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29 marzo 2019
Come salvare la democrazia dalla paura
di Gustavo Zagrebelsky
Da sempre la Storia si alimenta dei nostri terrori, dai grandi conflitti in Europa fino ai sovranismi attuali. Anche lo Stato, diceva Hobbes, nasce così Per questo dobbiamo usare l’antidoto più potente e meno buonista: la fiducia segue dalla prima pagina Il consenso c’entra, ma come componente penultima; l’ultima è la paura. Se oggi il tema della paura domina le discussioni sulla crisi della democrazia, si tratta soltanto dell’emersione d’un elemento primordiale in tutte le società. È perfino superfluo ricordare che la più celebre rappresentazione dell’essenza dello Stato moderno, elaborata in un tempo di feroci lotte intestine su territori in cui si trovavano a coesistere fedi religiose e politiche implacabilmente nemiche, ebbe al centro il problema della liberazione dalla paura. Il Leviatano fu una filiazione della paura. Oggi le paure si sono moltiplicate, per esempio per la disponibilità di beni naturali essenziali che scarseggiano e per le cosiddette identità culturali minacciate dal cosiddetto multiculturalismo. Un tempo la paura riguardava il presente, oggi il presente e il futuro.
Dunque, tra tutte le componenti dell’ umana convivenza, la paura è la più determinante. Se si distingue la paura diffusa come veleno sociale dalla paura concentrata come strumento di dominio politico, si può dire che senza la prima, la seconda avrebbe vita stentata, perché si mostrerebbe nella sua totale arbitrarietà, sarebbe priva di legittimità, si reggerebbe sulla nuda forza senza giustificazione. I “regimi forti” non si basano, in ultima istanza, sulla forza, ma sulla paura perché la paura invoca la forza e la rende non solo tollerabile ma anche desiderabile.
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Tempo di paure, tempo di autoritarismi. La storia è testimone generosa di esempi, ma lo è anche l’attualità. Avanzano l’internalizzazione e la globalizzazione della paura. E la paura ci rende tutti più cattivi. Si salvi chi può. Prima noi, gli altri a mare.
La paura è intollerante perché induce alla barbarie del capro espiatorio e alla teoria del complotto. Una volta si trattava dei cristiani, poi degli ebrei, poi degli eretici e dei satanisti, poi dei massoni, poi delle cricche affaristiche, poi dei socialisti; infine dei migranti invasori, manovrati da oscure potenze. La costruzione del capro e dei complottisti è una formidabile arma politica perché divide la società coalizzando gli amici contro i nemici. Così nascono i “partiti della nazione” che chiamano a raccolta contro gli anti-nazionali, cioè gli internazionalisti e i cosmopolitici, e contro gli invasori. Nascono i populisti che pretendono di parlare in nome del popolo tutto intero, da noi in nome di “gli italiani”, e proclamano ch’essi vengono prima d’ogni altro. Fanno della paura altrui la loro forza.
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La divisione amico-nemico è la massima e più cruenta raffigurazione e, al tempo stesso, legittimazione e costituzionalizzazione della violenza come materia e strumento d’azione politica. È pieno di significato che quella dottrina, che è tenuta viva nelle diatribe dei dotti come nelle banalità e nei luoghi comuni, e talora nelle azioni di tante persone, sia stata elaborata tra le due grandi guerre, al tempo della cosiddetta “guerra civile europea”. Essa giustificava l’idea della politica come “integrazione”, parola di per sé piuttosto innocente, anzi pacifica, se indica semplicemente l’ ideale della con-vivenza dei distinti, ma che diventa parola terribile se sottintende l’esistenza di “non integrabili”. I non integrabili, infatti, devono essere tenuti ai margini, privati di diritti, respinti e perseguitati, e all’occorrenza eliminati.
Stabilire chi siano i nemici, i non integrabili, è “operazione sovrana” che si avvale di argomenti o fantasmi tratti da differenze e pregiudizi etnici e razziali, religiosi, politici, nazionali, ecc.
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Che il mondo non sia uniforme, alla stregua dei criteri ora detti, è un dato di fatto e, per qualcuno (tra cui chi scrive) anche una qualità positiva da preservare.
La democrazia non conosce quel genere di sovranità perché è per l’appunto una forma di convivenza per affrontare le diversità rispettandole. Quando, invece, le differenze da dato di fatto si trasformano in paure e ossessioni, diventano terreno di coltura di violenza. Si comprende facilmente che i nemici della democrazia soffino su questo fuoco. La paura, inoltre, è un ingrediente essenzialmente antipolitico, almeno per come la politica s’ intende nella democrazia moderna. A differenza delle concezioni antiche secondo le quali la politica era l’ arte del “buon governo” della polis, nelle concezioni democratiche odierne per politica s’ intende scelta dei fini e la competizione per perseguirli.
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Orbene, quando domina la paura queste cose diventano un lusso che non ci si può permettere. Di fronte al pericolo incombente, taccia la politica, tacciano i politici, anzi i “politicanti”, e si archivino vecchie categorie come quelle di “destra” e di “sinistra”. Esistono solo più nudi fatti che, come si dice, non sono né di destra né di sinistra, di fronte ai quali è vietato dividersi.
L’antidoto alla paura è la fiducia. È difficile dire se sia più “naturale” la paura o la fiducia. Sappiamo tuttavia per certo che ci sono fasi storiche in cui prevalgono la paura e i discorsi d’ odio. Questa è una di quelle. Il “buonismo” è un’ accusa alla quale pochi sanno ribattere.
Del valore della fiducia si è poco consapevoli forse perché essa è implicita nella democrazia, un regime politico che si basa sulla tacita promessa di fidarsi gli uni degli altri, cioè di non ingannarsi e di non cercare di sopraffarsi gli uni gli altri. Delle cose ovvie, non c’ è bisogno di dire. Nel linguaggio politico e giuridico la fiducia, tuttavia, compare con parole eticamente impegnative come fraternità e solidarietà. Poiché queste passioni o esistono o non esistono ma, evidentemente, non possono essere imposte per legge, le relative parole sono relegate nel linguaggio dolciastro, consolatorio, per l’appunto buonista di chi fa prediche costituzionali.
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Tuttavia, se le guardiamo dal punto di vista sociale, sono piene di contenuto. Come ogni coltivatore deve preoccuparsi non solo della salute delle piante ma anche e prima di tutto della buona qualità del terreno, così la democrazia ha sì bisogno di buone istituzioni, ma ancor prima di buona qualità del suo humus sociale. Qui, in quanto si desideri vivere in pace, siamo chiamati in causa. Tutti noi, nessuno escluso.
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La passività, l’indifferenza, l’estraneità, il “non mi tocca” sono la tentazione alla quale si cede facilmente per quieto vivere. «Non mi tocca ancora»: ricordiamo le parole pronunciate da un pastore protestante, Emil Martin Niemöller, in un periodo buio e terribile della storia che ci sta appena appena alle nostre spalle.
«Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me e non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».
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la Repubblica, 28 marzo 2019
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aprile 3, 2019
Chi ha paura della democrazia?
di Francesco Carraro
È uscito un nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky. Si chiama “Come salvare la democrazia dalla paura”. Riecheggia, nel titolo e nei contenuti, qualcosa di già sentito: la retorica della Paura. Che è poi uno dei tormentoni più gettonati tra i custodi del Pensiero Unico. Forse pensando di dire qualcosa di nuovo, il grande costituzionalista ha in realtà dato immeritato lustro a uno dei più abusati clichè su piazza: quello secondo cui le istanze populiste e sovraniste (quindi eccentriche rispetto alla Mono-Cultura oggi dominante) fomentano la paura. Il concetto è variamente declinato anche come segue: tali istanze titillano la pancia delle persone e le loro paure, raccattano voti facendo leva sulla paura, alimentano la paura dell’altro e del diverso. Quest’idea, sempliciotta e ottusa, ha acquistato una sua insospettabile dignità intellettuale al punto da trasformarsi in un vero e proprio luogo comunemente corretto. Uno di quei mantra che, alla stregua di certi cappotti, vanno bene in ogni stagione.
E non solo tra i perbenisti piccolo-borghesi, progressisti, democratici e allineati, ma anche e soprattutto tra l’intellighenzia di riferimento dei medesimi. La quale, benché espressione di una classa sociale e intellettuale in declino, tracima da tutti gli schermi e a tutte le ore sprizzando la sua insopportabile spocchia secchiona. Ma torniamo al punto. In effetti, la paura è un sentimento che fa paura. Vuoi mettere i suoi opposti, come il coraggio, la fiducia, la speranza? Ergo, dare del pauroso addirittura a un’intera categoria di persone, significa utilizzare al massimo grado, su scala mediatica universale, l’espediente retorico noto come “ad hominem”. Esso consiste nello squalificare l’interlocutore attaccandolo sul piano personale cosicchè ogni sua successiva affermazione sarà degradata “a monte” dalla pregiudicata credibilità di chi la pronuncia. Se i sovranisti e i populisti sono paurosi, allora tutto ciò che dicono è solo un impasto di reazioni puerili frutto della loro infantile “paura”. Quindi, la prossima volta che sentite usare questo argomento sapete come demistificarlo in partenza, smascherando la manipolazione ad esso sottesa.
Ma c’è di più. A ben vedere, la paura è il motore propulsivo non di chi vuole cambiare questo mondo, ma di chi vuole mantenerlo così com’è. Su cosa si basano i pipponi sull’ineluttabile unificazione europeista, una volta sfrondati da tutte le cazzate (smentite dalla cronaca) del promesso benessere e della immancabile crescita? Sulla paura che possano ripetersi i conflitti mondiali del Novecento. E su cosa si regge la logica neoliberista oggi trionfante? Sulla paura che lo spread si alzi e che i Mercati e le Borse ci puniscano e che lo Stato fallisca (a livello macro) e sulla paura che noi, come singoli, non siamo abbastanza bravi a competere e quindi finiamo sul lastrico (a livello micro). Quindi, per tornare a Zagrebelsky, gli diciamo che la democrazia non va salvata dalla paura. Essa, infatti, è già stata soppressa dalle paure di cui sopra. Piuttosto, dobbiamo ribaltare il tavolo: non più lavorare su ciò che ci fa paura, ma su quanto noi possiamo suscitare paura. La democrazia potrà rinascere solo se un numero sufficiente di persone capirà quanta paura hanno di noi – come popolo, come masse “critiche”, e criticamente organizzate – i poteri che l’hanno uccisa. |