https://www.huffingtonpost.it/ 14/01/2019
Le radici dell'egemonia populista di Antonio Preiti
Populisti Il modo in cui cadono i governi "populisti", lo dobbiamo ancora scoprire. Se bastassero gli errori, le incapacità e, in qualche caso, le inettitudini, il governo sarebbe già dimissionario. Nonostante tutto, almeno finora, il consenso verso le forze di governo resta alto, intorno al 60%. Questa combinazione inedita di performance basse e di consenso alto, indica che il fronte anti-populista ha bisogno d'altro, di uno schema nuovo (pensieri, parole, azioni), perché l'intensità non è una strategia. Lo stesso negli Stati Uniti dove Trump, nonostante il numero inverosimile di bugie smascherate; l'inchiesta sulle interferenze russe, le ripetute volgarità e, in ultimo, il blocco del bilancio nazionale, il suo gradimento è intatto. Nonostante la freschezza di Alexandria Ocasio-Cortéz, di Beto O'Rourke e delle altre nuove "stelle" democratiche, la sinistra radicale non riesce a impensierire Trump. Si vede che l'ascesa populista ha una natura diversa. Vuol dire che sono cambiate le regole del gioco, i riferimenti generali dell'opinione pubblica, il modo in cui si giudicano le cose, il linguaggio, il valore delle parole, il senso delle istituzioni, la percezione dei vizi e delle virtù dei leader. Bisogna allora lavorare a una strategia nuova. Non si tratta di tattiche, o di trovate della comunicazione, ma di capire quali siano gli elementi sul piano politico, economico, della psicologia sociale, di gerarchia dei valori, dei sentimenti diffusi su cui è costruita l'egemonia populista. Perché proprio di questo si tratta: di egemonia. E l'egemonia è una battaglia culturale prima che politica e coinvolge ogni aspetto della vita pubblica e privata. Prendiamo nota e proviamo a scrivere i punti essenziali: quasi dei memo per comprendere la nuova realtà, le sue radici, la sua forza, e di conseguenza la migliore strategia per contrastare una politica rischiosa per le sue assonanze con le democrazie illiberali. Sei memo, partiamo dalla prima, l'dentità. L'identità è la questione delle questioni, quella più complicata, radicale, durissima da affrontare nei termini politici tradizionali, perché investe la percezione di sé e del proprio mondo per ciascun elettore. Ciò che era scontato, indiscutibile, invisibile, oggi è l'argomento cruciale su cui si avvitano molte delle questioni politiche più controverse, a partire dall'immigrazione. Se ciascuno avesse una identità globale, da essere umano – diciamo -, dovrebbe essere molto felice perché il mondo non è andato mai così bene come oggi. Escono in continuazione dati e statistiche (un solo libro per tutti, Factfulness di Hans Rosling) che mostrano come il mondo nel suo complesso mai è stato più ricco di oggi; di come interi paesi (dell'Asia, in particolare) stiano uscendo da secoli di indigenza. Sono i frutti positivi della globalizzazione. Se uno guarda al mondo dovrebbe essere felice, se guarda a sé stesso un po' meno. Esemplare è stato il ragionamento con cui Trump ha conquistato Detroit: spostando la produzione di auto in Messico – ha detto – le imprese hanno benefici perché abbassano i costi e aumentano fatturati e profitti; il Messico è felice perché ha nuova occupazione e acquisisce nuova tecnologia; i consumatori di tutto il mondo sono felici perché quell'auto costerà meno. Tutti felici tranne gli operai di Detroit, perché vedranno certamente le auto con prezzi più bassi, ma non le potranno acquistare, perché non hanno più un lavoro. Effettivamente è difficile pensarli felici. La questione però più importante è un'altra. La socialdemocrazia è servita a elevare il tenore di vita di tutti gli stati europei con uno scambio molto semplice: libertà di impresa e un'alta tassazione che finanzi i servizi essenziali (pensioni, scuola, sanità). Perciò le classi meno beneficiate dalla distribuzione del reddito ottengono, in forma di servizi, quello che non hanno in termini di reddito diretto. Tutto questo avviene in un ambito nazionale, dentro i confini nazionali. Se il reddito è prodotto all'estero e la tassazione va all'estero, come si fa a finanziare i servizi dentro i nostri confini? È possibile un welfare mondiale? Certo che è possibile, ma finora non ci ha pensato nessuno. Anzi la bassa tassazione è un incentivo a investire altrove: un corto-circuito micidiale. Questa è la radice economica dell'identità: è difficile sentirsi cittadini del mondo, se i confini dell'identità e della tassazione non coincidono. La globalizzazione, nata fondamentalmente dalla penna di Bill Clinton, cioè dalla penna con cui ha firmato provvedimenti che hanno dato il via libera alla finanziarizzazione dell'economia mondiale, dovrà essere ripensata in qualche modo. Non per negarla, come vorrebbero i sovranisti, la cui visione è miope, perché immaginare l'Italia con il suo 1,5 % del pil mondiale e con la sua popolazione ancora inferiore, combattere e vincere contro la globalizzazione è velleitario. Però qualcosa andrà fatto. Ad esempio, cambiare radicalmente le leggi sulla concorrenza europea, che oggi impediscono a un'impresa di controllare gran parte del mercato europeo di un settore (vicenda Fincantieri). Senza "campioni europei" non si vince sul mercato globale, perciò si pensi alla concorrenza mondiale e non a quella intra-europea. Finora le questioni descritte sono economiche, ma il cuore dell'identità non staziona lì. L'identità si nutre della concezione del mondo che ciascuno, distintamente o meno, ha e manifesta. La difesa e la conservazione dei propri stili di vita è un valore legittimo. L'agire contemporaneo di più fattori, da quelli economici a quelli, ad esempio, del politicamente corretto, in cui è messo sotto accusa il linguaggio, il pensiero, e alla fine l'identità della persona stessa, è spesso vissuto non come un allargamento dei propri confini culturali, ma come un'imposizione, uno scardinamento della possibilità di vivere secondo la propria volontà, insomma– paradossalmente – come un attacco alla libertà di ciascuno. L'idea che il sentire popolare possa essere giudicato da una parte dell'élite come un mix di superstizioni, di ignoranza e di "impresentabilità" morale non aiuta il rapporto che ci dovrebbe essere, in un mondo ideale, tra élite e popolo. Il distacco finisce con il far più male agli intellettuali che al popolo, perché li porta sulla strada dell'autoreferenza. Su questo Gramsci ha scritto parole taglienti: "Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d'origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un'articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso." Non siamo probabilmente a questo, tuttavia siamo lontani dal tempo in cui i film più visti dell'anno erano Fellini (1960), Visconti (1963), Germi (1968), Bertolucci (1988) o Benigni (1994). Si vede che la capacità oggi di fare insieme capolavori artistici e popolari è scarsa. Come si fa allora a costruire oggi un'identità diffusa, popolare, che non sia semplicemente quella residuale anti-modernista alimentata dai sovranisti, senza un'esplicita, adeguata, sincera missione degli intellettuali? Nel vuoto di una cultura che parla solo di sé (con citazioni reciproche, riconoscimenti reciproci, premi reciproci), la gente si rivolge alla stratificazione più profonda, nota e rassicurante che è lì da decenni. Non è più il tempo delle pedagogie: ognuno si costruisce il mondo che vuole; l'universo valoriale che vuole, crede a quel che vuole: il cielo è caduto sulla terra. E se questi mondi sono costruiti più sulla paura che sull'apertura, la risposta non è la loro demonizzazione, ma la comprensione e l'adeguata produzione culturale persuasiva. Questo forse è il memo più difficile da accogliere. Quello più necessario, però.
https://www.huffingtonpost.it/ 18/01/2019
La nuova fisica delle emozioni di Antonio Preiti
Con i cieli caduti sulla terra, cioè sulla fine dell'autorità, si chiudeva il primo "memo" sulle radici del populismo. Qual è la conseguenza? La conseguenza è una nuova fisica sociale con idee politiche che si formano, si alimentano e si affermano in maniera completamente diversa. È la grande trasformazione del modo in cui le persone stanno assieme e comunicano, non ancora compresa, o addirittura rigettata, da chi potrebbe proporre una strategia anti-populista. Il primo difetto di comprensione ha radici lontanissime e si sostanzia nella incredibile (se guardiamo alle scoperte scientifiche su come funziona il cervello) divisione tra ragione ed emozione. La politica, almeno nella percezione delle élite, è intesa come un esercizio razionale, insomma la tecnica applicata ai problemi. La politica sarebbe uno sgombero delle emozioni che arrivano dal basso a favore di un governo razionale e "obiettivo" dei fenomeni. Il governo Monti è stato l'apice di questa concezione. Antonio Damasio, neuroscienziato fra i più grandi, ha scritto che "le emozioni sono al centro dei nostri pensieri e non sono separate dalla ragione, anzi sono il fondamento della ragione, perché ci dicono cos'ha valore per noi." E nella politica è ancora più vero: ciò che ci emoziona, nel bene e nel male, indica quello che ci importa. Il resto è niente. Il mondo digitale ha creato la nuova fisica sociale perché ha dato una scena pubblica a tutti e poter così reinterpretare ogni fatto che accade. Se prima la conoscenza e la coscienza dei fatti veniva dall'alto verso il basso (dalle autorità, dai giornali, dalla televisione), adesso arriva dai propri pari (peer-to-peer), cioè dalle persone con cui siamo connessi: la gente impara dalle persone che ama. Non sono le autorità lontane, astratte, autoreferenti le persone che si amano. E poi c'è Google. La vertigine di Google. Sul mal di testa chiedo a Google; l'opinione del dottore la verifico con Google; come funziona ogni cosa lo chiedo a Google. Poi condivido con i miei pari, sento le reazioni, mi faccio un'idea. L'autorità parte dal basso. La concezione del mondo che prevale, o l'interpretazione dei singoli fatti che prevale, è il frutto di un apprendimento sociale, a cui partecipano tutti, ciascuno con il suo grande, piccolo o nullo bagaglio di sapere. All'ipse dixit si è sostituita la "saggezza della folla". Quello che non riusciamo a comprendere (questa è la novità più grande) è che la conoscenza, anzi la coscienza sociale, è il frutto dell'interazione fra gli umani e le macchine (si veda al proposito, "Invisible Influence" di Jonah Berger). Un esempio. Se voglio sapere qualcosa in più sul jobs act (o su qualunque altra cosa) e chiedo a Google, le risposte che ottengo dipendono da due fattori: chi sono io (perché l'intelligenza artificiale seleziona quelle che hanno più probabilità che io apprezzi) e da chi ha comprato la parola-chiave 'jobs act', e se per caso fossero gli avversari della legge, difficilmente troverei articoli e commenti a favore. Altro esempio è quello dei vaccini: la polemica nasce dallo sciame sociale digitale che l'ha sostenuto. Lo stesso vale, ad esempio, per l'olio di palma. Gli esempi non sono per dire che si tratta di una comunicazione truffaldina, fake news e quant'altro, ma per dire che questi tre argomenti hanno creato emozioni fortissime: che la legge sul job act tolga sicurezza a tutti; che troppi vaccini facciano venire l'autismo; che l'olio di palma sia cancerogeno. Provate a scrivere su Google "olio di palma" e vedrete che il primo suggerimento è "olio di palma cancerogeno". Questo avviene non perché autorità citate da Google dicano che sia così, ma semplicemente perché quell'aspetto dell'argomento è stato il più condiviso, ha ricevuto più attenzione e ha creato più emozione. L'emozione è pensiero veloce, la politica è pensiero veloce, ricorre alle analogie anziché alla logica, forgia analogie creative. Sono le analogie che creano l'immaginario sociale. E il paradosso di tutto questo è che sono sempre più simboliche e non materiali. Il blocco elettorale dei populisti è un blocco emozionale, non economico. La tradizione di sinistra che ha avuto per molto tempo il monopolio del simbolico (le ingiustizie; le pari condizioni; la liberazione dal bisogno che teoricamente coinvolgeva gran parte della popolazione) si ritrova oggi concentrata sulle questioni identitarie delle minoranze, per altro frammentate, come se queste fossero (tutta) la vita, mentre manca l'emozione del Paese tutto intero. La gente non si strugge per l'affermazione di identità delle minoranze. Alle emozioni non si risponde (solo) con l'autorità, ma si risponde con le emozioni: la strada è segnata. Non siamo singoli individui che arrivano a decisioni ponderate; siamo dentro un meccanismo di apprendimento sociale, tutti dipendiamo da tutti e soprattutto da quelli che ci sono vicini (sebbene virtualmente) e ci muoviamo per l'emozione che riceviamo da chi amiamo, o almeno da quelli a cui siamo esposti. I troll c'entrano poco. Quel che però assume maggiori conseguenze politiche, è la (non) valutazione delle emozioni popolari. Mentre si è pronti a difendere l'emozione dellecelebrities (il caso metoo è questo), si è piuttosto indifferenti all'emozione della gente comune. È quasi che le emozioni, per essere riconosciute, debbano far parte di un piano o di un progetto, mentre le emozioni ordinarie, cioè che provengono dalla vita ordinaria (per altro molto più intense e vissute di quelle delle celebrities) significano poco, perché non sono inscritte dentro il manifesto o dentro il dogma. La domanda di sicurezza; la paura dell'automazione senza volto che rende superfluo il proprio lavoro; la paura di perdere lo stile di vita che si è scelto; la paura che il proprio piccolo mondo perda identità generano emozioni profonde, molecolari, radicate, che non trovano ascolto. Per altro, il fatto che, all'interno dei social media, l'élite preferisca Twitter che ha una base di diffusione molto modesta (rispetto a Facebook), ma permette di "parlare dall'alto", è molto significativo. Andare su Facebook significa entrare nella mischia, confrontarsi senza piedistallo, combattere a mani nude, confrontarsi con le emozioni più basiche. Si sta più comodi su Twitter, ma le elezioni si vincono su Facebook. Come lavorare con la nuova fisica sociale? Prendiamo uno degli snodi decisivi rappresentato dai giornali. La loro caduta di vendite e di influenza è evidente. Certo non sarà un editoriale ancora più allarmato sulla deriva "cattivista" dei social media a cambiare la situazione. Bisogna lasciare la pigrizia e ingegnarsi a lavorare nel mondo nuovo. Immaginiamo: il giornale produce notizie, interpretazioni dei fatti e rappresentazione dell'opinione pubblica, che nel mondo nuovo significa rappresentazione dell'emozione pubblica. Il meccanismo è dall'alto al basso. Il lettore prima sceglieva leggendo o non leggendo. Adesso è diverso, perché il lettore reinventa, cioè commenta l'articolo, e per questa via se ne impossessa. I giornali si sottovalutano però, perché potrebbero essere degli eco-sistemi formidabili. Immaginiamo che ogni articolo sia congegnato e distribuito in varie forme (dal tweet al post, all'articolo di lunga lettura) e riceva su ogni canale delle reazioni. A questo punto, con i software necessari (analisi semantica) avrebbero una cognizione, anche in tempo reale, dell'impatto dell'articolo stesso. Allo stesso modo mettendo insieme tutte le reazioni a tutti gli articoli si avrebbe una cognizione del sentimento popolare, non solo verso i singoli articoli ma su quello che collettivamente crea emozione. Su questo il giornale potrebbe reagire a sua volta, magari scandagliando quelle emozioni (e notizie) che non ha privilegiato il giorno prima e "coprire" anche queste emozioni, ricommentarle, esercitando così realmente il ruolo di élite. Il giornale cioè entrerebbe in connessione sentimentale, "da pari", con i suoi lettori. E avrebbe dalla sua parte la competenza, la serietà e la credibilità. Questo è il modo come i giornali possono vincere la partita nella nuova fisica sociale. Una lezione analoga, e anche più potente, è necessaria per la parte politica. Servirebbe, parafrasando il film/romanzo di Montiel, una "Guida per riconoscere i propri santi" che oggi appaiono smarriti: la vedremo più avanti.
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