imposto a tutto il pianeta da imperi mondiali”. A me pare invece che gli imperi dei secoli precedenti furono proprio quelli che al modello di Stato-Nazione si opponevano, proponendo un governo alto-borghese, cosmopolita e internazionalista, nel quale la finanza già si mostrava molto più forte della politica. L’ Olanda seicentesca o l’Inghilterra, la quale arrivò a controllare gran parte del globo, anche attraverso le multinazionali dell’epoca, ovvero le Compagnie delle Indie, erano tutto meno che modelli ideali di Stato-Nazione. Se un modello in tal senso dobbiamo individuare, esso è quello teorizzato dall’idealismo tedesco, in Fichte e in Hegel. Fichte in particolare, ne “Lo Stato commerciale chiuso” del 1800, ci mostra come Stato-Nazione e impero coloniale siano agli antipodi, così come agli antipodi rispetto a questo modello politico è l’internazionalismo economico. Fichte dice chiaramente che mai uno Stato-Nazione dovrà estendere i propri confini al di là di quelli naturali, dati dalla presenza delle genti tedesche, né permettere una colonizzazione economica, sia attiva che passiva. Si tratta chiaramente di un approccio difensivo proprio contro lo strapotere dei mercati, magistralmente compreso dal filosofo già 220 anni fa. Lo Stato stesso, anche in Hegel, lungi da essere quel leviatano senza responsabilità e memoria, ha precisi doveri nei confronti dei cittadini. Lo Stato etico, visto da Hegel come totalità organica e non imposizione astorica, in primo luogo dipende da essi, come somma di nuclei familiari pre-esistenti, e in secondo luogo deve preservare l’identità senza stravolgerla, attraverso il rifiuto delle teorie contrattualistiche e quindi contingenti. Gli imperi di cui parla Bauman sono dunque figli di Locke, di Kant, di Rousseau  e, idealmente, di Popper, e tale impostazione liberalista e liberista si riassume nell’operato dell’unico impero oggi rimasto, quello statunitense.

Bauman, dopo questo breve excursus storico, si tuffa nell’attualità: “Molte forze (finanza, interessi commerciali, informazione […]) hanno già conquistato in pratica, se non in teoria, la libertà di sfidare quello spettro [lo Stato-nazione] e fingere che non esista, ma esso continua a frenare la politica”; “L’evidente mancanza di agenzie politiche globali in grado di recuperare questo ritardo e riassumere il controllo di forze capaci di agire su scala globale è probabilmente il principale ostacolo sul cammino impervio verso una “coscienza cosmopolita” adeguata alla nuova condizione di interdipendenza globale”. Bauman si è praticamente già calato le brache, sostenendo che ormai il danno è fatto e che occorre creare una polizia più grande che vi ponga rimedio, e polizia qui non è un termine casuale (si legga Bertrand Russel a proposito). Innanzitutto manca il nocciolo della riflessione: non si avvede il grande filosofo che proprio quelle forze che nomina sono state i nemici più grandi dello Stato-nazione, l’unico freno al loro orizzonte? Come può Bauman darci ad intendere che uno Stato globalizzato sia in grado di controllare gli artefici della globalizzazione? Quali saranno secondo Bauman i principi di tale Nuovo Ordine Mondiale, se non proprio quelli sponsorizzati nei secoli dai globalizzatori?  La politica non è “frenata” dallo Stato-nazione ma si è infiltrata nello stesso con il deliberato proposito di distruggerlo. Se io sono attaccato da un virus non tento di smantellare il mio sistema immunitario perché obsoleto, piuttosto tento di nutrirlo meglio e di chiudere, con l’igiene e le buone pratiche di prevenzione, l’accesso agli organismi nocivi. Non lo uccido preferendogli un sistema immunitario 2.0 che promette meraviglie ma che sulla confezione porta scritto “Nuova Virus s.p.a.”. È evidente che Bauman lavori per la “Nuova Virus s.p.a.”! Non ne siete ancora convinti? Vi capisco. Proseguiamo dunque. Bauman sembra rinsavire per un attimo quando scrive: “ciò di cui avvertiamo la mancanza è l’equivalente/omologo globale delle istituzioni dello Stato-nazione territoriale”. Ma quale saranno le linee guida di questo Stato? Quale l’idea di cittadinanza in grado di tenere uniti i popoli (i popoli esistono, nelle loro diversità, per fortuna!)? Non si può far altro che giocare al ribasso e svuotare il concetto di cittadinanza di ogni suo contenuto, ben oltre quanto fatto dalla rivoluzione francese, realizzando l’equivalente di un contratto economico, un accordo di compravendita.  Questo “livello di integrazione tra gli uomini totalmente diverso” come può essere realizzato se non attraverso quell’omologazione di cui Bauman sembra ai più un feroce avversario? Ed ecco che entrano in campo i modelli, i “lucidi attivisti” in grado di guidarci: Schumann e Monnet, i quali, come dimostro nel mio testo su Kalergi, sono stati invece dei meri esecutori delle volontà dei potentati economici, di stampo angloamericano ed ebraico. Fratelli massoni, spesso doppiogiochisti, che nelle due guerre hanno fatto gli arruolatori per gli americani e gli scagnozzi per i sionisti.  Questi lucidi attivisti sono stati anticipati e spinti dalle idee del primo dei padri dell’Europa, quel Coudenhove Kalergi che mirava alla realizzazione di un popolo meticcio di aspetto asiatico-negroide guidato dall’élite della finanza ebraica.  Prendendo a prestito il pensiero di Habermas, Bauman ci informa che non c’è assolutamente bisogno dell’idea di nazione per avere una democrazia e che “la forza di uno Stato costituzionale democratico si basa proprio sulla sua potenziale capacità di creare e ricreare l’integrazione sociale attraverso l’impegno politico dei cittadini. La comunità nazionale non precede la comunità politica ma è il suo prodotto”. Bene, preso atto dell’entusiasmo per la sovranità popolare sulle leggi e sull’identità pre-esistente, ci dovrebbe spiegare Bauman come mai invece nelle cosiddette democrazie quando il popolo si discosta dai diktat delle élite dominanti, votando la Brexit, dando vita a governi “populisti” e sovranisti, questa autonomia diventa subito espressione delle parti peggiori della società, degli inacculturati, degli analfabeti funzionali, degli webeti. Ci spieghi come mai invece le costituzioni democratiche sono rigide e l’integrazione va sempre ricreata a senso unico, filoimmigrazionista e multiculturalista. Se la comunità nazionale è il prodotto della comunità politica, la si accetti anche quando tale comunità si esprime a favore di un governo nazionalista, antischengeriano, fascista perfino! Altrimenti tutto ciò è solo finzione, solo narrazione ad uso e consumo dei fiancheggiatori della globalizzazione. Bauman vede la soluzione a tale impasse, manco a dirlo nella “unificazione generale dell’umanità” e di quella kantiana pace universale che trasforma semplicemente i conflitti in questioni di polizia interna, tagliando fuori, magari con il futuro utilizzo di eserciti di droni automatici, legittimi rivendicazioni di minoranze o interi ex-stati.  Ma veniamo al dunque. Per Bauman questo mondo è un “arcipelago di diaspore” e “l’Europa si sta trasformando in una collezione di arcipelaghi etnici” (faccio di sfuggita ironicamente rilevare che di solito una collezione ha un collezionista) nelle quali ognuno “ha senz’altro la possibilità di salvaguardare la propria identità nazionale senza dover ricorrere a politiche di assimilazione forzata, come se fosse a casa propria”. Ecco qua servitovi il mix di accettazione del multiculturalismo e del meticciato, intesi come necessità e soluzione alla crisi valoriale, perché le diaspore “si arricchiscono e rinforzano a vicenda”. Ditelo agli ex abitanti delle zone off-limits dell’attuale Belgistan o ai frequentatori delle nostre stazioni ferroviarie che si tratta di arricchimento. Manca solo il “sono risorse” direte voi, invece non manca: “si tratta di trasformare la differenziazione culturale da passiva in attiva,  di vedere in essa non qualcosa da tollerare ma da esaltare, di accettarla come risorsa”. Boldrinauman, praticamente. Sembra di stare dentro Praktischer Idealismus, la summa kalergiana, mancherebbe soltanto la componente ebraica e la paneuropea esaltazione dell’impero asburgico. Ci sono? E certo che ci sono. C’è l’esaltazione del Commonwealth polacco-lituano (enclave pro-giudaismo) e dell’impero austro-ungarico, “imperniato sul principio di autonomia di gruppi etnici e culture, e governato da Vienna, all’epoca incubatrice culturale e brodo di coltura dei più affascinanti e profondi contributi alla filosofia, alla letteratura, alla musica e alle arti visive e drammatiche europee”. Si legga: Freud, Schoenberg, Berg, Zweig e mille altri, e l’occupazione sistematica di ogni ruolo in vista nei teatri, nelle scuole, nella avvocatura da parte delle élite ebraiche. Si trattò di una occupazione fatta per motivi economici, come testimoniato senza infingimenti da Hannah Arendt: “in Austria gli ebrei giunsero a controllare in pochi decenni gran parte delle attività culturali come la stampa quotidiana, l’editoria e il teatro […] gli ebrei poterono organizzare liberamente gran parte delle attività culturali, in particolare quella teatrale a Vienna […] il tentativo di trasformare la celebrità in background sociale, di creare una casta sociale di persone famose simile a quella degli aristocratici […] – erano questi i tratti che caratterizzavano gli ebrei dell’epoca […] ciò che stava prendendo forma non era una rinascita della classicità ma Hollywood. La situazione politica facilitò questo capovolgimento di essere ed apparire ma furono gli ebrei […] a provocarlo e propagarlo […] una percentuale particolarmente alta di ebrei trafficava in attività pseudo culturali, soccombendo alla cultura di massa e al mero amore per il successo”. Ed ecco la stupenda fine della nazione, secondo Bauman: “fare della nazione non un corpo territoriale ma una semplice unione di persone”, principio preso in prestito dal marxista Otto Bauer e sostenuto anche da Vladimir Medem, esponente del Bund, il movimento socialista ebraico, che anzi rilanciava con: “ogni cittadino dello Stato appartenga a un gruppo nazionale la cui scelta dipenda dalle sue scelte personali”. Come dire: “oggi mi sento, dunque sono, portoghese a Viareggio e il giorno dopo estone a Madrid”. Bello… immaginiamo come debba essere profondo questo “sentirsi”. E Kalergi si realizza con questo passo baumaniano: “A tutti noi europei tocca in sorte di vivere in un’era di diasporizzazione crescente probabilmente inarrestabile che promette in prospettiva di trasformare tutte le regioni d’Europa in gruppi di popolazioni miste”. Il boldrinismo risultante non ha però alcuni tasselli, aggiungiamoli: “la popolazione dell’unione Europea […] è destinata a ridursi a 240 milioni […] se non arriveranno nel nostro continente [perché nostro, a questo punto?] almeno 30 milioni di stranieri il sistema europeo non potrà sopravvivere”. Muoiano gli europei e sopravviva il sistema! Ma leggiamo ancora: “il ruolo di salvatori assunto dagli immigranti in un’Europa che invecchia rapidamente” ed entriamo nel festival degli stereotipi. Ma quale sarà secondo Bauman lo stile di vita in questa Europa meticcia?  Utilizzando Richard Sennet, Bauman ci informa che si vivrà in maniera aperta e informale, cioè senza regole: “L’aggettivo informale allude all’assenza di regole di comunicazione prestabilite, poiché si confida che esse si svilupperanno spontaneamente, e che in ogni caso siano destinate a modificarsi man mano che la comunicazione si arricchisce per ampiezza, profondità e sostanza: i contatti tra persone con abilità e interessi diversi sono ricchi quando avvengono in modo disordinato e deboli quando vengono regolati […] gli uffici e le strade diventano disumani quando vi regnano la rigidità”. Traduciamo: non dobbiamo assimilare gli stranieri, né mettere paletti o punti fermi, né regole, né pretendere l’ordine. Tutto andrà per il meglio e l’obiettivo verrà raggiunto. Bauman non vi dice qual è questo obiettivo ma ve lo dico io: è la società kalergiana che presuppone la sostituzione etnica.

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