https://scenarieconomici.it 22 Marzo 2019
La verità sul Neoliberismo: non un modello economico, ma un sistema di potere politico delle oligarchie
In genere si tende a considerare il neoliberismo un concetto prettamente anglo-americano legato alla Chicago School of Economics e che vede nel presidente Ronald Reagan e in Margareth Thatcher le sue figure chiave. LA VERITA’ SUL NEOLIBERISMO di Phil Mullan, traduzione di Renato Nettuno
E’ la paura dello stato nazione come forza democratica che sostiene il progetto neoliberista
“Neoliberismo” è oggi spesso usato come una parolaccia per qualsiasi aspetto del capitalismo non piaccia alla sinistra. Quindi, tutti gli aspetti discordanti della vita economica contemporanea (partenariati pubblico-privato, contenimento della spesa pubblica, disuguaglianza e così via) sono ordinariamente attribuiti al “Neoliberismo”, come se quell’etichetta fosse sufficiente per condannarli. Quando i commentatori cercano di andare oltre il neoliberismo come mero termine peggiorativo, tendono a concepirlo come un fenomeno anglo-americano i cui protagonisti chiave sono la Chicago School of Economists, Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Ma la verità è un po’ diversa. L’eredità intellettuale del Neoliberismo è molto più centro-europea che anglo-americana. Carl Menger, fondatore della Scuola Austriaca, morto nel 1921, nacque nell’attuale Polonia. E le sue due figure di spicco, entrambe importanti nel corso del XX secolo, provenivano anch’esse dall’Europa centrale e orientale. Ludwig Von Mises era ucraino e Friedrich Hayek era nato a Vienna. Ciò che questi pensatori condividevano era un insieme di esperienze formative insolite: una prossimità e una maggiore consapevolezza personale della rivoluzione russa del 1917 e, in seguito, dello Stalinismo e del Nazifascismo. Inoltre, il neoliberismo non è mai stato semplicemente una dottrina economica. Era piuttosto un progetto politico. Emerse poi in parte da una critica alla diffusione della sovranità nazionale che scaturiva dalla dissoluzione degli imperi. Accanto alla dissoluzione degli imperi russo e tedesco, gli imperi Ottomano e Austroungarico giunsero anch’essi alla fine. Molti nuovi stati nazionali, nati politicamente diversi decenni prima, emersero al loro posto. I pensatori, che in seguito si definirono neoliberisti, erano ostili a questo sviluppo. Per esempio, molti di coloro che furono coinvolti nella creazione della famosa associazione neoliberista Mont Pelerin Society nel 1947, non ultimi Von Mises e Hayek, erano cresciuti vedendosi destinati a servire l’ormai deceduto impero austro-ungarico. Erano scontenti del suo scioglimento e giunsero a promuovere il vecchio impero e un’altra istituzione fallita, la Lega delle Nazioni interbellica, come buoni modelli per la federazione internazionale. Tali organizzazioni transfrontaliere, secondo loro, potevano contribuire a realizzare l’unità economica tra i paesi e garantire i benefici di una più ampia divisione del lavoro. Negli anni ’30, i neoliberisti erano tra i più lucidi nel favorire l’intervento statale sovranazionale per preservare e proteggere l’ordine capitalista basato sulla proprietà privata. Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale , Von Mises suggerì di riformare la Società delle Nazioni come un governo internazionale. Sperava che potesse garantire la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone, anticipando così di mezzo secolo il quaderno delle “quattro libertà” del mercato unico dell’Unione Europea. La maggior parte dei neoliberisti, tra cui Von Mises, Hayek e Robbins, accettò che lo stato nazione non dovesse scomparire. Per questo proposero una forma di “doppio governo”: ci sarebbero stati sia nazionali sia sovranazionali. Quelle che erano “questioni culturali” potevano ancora essere gestite a livello nazionale, mentre la gestione dell’economia sarebbe separata dalla nazione e portata avanti a livello mondiale. Questo sistema di “doppio governo” fu visto come un modo per istituzionalizzare il loro fine ultimo: la separazione della politica dall’economia. Un doppio governo avrebbe consentito di separare il regolamento degli stati nazione dal regolamento del capitale e della proprietà privata. Ciò rappresentava una divisione tra ciò che i neoliberali chiamavano imperium (la regola delle persone) e dominium (la regola delle cose). Cercavano di depoliticizzare l’economia in modo permanente, liberandola dall’interferenza della politica e delle persone e lasciandola controllare da uno stato sovranazionale non politico. Le idee neoliberiste e prematuramente globaliste anticiparono quindi anche la successiva depoliticizzazione della politica economica che è diventata così evidente negli ultimi decenni. In effetti, dagli anni ’80, in particolare nei paesi occidentali, l’autorità e il processo decisionale sono stati esternalizzati ad organismi politicamente non responsabili, come le banche centrali “indipendenti” e, in maniera molto evidente, verso l’Unione Europea. I politici nazionali in tutta Europa hanno delegato il potere, la responsabilità, e a volte, convenientemente, la colpa, all’apparato di Bruxelles. La responsabilità sule politiche interne può essere elusa affermando che le “regole dell’Unione Europea” impediscono di fare ciò che le persone desiderano o di cui hanno bisogno.
E’ stata l’esperienza dei neoliberisti negli anni tra le due guerre che ha alimentato la loro aperta ostilità alla democrazia di massa Da un lato, le idee del neoliberismo tra le due guerre sembravano anticipare completamente il quadro economico post-bellico del Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Internazionale per la Costruzione e lo Sviluppo (IBRD) (successivamente ribattezzata Banca Mondiale) – l’Accordo Generale delle Tariffe Doganali e il Commercio (GATT) e, in seguito, la Comunità Europea (che divenne poi l’Unione Europea. Tuttavia, questa reazione intellettuale non impedì ai neoliberisti di diventare attivi nel nuovo regime. La versione tedesca del Neoliberismo, nel 1950 fu ribattezzata Ordoliberalismo, fu probabilmente la più esplicita nello spiegare le responsabilità necessarie dello stato. Prima della guerra, il fondatore dell’Ordoliberalismo, Walter Eucken, della Scuola di Friburgo, chiedeva uno “stato forte” per poter superare gli interessi delle lobby. Secondo Werner Bonefeld, uno scienziato politico, questa forma di neoliberismo ha concepito la relazione tra mercato e stato come quella tra un’economia libera e uno stato forte. In questo spirito, Lard Feld, l’attuale direttore del Walter Eucken Institute (istituito a metà degli anni ’50 dopo la morte di Eucken nel 1950), descrive il “classicismo neoliberista” come il governo che fornisce un quadro normativo, costituzionale e legale per plasmare i mercati. Pur dando qualche copertura affinchè lo stato sposasse un ‘mercato libero’, ammoniva che il governo non dovrebbe intervenire nelle decisioni economiche quotidiane. Feld descrive lo stato come “la forza concentrata” del sistema di libertà. Bonefeld suggerisce che l’Ordoliberalismo è meglio caratterizzato come un liberismo autoritario, che da allora è stato realizzato nella forma dell’Unione Europea. Il globalista del dopoguerra, Jan Tumlir, avvocato e capo economista del GATT per quasi due decenni, dal 1967 al 1985, ha anch’egli concepito l’Unione Europea in termini neoliberali. Come ha affermato nel 1983, “la protezione dell’economia privata dal governo è stata l’idea predominante nel costruire l’impresa europea”. Hayek perseguì lo stesso approccio nel sostenere istituzioni globali per salvaguardare il capitalismo. Per lui, questo significava proteggere ciò che definiva il ‘diritto negativo’ per gli investimenti stranieri di avere libertà dall’esproprio e il diritto di spostare capitali liberamente tra i confini. Da qui l’accoglienza che molti neoliberisti diedero all’EMU (Unione Monetaria ed Economica Europea) dell’Unione Europea e ad una Banca Centrale Europea indipendente (BCE). Ciò equivaleva a una ‘costituzione economica’ per l’Europa. Allo stesso modo alcuni neoliberisti sostengono le controverse disposizioni sugli accordi di risoluzione delle controversie tra investitori e stati nei recenti mega accordi commerciali, che danno alle imprese che operano in territori stranieri diritti legali sullo stato nazione ospitante.
Guide dell’ordine globale La realizzazione post-bellica dell’idea limitata del doppio governo stabilì la coesistenza dello stato nazione accanto a una serie di organismi internazionali. L’obiettivo era un mondo degli stati più controllato di quanto fosse riuscita a fare la Lega delle Nazioni. Questa aspirazione nacque dalle esperienze strazianti della metà del XX secolo. Mentre l’egemonia mondiale degli Stati Uniti era una precondizione per questo ordine post-bellico, è importante notare che le figure dell’Europa continentale erano prominenti nell’influenzare le forme assunte dall’ordine. Ciò rifletteva il fatto che le esperienze strazianti, alle quali l’ordine post-bellico fu una risposta, furono avvertite in modo acuto nell’Europa centrale occupata e devastata dai tedeschi. C’erano tre preoccupazioni che motivavano gli architetti dell’ordine postbellico. Quest’ultimo timore era andato crescendo sin dalla rivoluzione russa. Fu in seguito rafforzato dall’idea comune (sebbene fuorviante) che Hitler e i nazisti fossero stati eletti democraticamente nel 1933. La fusione di queste tre preoccupazioni, che ora esaminerò più dettagliatamente, aiuta a spiegare le politiche e i comportamenti dei globalisti nel periodo postbellico.
1. Evitare il conflitto La preoccupazione immediata per i globalisti riguardava la ripresa del conflitto internazionale. Non sorprende che i termini globalismo e globale abbiano iniziato a guadagnare valore intellettuale subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. La conflagrazione del 1939 segnò l’inizio della prima vera guerra globale. Fino ad allora, la guerra del 1914-1918 era stata chiamata solitamente la Grande Guerra. Sebbene ci furono combattimenti in Africa e in Asia, questa guerra era stata combattuta prevalentemente sul suolo europeo. Alcuni sostengono che la Grande Guerra cominciò ad essere definita Guerra Mondiale nel 1939. Si ritiene che la rivista Time abbia coniato il termine ‘Prima Guerra Mondiale’ nel suo numero del 12 Giugno del 1939. Da questo nuovo sentire, e minaccia, di guerra globale, le menti si rivolsero presto alla necessità di un piano globale per l’ordine di pace. Fu allora che i globalisti enfatizzarono per la prima volta il globale a spese del nazionale. Rosenboim spiega come una rete transnazionale di pensatori globalisti fosse emanata dai traumi della guerra. Le brutali conseguenze delle azioni compiute dalla Germania e dal Giappone sovrani sembravano sopraffare qualsiasi precedente apprezzamento dei benefici della sovranità nazionale. Fritz Scharpf, ex direttore dell’Istituto Max Planck per lo Studio delle Società, scrisse che dopo il 1945 l’autorità politica su scala nazionale sembrava aver perso gran parte della sua pretesa di ‘ottimalità’. Scharpf era in buona compagnia. Gli internazionalisti di varie fedi politiche [pensiamo al “nostro” Altiero Spinelli con il Manifesto di Ventotene – nota del traduttore] condannavano gli stati sovrani ‘egoisti’ come causa della guerra, mettendo in discussione l’efficacia dello stato nazionale come unità politica autonoma. Poiché una federazione di nazioni democratiche era stata necessaria per sconfiggere il fascismo, un simile tipo di collettività sembrava una visione appropriata per un durevole ordine postbellico. Era anche chiaro che la semplice reintroduzione di un libero raggruppamento tipo Lega delle Nazioni non sarebbe stato sufficiente per preservare la pace. Quindi, istintivamente adottarono la via tecnoratica dell’adozione di regole e sistemi istituzionali per cercare di cementare la cooperazione internazionale. Da qui la priorità che i nuovi globalisti diedero nel 1944, anche se il bagno di sangue continuava in Europa e in Asia, al sistema monetario internazionale di Bretton Woods per regolare i tassi di cambio e istituire il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Questi accordi internazionali furono forgiati per impedire il ripetersi delle caotiche condizioni interbelliche. L’ONU fu varata a San Francisco nel giugno del 1945. Un anno dopo a Ginevra, Lord Cecil, che si era rivolto alla prima assemblea della Società delle Nazioni nel 1920, dichiarò: “La Lega è morta, lunga vita alle Nazioni Unite”. Il GATT venne lanciato un anno dopo, nel 1947. La creazione del GATT incarnava la narrativa postbellica privilegiata e conciliante su ciò che aveva causato il conflitto. Questo enfatizzò le cause economiche piuttosto che politiche, incolpando la guerra di un’escalation che iniziò con l’uso di politiche commerciali discriminatorie, principalmente attraverso le tariffe. Di conseguenza, il primo articolo del GATT impegnava i suoi membri alla non discriminazione. Noto come il principio della “nazione più favorita”, le concessioni commerciali concesse a un membro dovevano essere applicate immediatamente e senza condizioni a tutti gli altri membri. L’adesione a questa disposizione avrebbe proibito quindi il tipo di politiche commerciali discriminatorie che erano state perseguite negli anni ’30 e che sembrava aver portato alla rivalità inter-imperialista.
L’approccio antidemocratico dall’alto verso il basso dei globalisti fu ben illustrato in occasione di una conferenza negli Stati Uniti nel 1958 sulle esigenze di sviluppo dell’Africa. Non c’era un solo africano presente.
Sentimenti simili erano alla base della carta fondativa delle Nazioni Unite, in cui i membri si erano riuniti per “salvare le generazioni future dal flagello della guerra”. La risoluzione collettiva dei problemi sembrava molto allettante per i leader che, due volte nella loro vita, avevano visto i combattimenti recare ‘immenso dolore all’umanità’. Tuttavia, questo appello alle responsabilità degli stati membri fece sì che alcuni globalisti della metà del secolo fossero apertamente delusi dal fatto che la carta delle Nazioni Unite continuasse ad abbracciare la sovranità nazionale dello stato. Gli intellettuali, da H.G. Wells e Barbara Wootton allo stesso Hayek, espressero dubbi sulla creazione di un’organizzazione che dipendesse e rafforzasse la sovranità dei suoi stati membri. Ma, in realtà, questa dipendenza era il risultato decisivo del ruolo svolto dall’apparato degli stati nazionali nel perseguire insieme la vittoria nella guerra. Un fatto che ha mitigò l’idea di ridurre completamente il ruolo dello stato nazionale, quando che la guerra fu finita. In effetti, la pianificazione organizzata che sosteneva il successo dello sforzo bellico degli Alleati aveva impressionato persino i pensatori della Destra. Tuttavia sostenevano che nel nuovo spazio politico globale che si era sviluppato, la nazione era semplicemente troppo limitata per essere efficace da sola. Quindi richiedevano una qualche forma di organizzazione internazionale, pur mantenendo un ruolo per lo stato nazionale rimodulato. Alla fine, la maggior parte dei globalisti ano avanti in quel modo con la costruzione di un nuovo ordine intorno agli stati nazionali esistenti limitando i loro poteri, senza abolirli.
2. Contenere la crisi capitalista La seconda preoccupazione dietro l’ordine del dopoguerra fu la paura del collasso del capitalismo. Il crollo degli anni ’30 scosse Hayek e i suoi colleghi della scuola austriaca esattamente come fece per John Mainard Keynes e i suoi colleghi pensatori tradizionali. Hayek e Keynes intrapresero semplicemente strade diverse per salvare il captalismo. Significativamente però, le strade non erano poi così diverse, come illustrato nel famoso Colloquio di Walter Lippmann a Parigi nel 1938. Fu qui che Von Mises, Hayek e altri presenti scelsero la denominazione di ‘Neoliberismo’ per le loro idee. Walter Lippmann, un influente giornalista americano che era stato in precedenza direttore della ricerca per il consiglio della Grande Guerra del Presidente Woodrow Wilson, fornì un collegamento personale all’ordine internazionale in arrivo. Gli atti del Colloquio incorporavano la stessa riflessione che Keynes fece nel respingere le idee del laissez-faire del XIX secolo. Il loro obiettivo non era principalmente quello di limitare lo stato, ma di ripensare il tipo di stato necessario per salvaguardare il mercato dal collasso. Molti al Colloquio riconobbero che il mercato autoregolamentato era un mito, e sapevano per amara esperienza che il capitalismo autoreferenziale non funzionava. L’economia aveva quindi bisogno di sostegno da parte dello stato. Approvare un ruolo economico al di là del metaforico “guardiano notturno” faceva parte del pensiero neoliberista sin dal suo inizio. La narrativa fantastica odierna secondo cui il neolibersimo globalista è “anti-stato” potrebbe attingere selettivamente ai procedimenti del Colloquio. Alcuni partecipanti criticarono fortemente quella che è stata definita l’illusione del controllo. Se è vero che i neoliberisti volevano che lo stato preservasse il capitalsimo, respinsero con veemenza le proposte socialiste di uno stato per il “controllo generale” dell’economia con “intelligente autorità”. Ripudiarono idee ritenute tanto ingenue quanto dannose. Al contrario i neoliberisti ritenevano che l’economia fosse guidata da milioni di risposte individuali ai prezzi. Era troppo complesso per qualsiasi economista, o qualsiasi autorità centrale, acquisire, comprendere e quindi controllare. Questa enfasi sulla “complessità” si ritrovava anche prima del 1939, perché il tema è prominente nelle odierne teorie della globalizzazione. La discussione prebellica smentisce quei globalisti contemporanei che affermano che la complessità è un elemento relativamente nuovo, derivante dal nostro mondo globalizzato e in rapido movimento, e, come tale, necessita un ripensamento della democrazia in quanto tale forma di governo era fattibile solo nei tempi più semplici prima degli anni ’80. Eppure, come vediamo qui, l’idea di complessità era stata utilizzata da lungo tempo per limitare le pratiche democratiche. Negli anni ’30 la conclusione dei neoliberisti fu che sebbene l’economia fosse troppo complessa per essere controllata, potesse almeno essere ordinata. Questo ordinamento avrebbe non solo cementato la cooperazione internazionale, ma avrebbe anche aiutato a frenare le tendenze destabilizzanti del capitalismo e prevenuto il suo collasso. Da qui il desiderio di regole per incasellare il capitalismo. Sostenevano che, affinchè il mercato potesse esercitare la propria disciplina, doveva essere protetto da un “quadro extra economico” sotto forma di una struttura legale, costituzionale e normativa. Dopo il 1945, il più grande successo economico degli Stati Uniti fu di essere alla guida della risurrezione del capitalismo internazionale dalle macerie della depressione e della guerra. L’FMI e l’IBRD avviarono il processo di ristrutturazione del capitalismo nell’Europa occidentale e in Giappone. Sotto le ulteriori pressioni della Guerra Fredda in corso, gli Stati Uniti si assunsero la responsabilità diretta di accelerare la ricostruzione del capitalismo occidentale.
Mentre Hayek pensava che ‘la democrazia ha bisogno della scopa di governi forti’, riteneva che le democrazie potessero concedere ‘troppo potere’ ai governi
Il Giappone fu ricostruito sotto una efficace operazione americana, guidata dal generale Douglas MacArthur. Per la rinascita europea, gli Stati Uniti presero l’iniziativa con il piano Marshall lanciato nel 1947. Come dimostrano questi interventi dello stato nazione americano, le attività economiche internazionali non furono intraprese escludendo lo stato nazionale. Tutt’altro. Le organizzazioni internazionali e gli stati nazionali lavorarono in tandem. Le decisioni prese a livello sovranazionale si basavano sugli stati nazionali per la loro attuazione, in maniera individuale o in collaborazione. Questa relazione tra lo stato e il capitalismo liberale internazionale è ben rappresentata dal termine “liberismo incorporato”. Questa è la frase coniata nei primi anni ’80 dallo scienziato politico John Ruggie per descrivere l’espressione internazionale dell’economia mista keynesiana. I governi nazionali del dopoguerra che lavoravano all’interno di questi organismi internazionali non vennero scoraggiati ad agire. Al contrario, gli fu chiesto di farlo. In effetti, ci si aspettava che si assumessero una responsabilità statale molto maggiore per la stabilità del mercato e la crescita economica. Ad esempio, le nazioni che aderirono al sistema di Bretton Woods si impegnarono a seguire le nuove regole multilaterali dei tassi di cambio fissi ma regolabili. Ciò in aggiunta all’aiuto delle proprie economie attraverso l’interventismo statale nazionale. Inizialmente, il nuovo regime internazionale riconciliava apertamente le iniziative economiche multilaterali con l’intervento statale nazionale. In contrasto con lo sminuimento globalista contemporaneo dello stato nazione, l’intervento internazionale e quello dello stato nazione non erano visti come opposti.
3. Controllare le masse La terza preoccupazione celata dietro il globalismo è la sfiducia nelle masse. Le élites politiche dell’Europa occidentale uscirono dalla Seconda Guerra Mondiale determinate ad evitare gli sconvolgenti disordini sociali degli anni tra le due guerre. Il passaggio quasi immediato alla guerra fredda assicurò che questo ricordo ansiogeno rimanesse molto rilevante. Le preoccupazioni sul conflitto di classe ebbero una pesante influenza, non solo sull’estensione dello statalismo del welfare domestico, ma anche sull’istituzione del nuovo regime internazionale. I globalisti vedono un “ordine” di qualche tipo come necessario per contenere l’inaffidabilità e il rancore all’interno della popolazione. Interpretano la storia come se le persone comuni preferissero ordine e sicurezza autoritari alla libertà e alla democrazia. Concludono che è stata l’assenza di un ordine internazionale negli anni tra le due guerre a permettere l’ascesa al potere di Mussolini, Hitler, Franco e Stalin. Forse, scrisse lo studioso di politica estera Robert Kagan, se gli Stati Uniti avessero fatto nel 1919 quello che fecero nel 1945, stabilendo un ordine mondiale liberale, potremmo non aver mai conosciuto l’Hitler dei nostri libri di storia. I globalisti neoliberisti come Hayek non differiscono dai keynesiani per i livelli di intervento statale. Piuttosto, la loro opposizione derivava dall’associazione delle politiche stataliste keynesiane al socialismo e le masse indisciplinate. Identificarono l’economia mista postbellica come una variante del socialismo di stato che odiavano. Lungi dal negare l’attivismo di stato in linea di principio, i neoliberisti erano molto più preoccupati dell’influenza del Marxismo e dell’Unione Sovietica, così come del fascismo nazionalsocialsita da cui molti di loro erano fuggiti. Fu il loro rifiuto di queste forme di controllo statale che rafforzò il loro scetticismo sulla democrazia, e per alcuni rinforzò l’aperta ostilità alla democrazia di massa. Il teorico politico americano Wendy Brown ha suggerito che i neoliberisti delle origini, degli anni tra le due guerre, non fossero soggettivamente anti-democratici. Ma la loro enfasi nel tenere la politica separata dall’economia si diffuse per mantenere la politica isolata dalle ‘richieste emotive delle masse ignoranti’. Come spiega un altro resoconto del funzionamento decisionale politico nell’Europa del dopoguerra: Un abbraccio tecnocratico e antipolitico al coordinamento internazionale postbellico si adattava anche all’agenda degli Stati Uniti. Invece di una “lega” basata su una presunta fiducia condivisa nei valori civilizzati detenuti dalle persone, gli USA enfatizzarono i benefici delle competenze scientifiche e tecniche collettive. Costruendo su quella base ed espandendo il lavoro dell’apparato tecnico della Lega delle Nazioni, gli americani cercavano un meccanismo postbellico permanente basato sulle regole. Ciò andò ben oltre la sicurezza nei settori economico, assistenziale e sociale. Almeno nelle discussioni anglo-americane, le nuove organizzazioni stabilite mantennero una motivazione idealistica di servire la democrazia. Tuttavia era evidente sin dall’inizio che le nazioni più piccole, e in generale ogni forma di manifestazione democratica, avrebbero effettivamente avuto poca voce in capitolo sul modus operandi. Ci si aspettava che tutti i membri delle Nazioni Unite obbedissero alle decisioni del Consiglio di Sicurezza, che era dominato dalle cinque grandi potenze (Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica, Cina e Francia). Secondo l’articolo 2 dell’ONU, anche i non membri avrebbero dovuto fare lo stesso. Allo stesso tempo, l’uso del termine “democrazia” assumeva spesso un significato egoistico per le potenze dominanti. Secondo il governo britannico del dopoguerra, il colonialismo era giustificato come “illustrazione pratica della democrazia sotto tutela”. Contrariamente all’idea che la nuove Nazioni Unite promuovessero l’autodeterminazione universale, la sua carta evitò ogni chiaro impegno per la piena indipendenza delle colonie. La carta si limitava invece ad impegnare le potenze coloniali a promuovere “al massimo” gli interessi e il benessere degli abitanti di queste colonie, ora ribattezzate “territori non autonomi”. Anche l’élite politica americana, che parlava del suo approccio “evolutivo” all’autodeterminazione, mantenne un apprezzamento altamente qualificato della democrazia. Negli anni ’50 il segretario di stato del presidente Eisenhower, John Foster Dulles, spiegò che gli Stati Uniti sostenevano l’indipendenza politica nazionale solo quando la popolazione di un paese si era dimostrata sufficientemente “civilizzata”. Dovevano essere “capaci” di sostenere l’indipendenza e di assolvere alle responsabilità nazionali in conformità con le “norme accettate delle nazioni civili”. Ciò che era accettabile fu stabilito dal governo degli Stati Uniti del tempo, non dai popoli di quei paesi. Questo approccio anti-democratico dall’alto verso il basso fu ben illustrato in occasione di una conferenza negli Stati Uniti nel 1958 che fissava l’agenda sulle esigenze di sviluppo dell’Africa. Non c’era un solo africano presente. Riportato alla luce dalla ricerca di Slobodian, Tumlir fu ancora più esplicito nelle sue preoccupazioni riguardo alle masse. Disse che l’ordine economico internazionale stava “proteggendo il mercato mondiale” dalle pressioni popolari. Pur essendo ancora capo economista al GATT, spiegò che ovunque vi sia una democrazia, esiste anche la possibilità che le masse possano prendere in ostaggio lo stato. Lo stato quindi “cessa di essere un governo e diventa un’arena per combattimenti di gladiatori tra interessi organizzati’. Un grosso rischio per la democrazia, concluse, è che può portare al socialismo. Il problema costituzionale, scriveva Tumlir, era che i governi democratici potevano agire contro gli interessi vitali delle loro stesse società. Pertanto, è necessaria una costituzione formale per “strutturare” o “limitare” la discussione politica. La Banca Mondiale ha successivamente richiamato l’attenzione su quelli che descrive come i “pericoli intrinsechi” di una magiore apertura e partecipazione. Le opportunità ampliate per la partecipazione pubblica sono viste come un aumento delle richieste fatte allo stato. Questo, scrisse la Banca, può aumentare il rischio di ingorgo o di cattura dello stato da parte di gruppi di interesse. Tumlir riassume laconicamente la logica dei sistemi basati su regole: “Le regole internazionali proteggono il mercato mondiale dai governi”. Le regole stabilite dalle élites internazionali apparentemente riconoscono gli interessi di una società nazionale meglio di quanto possa fare la sua stessa gente. Le regole non solo mettono delle catene a ciò che i governi possono fare: giustificano anche il rifiuto di impegnarsi in un dibattito politico con la loro gente. Analogamente, la Banca Mondiale ha richiamato l’attenzione su un ruolo delle istituzioni internazionali come meccanismo per assumere impegni esterni quando i governi nazionali intraprendono cambiamenti interni e, potenzialmente, impopolari. Questi impegni esterni rendono più difficile per i governi fare marcia indietro sulle riforme interne di fronte all’opposizione popolare. Regole e democrazia quindi non si mescolano bene. Le regole sono utilizzate per sostenere l’insistenza che non ci sono alternative (TINA, there is no alternative). Non c’e’ nessun vantaggio nemmeno nel discutere di alternative, perché abbiamo delle regole da seguire. Tumlir ha anche spiegato che le regole internazionali possono aiutare a salvare i politici nazionali dalle pressioni interne: “L’ordine economico internazionale potrebbe agire come un ulteriore strumento di trinceramento che protegge la sovranità nazionale contro l’erosione interna”. In questa formulazione orwelliana “proteggere la sovranità nazionale” implica il suo contrario. Significa proteggere l’establishment politico nazionale dai desideri del popolo di una nazione. Con un ordine istituzionalizzato più ampio i politici nazionali sono in grado di rispettare gli interessi dell’economia mondiale o della globalizzazione o dell’Unione Europea o delle regole del WTO, al fine di convalidare le loro azioni o inazioni. E’ conveniente per i leader nazionali avere un padrone sovranazionale che possono indicare al proprio elettorato dicendo con un alzata di spalle : “Abbiamo dovuto farlo, non c’era alternativa”. Per esempio, durante la crisi del debito dell’eurozona nel 2015, la maggioranza degli elettori greci respinse i termini dell’accordo di salvataggio stabilito a Bruxelles e Berlino. Per tutta risposta, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble sintetizzò brevemente il punto di vista globalista: “Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole“. Non è una coincidenza che il rifiuto di Hayek di uno “statalismo minimo” in Law, Legislation e Liberty, si affiancasse a una critica sostenuta della democrazia. In particolare Hayek criticava quella che definiva la democrazia rappresentativa “illimitata e sfrenata” che portò a politiche economiche stupide e dannose. Questa conclusione si basava sulla sua negazione della possibilità del controllo economico, che portò ad un altro rifiuto: le persone non possono essere padrone del proprio destino. Hayek era rappresentativo del globalismo neoliberista quando decise che, per preservare la libertà economica, era talvolta necessario limitare le libertà politiche, compresi i diritti democratici. Se Hayek pensava che la democrazia avesse bisogno della “scopa di governi forti”, era convinto che le democrazie potessero permettere ai governi di avere “troppo potere”. Questo è il motivo per cui è stato sempre attento a distinguere tra le “democrazie limitate” e le “democrazie illimitate”. E la sua preferenza era per la varietà limitata. Questo è il motivo per cui durante tutta la sua vita, e soprattutto dopo il 1945, Hayek e altri globalisti neoliberali riposero crescente fiducia nella legge, sia nazionale che sovranazionale. Hayek distinse il ruolo positivo che la “legge” deve avere dai pericoli di uno “stato legislativo”. Si allontanò quindi dall’espansione della democrazia in tutto il mondo, in quanto permetteva un potenziale intervento economico attraverso la legislazione. Questo aspetto era da lui considerato corrosivo rispetto alla separazione tra politica e economia da lui privilegiata. E’ ormai ampiamente riconosciuto, soprattutto tra gli europei, che il diritto sovranazionale possa prevalere sul diritto nazionale all’interno dei tribunali nazionali. Le operazioni di alto profilo della Corte di giustizia europea lo dimostrano. Ma questa tendenza anti-democratica non significa che i globalisti siano sempre sprezzanti dei tribunali nazionali. Al contrario, molti riconoscono alle corti nazionali il vantaggio rispetto a quelle internazionali di una maggiore parvenza di legittimità. In pratica, anche i giudici nazionali sono considerati più affidabili dei governi democratici per quanto concerne l’applicazione del diritto internazionale. Ciò indica che per i globalisti la denigrazione della politica da parte della legge assume un’importanza ancora maggiore rispetto alla promozione del sovranazionale in sé. Questa tipologia di pensiero conferma che lo scetticismo globalista nei confronti dello stato nazionale è in gran parte guidato dalle ansie per il suo contenuto democratico piuttosto che per i suoi aspetti politici di massa. I globalisti temono lo stato nazionale solo nella misura in cui è un meccanismo di potere democratico. La negazione globalista dell’efficacia delle politiche statali nazionali è per lo più una negazione dell’accettazione della politica democratica. L’attacco globalista e neoliberista al nazionalismo e alla sovranità è in realtà un attacco al potere illimitato del popolo, di cui Hayek era fortemente critico. A complemento dei loro timori combinati di un ritorno del conflitto internazionale e della crisi economica, ciò che preoccupa di più la nostra élite globalista e spesso neoliberista, a un livello più quotidiano, è la democrazia popolare. Sono restii all’idea che le persone si intromettano nelle loro pratiche e procedure tecnocratiche. Conclusione Motivati da queste tre preoccupazioni, conflitto internazionale, crollo del capitalismo e sfiducia nel popolo, i globalisti sono pragmatici, spesso ferventi, sull’utilizzo delle istituzioni statali per mantenere e stabilizzare le relazioni economiche capitaliste. Le regole “liberali” del regime finanziario internazionale furono istituite più per costruire la capacità delle organizzazioni internazionali che per limitare gli interventi dei singoli governi. I globalisti non si accontentano di gestire le istituzioni internazionali, ma anche quelle nazionali, fin tanto che possano rinforzare la protezione dalle responsabilità democratiche. Globalisti e neoliberisti recitano ripetutamente ancora oggi la loro fede nel “libero mercato” e nel “libero scambio”. Ma la libertà che realmente li motiva non è la libertà dall’intervento statale. E’ la libertà dall’intrusione della politica. In pratica questo si riduce alla libertà dal dare delle risposte al popolo. Il triplice obiettivo di proteggere il capitalismo dalla guerra, dal collasso, e dall’intrusione popolare, e in ultimo dall’insurrezione popolare, è ciò che richiede al desiderio globalista di frenare gli effetti potenzialmente dirompenti della democrazia nazionale sui processi di mercato. La sintesi di questi tre timori spiega il nucleo anti-politico del globalismo neoliberista. Slobodian descrive opportunamente il neoliberismo meno come una teoria di mercato, o di economia, che del Diritto e dello Stato. Il globalismo intriso di neoliberismo è molto più un progetto politico che economico. Il contributo più importante di Hayek al globalismo non fu il suo attaccamento romantico al libero mercato. Furono le sue discussioni su quello che lui chiamava “la detronizzazione della politica”. L’ironia sta nel fatto che l’obiettivo neoliberista di “depoliticizzare l’economia” è esso stesso un programma politico. Trova infine espressione nel tentativo di proteggere il capitalismo dalle influenze democratiche. Già nel 1932, Eucken, padre dell‘Ordoliberismo tedesco, aveva denunciato apertamente quella che egli chiamava la democratizzazione del mondo, riferendosi alle masse che entravano in politica attraverso il suffragio “universale” (sebbene al tempo fosse preminentemente solo maschile). Quasi esattamente 50 anni dopo, dopo aver visitato il Cile di Pinochet, Hayek fu altrettanto esplicito circa il suo disprezzo per la democrazia. In un’intervista al giornale cileno El Mercurio, disse di essere “totalmente contro le dittature” come istituzioni a lungo termine ma… “a volte è necessario per un paese avere, per un certo periodo, una certa forma di…potere dittatoriale”. Un quarto di secolo più tardi, ne 2015, Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, espresse lo stesso messaggio autoritario: “Non ci può essere nessuna scelta democratica contro i trattati europei”.
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