https://jacobinitalia.it/ 29 Ottobre 2019
Catalogna, l’unica soluzione è il referendum di Nicola Tanno
Sulla situazione che si è venuta a creare attorno alla richiesta di indipendenza non bisogna fidarsi dei giudizi superficiali. La questione catalana, con tutte le sue contraddizioni, non può essere rimossa
La salma di Francisco Franco vola sul cielo di Madrid. Dopo quasi 45 anni dalla sua morte, 43 dalle prime elezioni democratiche e 23 anni di governi socialisti, finalmente lo stato spagnolo non si farà più carico della cura delle spoglie del Caudillo, ovvero del responsabile della Guerra Civile e di quarant’anni di dittatura. Il suo corpo è stato esumato dalla Valle de los Caídos (dove ancora è sepolto il fondatore della Falange, Primo de Rivera) e posto in una cripta della famiglia. La classe politica e intellettuale spagnola che si è chiesta per anni per quale motivo fosse ancora diffusa nel mondo la leggenda nera sulla democrazia spagnola, si deve essere posta il problema che forse la custodia del cadavere di un genocida non dovesse essere il migliore dei biglietti da visita. Un tentativo di mostrare i passi in avanti della democrazia spagnola, quindi, se non fosse che ci si è arrivati con un po’ di ritardo. E se non fosse, soprattutto, che mentre il cadavere del dittatore vola in elicottero, il mondo intero sta assistendo proprio in Spagna a una frattura politica territoriale senza precedenti nell’Europa occidentale dal 1945.
Dopo la sentenza che ha condannato dodici dirigenti indipendentisti a pene tra i 9 e i 13 anni per i reati di sedizione e appropriazione indebita in occasione del referendum per l’indipendenza della Catalogna del primo ottobre 2017 e la successiva dichiarazione unilaterale, c’è stata un’ampia reazione popolare. Questa risposta, che ha coinvolto tantissima gente, merita un’attenta osservazione per le forze che l’hanno determinata e per le prospettive di questo conflitto. Si tratta di mobilitazioni attese da tempo ma di una portata numerica e di un radicalismo (metodologico e ideologico) accresciuti, nonché di una capacità organizzativa sorprendente. Di contro, la dura reazione delle forze di polizia (catalana e statale), l’incapacità pressoché totale del governo spagnolo di intavolare un dialogo politico con quello catalano – oltre alla prospettiva di lunghi anni di carcere per i dirigenti indipendentisti – lasciano presupporre che lo stallo per la soluzione delle rivendicazioni separatiste continuerà a lungo. C’è solo un modo per uscirne: convocare un referendum concordato e vincolante per permettere a tutti i cittadini catalani di scegliere il proprio futuro.
La sentenza, innanzitutto, presenta tre aspetti principali. Il primo: la richiesta dell’accusa di una condanna fino a 25 anni per ribellione è stata rigettata. Due anni fa, insomma, non ci fu alcun colpo di stato, come è stato invece dichiarato a destra e manca per due anni da politici e giornalisti. I dirigenti indipendentisti, secondo il Tribunale, bluffavano, non avevano alcuna intenzione di realizzare una secessione (come tra l’altro affermavano alcuni dirigenti sotto accusa) ma di usare la mobilitazione popolare come arma di pressione con lo stato. Tale decisione è stata accolta con sconcerto dalla destra spagnola ma comunque non è stata priva di effetti: era stata l’accusa di ribellione a far sì che a giudicare i dirigenti politici catalani non fosse il corrispettivo Tribunale di Barcellona ma l’Audiencia Nacional, ovvero una procura nazionale che si occupa, tra gli altri, di reati politici. Si tratta, insomma, di un tribunale speciale, diretto erede del Tribunale d’Ordine Pubblico franchista, che in molti vedono come un impedimento al rispetto del principio del giudice naturale.
Il secondo elemento di rilievo di questa sentenza consiste nella durezza della condanna. Il tribunale guidato da Manuel Marchena ha affermato che non vi fu golpe e che anche la violenza di piazza non era strutturata. Eppure le condanne sono state molto pesanti. In particolare sorprendono i nove anni di carcere imposti a due leader – non membri del governo catalano – come Jordi Cuixart e Jordi Sánchez, accusati di aver spinto la gente alla «resistenza attiva», al non rispetto della legge insomma, anche se si sono sempre distinti nel dare un carattere pacifico e non-violento alle proteste. La chiave, e qui il terzo elemento di interesse della sentenza, sta in come l’Audiencia Nacional considera il reato di sedizione. «Il diritto alla protesta – recita il dispositivo – non può mutare in un esotico diritto all’impedimento fisico agli agenti con il compito di far compiere il mandato giudiziale». Se, come affermaIgnacio Escolar, tale violazione vale 13 anni di carcere c’è da stare preoccupati, visto che una simile definizione coinvolge anche quelle azioni tanto comuni nella Spagna dell’ultimo decennio come il blocco degli sfratti o tante iniziative ecologiste, femministe e animaliste. Insomma, è una sentenza che oltre all’indipendentismo colpisce anche il diritto di protesta.
Non è più (solo) una questione nazionale Che vi sarebbe stata un’ondata di mobilitazioni nei giorni successivi alla sentenza, come abbiamo detto, era previsto. Ma il grado di partecipazione popolare ha superato ogni previsione. L’epicentro è stato l’aeroporto della capitale catalana, dove migliaia di persone sono state convocate da Tsunami Democràtic, una piattaforma che comunica attraverso Twitter e Instagram, causando la cancellazione di 110 voli. Il radicalismo, il coraggio di chi ha partecipato alle mobilitazioni e la grande capacità organizzativa ha sorpreso in molti. Le immagini dell’aeroporto quasi bloccato e in mano a migliaia di indipendentisti ha fatto il giro del mondo e ha reso evidente l’importanza in termini quantitativi e qualitativi della questione catalana nonché della grande difficoltà dell’apparato statale di fronteggiarlo. Non è questa comunque una novità: si tratta dello stesso apparato che non fu capace di impedire l’organizzazione del referendum del 2017 che, seppur senza i crismi dell’ufficialità, vide moltissima gente andare a votare in migliaia di seggi aperti. Anche in questo caso lo stato non ha accettato di dialogare o di cercare di comprendere la portata degli eventi, dando vista alla violenta repressione. Tsunami Democràtic è indagata da parte dello stesso giudice che ha accusato di terrorismo nove membri dei Comitati in difesa del referendum (Cdr). Migliaia di agenti antisommossa della polizia nazionale (che usualmente non opera in Catalogna) sono arrivati a fronteggiare le proteste, causando un’ondata di arresti e di ferimenti e usando i famigerati proiettili di gomma, il cui uso presso la polizia catalana (i Mossos d’Esquadra) era stato bandito dal parlamento catalano.
Ma anche in questo caso il movimento indipendentista ha vinto per goleada la battaglia della narrazione: ha posto l’accento non più sull’indipendenza (per non parlare del concetto di nazione, quasi scomparso nello storytelling indipendentista) ma sulla democrazia, la libertà. Così nella immensa marea di protesta nei giorni successivi – specie nello sciopero generale del venerdì dove sono confluite le Marce della Libertà da tutta la Comunità autonoma – si sono incrociate molte cause democratiche non indipendentiste, desiderose soprattutto di contestare una sentenza giudicata ingiusta assieme alla dura reazione delle forze dell’ordine. È questa capacità di unire che ha reso quello catalano uno dei più grandi movimenti politici al mondo: mentre da un lato vi è un popolo, seppur plurale ma unitario, che marcia più o meno compatto verso la propria Itaca e che si riconosce e si rispetta al suo interno, dall’altra non esiste un soggetto analogo che lotta per l’unità della Spagna. Le altre milioni di persone contrarie all’indipendenza hanno una capacità di mobilitazione neanche lontanamente comparabile a quella indipendentista perché innanzitutto i suoi membri non si riconoscono l’un con l’altro. Convinti antisecessionisti e progressisti hanno dimostrato incapacità di marciare uniti alle le destre del Pp, di Ciudadanos o di Vox. Non esiste una Itaca spagnola, un grande sogno da realizzare compatti. Manca del tutto una narrazione unitaria. Questo è uno dei grandi punti a favore dell’indipendentismo, che invece riesce agilmente a superare le differenze ideologiche.
La causa migliore Resta da capire se questo coraggio, questo radicalismo democratico, questa voglia di rottura siano rivolte verso la causa migliore. Seppur il linguaggio di sinistra ha preso via via piede nel Procésindipendentista e nonostante le prospettive di rivoluzione sociale presentate dalla Cup (la Coalizione della sinistra anticapitalista favorevole alla secessione), è indubbio che tra le conseguenze della crescita di questo movimento vi sono stati 1) una quasi scomparsa di un’agenda sociale in Catalogna, completamente concentrata pro o contro l’indipendenza; 2) il conseguente un indebolimento tanto della sinistra non indipendentista catalana (l’area di Catalunya en Comú) che di quella spagnola, schiacciate nella contesa tra i nazionalismi spagnolo e catalano.
Sul primo punto vale la pena ricordare come rinacque il movimento indipendentista, dopo decenni di prevalenza di un nazionalismo conservatore autonomista. La sentenza del tribunale costituzionale che bocciò una gran parte degli articoli del nuovo Statuto della Catalogna (a seguito di una spregevole campagna della destra spagnola che alimentò la catalanofobia nel resto della Spagna) generò l’enorme reazione popolare. Il 10 luglio 2010 un enorme corteo con in testa tutti i presidenti della Generalitat catalana (quindi anche i socialisti) diede vita a una prima reazione. CiU, il partito nazionalista conservatore che aveva governato dal 1980 al 2003 e che avrebbe rivinto di lì a poco le elezioni locali, non aveva ancora dato vita alla sua svolta indipendentista. Poi, tra il 2010 e il 2014 tutta la Spagna fu attraversata da un movimento politico di sinistra, contro l’austerità, la corruzione, per i diritti sociali. Le immagini delle piazze spagnole riempite per settimane dagli Indignados fecero il giro del mondo, oltre a quelle di tante altre battaglie: tre scioperi generali, il movimento contro gli sfratti, le battaglie dei minatori delle Asturie, l’Intifada di Gamonal. Emblematici di come la divisione tra destra e sinistra avesse ripreso piede in Catalogna fu il tentativo di migliaia di giovani di impedire fisicamente, nel giugno 2011, l’entrata nel Parlamento di Barcellona ai deputati poco prima che votassero un durissimo pacchetto di austerità. Forse fu sull’elicottero che gli permise di scavalcare i contestatori che Artur Mas, in quel momento Presidente della Generalitat, pensò che era giunto il momento di rimettere la nazione al centro del discorso politico. Nell’autunno 2012, dopo una partecipata manifestazione indipendentista nel giorno della festa nazionale catalana, Mas prese il treno fino a Madrid, incontrò il presidente del Governo Rajoy e gli chiese un patto fiscale per la Catalogna. Sapeva già che la risposta sarebbe stata negativa. Tornò dicendo che l’unica strada era l’indipendenza. Convocò le elezioni anticipate (in piena fase d’austerità) che vennero giocate tutte in chiave nazionale. Gli andarono malissimo, perse la maggioranza assoluta e Esquerra Repubblicana fece a sua volta il passo di sostenere Mas. Il blocco nazionale venne così ricostituito. E il popolare Rajoy a sua volta si sentì tranquillo: non credeva minimamente che l’indipendentismo sarebbe stata una minaccia seria e avrebbe potuto usare lo spettro catalano per ricompattare gli spagnoli dietro alla bandiera dell’unità nazionale.
Sette anni dopo è indubbio che i caratteri del movimento indipendentista siano cambiati: il suo vocabolario e le sue pratiche si sono radicalizzate, concetti come la disobbedienza civile fanno oggi parte del lessico di migliaia di persone. Ma mentre i caratteri di un nuovo stato sono tutti da delineare (in una dialettica tra le forze liberali e quelle socialiste); mentre sono spariti da anni movimenti che si oppongono al governo catalano per la sua politica economica, fiscale, sociale; mentre CiU (seppur con un nome diverso) continua ininterrottamente a governare la Catalogna dal 2010, si continua a considerare impossibile unificare le lotte con gli altri popoli della Spagna per modificare l’assetto istituzionale. Lo stato spagnolo è una post-democrazia occidentale, accanto a palesi violazioni di diritti umani, vergognose disuguaglianze e profonda corruzione esiste ancora un tessuto politico e sociale d’opposizione, che si mobilita pure in questa fase di riflusso (vedi l’esplosione del movimento femminista contro la violenza di genere, le lotte nel settore della sanità e quelle dei pensionati). Nonostante un’ondata nazionalista in senso contrario, un anno fa vi era ancora un 43% di spagnoli che si dichiarava favorevole allo svolgimento di un referendum. Non è poco. Si dice che l’indipendenza della Catalogna si otterrebbe per «rompere il regime», generando un effetto catena di rivolta e crollo della forma di stato. Difficile trovare esempi di questo tipo nella storia, piuttosto sono diffuse reazioni inverse, di chiusura, di arroccamento su posizioni reazionarie e razziste.
Ad ogni modo, anche la sinistra spagnola dovrebbe dimostrare più coraggio. Nel settembre del 2017 Unidos Podemos perse migliaia di consensi tanto in Catalogna come nel resto di Spagna per non aver riconosciuto il carattere legale del referendum, da un lato, e per non aver sostenuto la campagna repressiva nonché il commissariamento della Catalogna, dall’altro. Eppure in quel frangente Iglesias e Colau furono promotori di un importante documento, la Dichiarazione di Zaragoza, un testo firmato da Unidos Podemos e da una dozzina di partiti nazionali di diverse comunità autonome, tra cui il PdCat (la nuova CiU). Reclamava una visione plurinazionale dello stato e la convocazione di un referendum sul futuro della Catalogna. Gli costò molto, in termini di voti. Oggi Iglesias, in piena campagna elettorale, affronta con meno decisione le vicende ancor più drammatiche che investono la Catalogna. Pur senza negarlo, non fa del referendum un faro del suo discorso, cercando di spostare l’azione su altre tematiche (anche se non mancano le proposte). Ma se questo può essere visto come un limite tattico, quello strategico è imperdonabile: a cinque anni dalla sua nascita Podemos continua a non lavorare per la convocazione di un referendum sul futuro della Monarchia. È una scelta inspiegabile e sbagliata, ancor più quando una parte del paese dimostra con tutta la sua forza la sua voglia di decidere sul proprio futuro, ancor più quando il Re di Spagna è entrato pesantemente nel dibattito politico avallando la repressione con il discorso alla nazione dell’ottobre 2017.
Chi si muove esce dalla fotografia Gli opinionisti discutono sul futuro del movimento indipendentista. In molti sostengono, come fa Francesc-Marc Álvaro, che l’indipendentismo sia più debole adesso, dopo settimane di proteste moltitudinarie, che prima della sentenza. La ragione starebbe da un lato nelle divisioni sempre più palesi tra i due grandi partiti nazionalisti, PdCat e Erc, che si contendono l’egemonia di questo movimento, e dall’altro nella mancanza di una guida autorevole. Il presidente catalano Quim Torra, indicato da un Carles Puigdemont ancora a Bruxelles in fuga dalla giustizia spagnola, ha dimostrato ben poca capacità di leadership e quasi nessuna voglia di governare. È un militante, e come tale si comporta anche nelle vesti di President. Ma queste analisi sono superficiali. Migliaia di attivisti che in questi giorni hanno dimostrato di non temere la repressione. Hanno vissuto il fallimento delle cosiddette elezioni plebiscitarie del 2015, hanno visto i dirigenti che avrebbero dovuto portare la Catalogna all’indipendenza affermare davanti ai giudici che non si stava facendo sul serio e, tuttavia, non hanno minimante messo in discussione le scelte adottate né quelle future che implicano la separazione dalla Spagna. Nessun indipendentista si è battuto il petto quando Xavier Melero, avvocato dell’ex consigliere degli interni Quim Forn (condannato a 10 anni di reclusione) smontavadavanti a un tribunale spagnolo la presunta serietà della dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Non c’è stato né bagno di realtà né pentimento. E la concorrenza tra Erc e PdCat (puntellati a sinistra dalla Cup) non ha fatto altro in questi anni che far prevalere costantemente le posizioni più radicali (la dichiarazione d’indipendenza, la mancata convocazione delle elezioni da parte di Puigdemont che forse avrebbe evitato il commissariamento provvisorio della Generalitat, la bocciatura della legge di bilancio presentata da Pedro Sánchez nel 2018, il rifiuto senza precedenti di impedire al socialista catalano Iceta di divenire Presidente del Senato). «El que se mueve, sale de la foto»: questa è la linea che prevale nell’indipendentismo catalano e, anche quando è sbagliata, alla fine è quella che lo rende forte.
Questa impostazione radicale è stata ben rappresentata da Elisenda Paluzie, presidentessa dell’Anc (i cui due suoi predecessori sono entrambi in galera) nella manifestazione al termine dello sciopero generale del 18 ottobre: «Ci interessa poco quanti deputati eleggeranno» ha dichiarato riferendosi ai partiti politici, e ha poi spinto per una nuova dichiarazione unilaterale d’indipendenza. «Ci sarà la gente a difenderla», ha aggiunto. Questo è lo spirito che guida oggi l’indipendentismo e non si fermerà né per via delle tensioni tra partiti né della repressione.
Davanti a questo scenario l’unica prospettiva sensata è la convocazione di un referendum che decida il futuro della Catalogna. Come disse anni fa Pablo Iglesias, questa consultazione «prima o poi si terrà». È così. Per quanto ci si appelli al fatto che il diritto alla secessione non è previsto in nessuna Costituzione bisogna far conto coi fatti, coi rapporti di forza. L’indipendentismo ha vinto la battaglia egemonica rendendo questo aspetto centrale e da esso non se ne uscirà finché la comunità internazionale non presserà la Spagna affinché si possa celebrare. Pedro Sánchez, irresponsabilmente, ha convocato le elezioni ben sapendo che avrebbero coinciso con i giorni successivi alla sentenza. Avrebbe potuto provare a governare con il sostegno di Unidos Podemos e delle forze nazionaliste autonomiste costruendo con essi un periodo di dialogo ma ha preferito apparire davanti agli spagnoli come il presidente d’ordine. La storia gliene chiederà conto, soprattutto se il 10 novembre il risultato sarà favorevole alle destra. Egli, come quasi sempre è accaduto al Psoe, crede che il problema politico si possa risolvere con l’intervento di giudici e polizia. Oppure con operazioni massmediatiche, come il volo della mummia di un dittatore. È un’illusione perché di certo l’onda catalana non si fermerà in questo modo.
Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.
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