https://jacobinitalia.it/ 7 Marzo 2019
Guerra alle donne di Michela Pusterla e Veronica Saba
Dalla controriforma del diritto di famiglia all’attacco all’aborto, l’aggressione ai diritti delle donne ha motivazioni economiche, ideologiche e politiche che si intrecciano. E che forniscono ulteriori motivazioni per scioperare l’8 marzo
Negli ultimi trent’anni, i diritti civili legati all’autodeterminazione delle donne sono stati tema minoritario del dibattito politico e parlamentare italiano. Ad eccezione delle riforme sull’affidamento dei minori (2006) e della legge sul divorzio (1987, 2015), non sono più entrati in campagna elettorale e in parlamento dagli anni Settanta delle grandi conquiste femministe. Nonostante la legislazione a tutela, nella realtà sociale e nelle prassi si è data una progressiva erosione dei diritti conquistati attraverso quelle lotte: il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) è stato consumato dalla cosiddetta obiezione di coscienza, sfruttata oltre i limiti stabiliti per legge; il diritto al divorzio è stato limitato dal costo stesso della procedura a fronte della progressiva precarizzazione del mercato del lavoro. Nel frattempo, l’attivismo Lgbt ha riportato il dibattito sui diritti civili nelle aule parlamentari, arrivando nel 2015 alla Legge Cirinnà, risultato insoddisfacente della battaglia per il matrimonio egualitario e l’adozione per le coppie same-sex. Se le lotte femministe avevano portato nel dibattito istituzionale le rivendicazioni della libertà di divorziare e abortire in maniera sicura, le rivendicazioni di autodeterminazione dei movimenti Lgbt del ventunesimo secolo sono state incentrate sul diritto a sposarsi e ad avere dei figli. Ma questi anni di quasi silenzio sulle libertà di abortire e divorziare e di vivere fuori dal modello della famiglia con figli/e hanno lasciato scoperto il fianco dei movimenti femministi e delle associazioni delle donne, nel momento in cui i cattolici oltranzisti e reazionari anti-choice sono stati catapultati a capo di alcuni ministeri strategici. Oggi, la violenta opposizione parlamentare (e non solo) alla Legge Cirinnà («Davanti al farsi legge del nonsense, bisognerebbe prendere i fucili», scriveva Mario Adinolfi) si riversa con la stessa virulenza reazionaria su quei diritti all’autodeterminazione delle donne che pensavamo solidi nella legge, per quanto intaccati nella prassi. La mancanza di un presidio, all’interno dei partiti dell’arco parlamentare, su queste istanze ha lasciato libertà di azione ai movimenti cattolici, oltranzisti e reazionari, che negli ultimi anni hanno portato avanti una campagna di opinione e di lobbying costante, per quanto minoritaria. Quei movimenti, in una magistrale costruzione di egemonia, sono arrivati a occupare, su questi temi, lo spazio libero lasciatogli da altri, in particolare nei partiti di governo, che non si sono storicamente interessati a questi temi. Nel frattempo, l’ascesa di destre razziste, sessiste e omofobe – favorita dalla crisi economica decennale – ha testimoniato «ancora una volta che il capitale, nella sua versione liberista, non convive a lungo con le libertà liberali». Il ddl Pillon Il primo fronte dell’attacco è il diritto di famiglia e ha preso la forma del disegno di legge 735 presentato dal senatore leghista Simone Pillon, con altri firmatari del suo gruppo parlamentare e del M5S. Il ddl Pillon prevede «alcune rilevanti modifiche normative idonee ad accompagnare questa delicata materia verso una progressiva de-giurisdizionalizzazione». In breve, il ddl si regge sul presupposto ideologico della pre-esistenza (e dell’autonomia) della famiglia «naturale» rispetto alla legge dello Stato e tuttavia si concretizza in un aumento del controllo dello Stato sulle vite di chi divorzia e dei minori coinvolti e – «rimettendo al centro la famiglia e i genitori» – sorpassa il principio del «superiore interesse del minore», cioè il principio informatore di tutta la normativa a tutela dei/delle minorenni. Per quanto la Lega e il M5S non abbiano mai fatto del tema dei diritti riproduttivi un argomento di rivendicazione politica, il ddl Pillon era già presente in nuce nel contratto di governo; ad eccezione del tema strettamente ideologico dell’alienazione parentale, i punti del ddl comparivano nel programma elettorale della Lega alla voce sulla famiglia, che faceva riferimento esplicito al «grave problema sociale di padri separati ridotti in povertà», e (soprattutto!) in quello del M5S, nel capitolo sulla giustizia. Se il principio di «adottare legislazioni che assicurino l’effettiva uguaglianza tra padre e madre nei confronti dei propri figli» è di per sé condivisibile nell’ottica di un ribilanciamento dei doveri tra le figure genitoriali, il ddl Pillon sceglie strumentalmente di non prendere in considerazione le caratteristiche proprie della società e del mercato del lavoro italiani, dove l’occupazione femminile è al 48% e una donna su tre lascia il lavoro a causa della maternità. Volendo formalmente certificare una parità che non esiste, il ddl Pillon finisce per aumentare e legittimare una disuguaglianza materiale: il mantenimento diretto diventa così uno strumento di ricatto e di condanna delle madri disoccupate o sotto-occupate, o comunque generalmente meno pagate degli ex-coniugi, che si trovano private de lege dell’assegno di mantenimento, a fronte di un carico eccessivo di lavoro riproduttivo e di cura e di una minore disponibilità economica. L’istituzione del principio di «equilibrio tra entrambe le figure genitoriali» (bigenitorialità perfetta) non considera né la prassi sociale di delega delle responsabilità genitoriali soprattutto alla madre né l’equilibrio psichico del/la minore, che si trova costretto/a a una spartizione forzata, che non necessariamente rispecchia le sue abitudini e i suoi desideri. Paradossalmente, mentre si fonda ideologicamente su un modello familiare «tradizionale» – che delega alla madre il lavoro domestico e riproduttivo e al padre il ruolo di breadwinner – il ddl Pillon mette tra parentesi questo suo stesso modello, strutturandosi come se i coniugi avessero sempre uguale stabilità economica e/o lavorativa e un ruolo equiparabile (matematicamente, al 50%) nella cura dei figli. Questo fa sì che il coniuge con minore disponibilità economica e maggiore responsabilità di cura – generalmente, la madre – perda le tutele che la legge e la prassi giuridica le davano finora, e venga doppiamente penalizzata dalla mediazione familiare a pagamento e dalla legittimità giuridica data all’alienazione parentale. Inoltre, il ddl Pillon non tiene in considerazione i casi di violenza: il genitore che ha subito violenza (nella quasi totalità dei casi, la madre) deve sottoporsi alla mediazione familiare con l’ex partner violento, e così i minori devono frequentare – nell’ottica della bigenitorialità perfetta – per almeno il 30% del loro tempo il genitore violento. Nel complesso, la legge – che viola la convenzione di Istanbul – è scritta per tutelare gli adulti, e in particolare i padri, nell’atto di separarsi o divorziare: è forte di un’azione di disinformazione pluriennale che ha introdotto nell’immaginario la figura del padre impoverito dall’assegno di mantenimento (quando le statistiche dimostrano che, se è vero che entrambi i coniugi impoveriscono separandosi, sono le donne ad avere la peggio) e che ha portato nel dibattito temi quali le false denunce di violenza o la manipolazione dei figli contro il padre da parte della madre. Nei tribunali, questa ideologia si è resa cultura operativa: già oggi, prima del ddl Pillon, viene concesso l’affidamento condiviso a soggetti denunciati per violenza domestica, anche sfruttando il concetto di «alienazione parentale». Il diritto all’aborto All’attacco frontale al diritto al divorzio – che con il ddl Pillon diventa irrevocabilmente un privilegio di classe – segue un attacco di sbieco al diritto all’aborto, cioè al cuneo fondamentale dell’autodeterminazione delle donne e delle lotte femministe. Negli ultimi anni, i movimenti antiabortisti hanno messo in atto una campagna contro la libertà di scelta, costante e a bassa intensità, con alcuni picchi di sovraesposizione mediatica, anche grazie a una fitta rete di finanziamenti internazionali. Hanno tentato una colonizzazione dell’immaginario, attraverso due strategie: quella di presentare il feto come soggetto portatore di diritti («il feto è un cittadino» o, cattolicamente, «una vita») e quella di presentare la donna che si autodetermina «come vittima» e l’aborto «come trauma», che prende forma nella cosiddetta «sindrome di post-aborto», apparsa in letteratura negli anni Novanta. Questa retorica ha permeato il discorso sull’aborto, stabilendo i parametri del dibattito e distogliendo l’attenzione dalla piaga dell’obiezione e degli aborti clandestini, e si sta concretizzando oggi in una serie di mozioni presentate nei consigli comunali di alcune città e regioni – una mozione che impegna le istituzioni a «informare le donne circa i pericoli dell’aborto volontario», su modello di una petizione del movimento ProVita. L’attacco si è manifestato come un movimento centripeto, dalla provincia al centro e – proprio perché sferrato in luoghi dove non è dato legiferare sulla 194/1978 – ha mostrato la sua natura tutta ideologica. L’ultima relazione del ministero della salute sull’attuazione della legge 194/78 certifica 80.733 interruzioni volontarie di gravidanza nel 2017, confermando il trend in diminuzione (meno 4,9% rispetto al 2016 e meno 65,6% rispetto al 1982). L’obiezione di coscienza tra le ginecologhe e i ginecologi è al 68,4% (al 96% in Molise, all’88% in Basilicata, all’85% nella provincia di Bolzano), mentre gli stabilimenti con reparto di ginecologia dove si effettua interruzioni volontarie di gravidanza sono il 74% al nord, 73% al centro, 44% al sud, 58% nelle isole. Il diritto all’aborto – progressivamente eroso attraverso l’obiezione di coscienza – si trova ora di fronte a una sferzata di altro livello: gli antiabortisti al governo. Gravidanza per altri e prostituzione Il terzo, tra i tanti, fronte dell’attacco riguarda la gravidanza per altri. Nonostante la legge 40/2004 la vietasse già, stabilendo che «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600 mila a un milione di euro», il senatore Pillon ha proposto di recente l’inasprimento delle pene già previste, portando la reclusione a sei anni e alzando la sanzione minima da 600 a 800 mila euro, estendendo la pena a chi va all’estero, pratica che il senatore definisce «turismo riproduttivo». Questo accanimento assume ancora una volta i tratti della prepotenza: si tratta di un atteggiamento che mira a normalizzare e neutralizzare qualsiasi tipo di opposizione al modello familista, patriarcale ed eteronormativo. Anche nel caso in cui le proposte targate Family day non diventassero legge, la diffusione di questi discorsi mira a incidere sulla mentalità e sugli immaginari, facendo passare il messaggio che non c’è spazio per alternative al modello della famiglia tradizionale. «Anche se l’80% delle persone che ne fa uso sono eterosessuali, nel senso comune la gestazione surrogata è la tecnica di riproduzione destinata a dare bambini alle lesbiche e ai froci»: in altre parole, sebbene la nascita attraverso Gpa riguardi solo in maniera residuale i figli delle coppie same-sex, quest’ultima diviene pretesto di un attacco omofobo, che mira a consolidare immaginari conservatori, nell’intento di bloccare il presunto «declino morale» della società europea, causato da aborto, contraccezione, divorzio, omosessualità e – naturalmente – ricorso alla gravidanza per altri. Nel frattempo, il ministro dell’Interno propone di riformare la legge Merlin, attraverso la riapertura delle case chiuse, facendo propria una battaglia storica della Lega Nord, che viene riproposta ora attraverso la retorica del decoro e della sicurezza. Questa proposta evidentemente non viene da un ragionamento sul sesso come lavoro e sulla (parziale) autodeterminazione nella scelta del proprio lavoro all’interno del regime capitalista, ma piuttosto dalla volontà di mantenere una fetta di lavoratrici e lavoratori sotto il controllo dello Stato e del fisco e dalla volontà di abolire una legge che Indro Montanelli aveva definito un «colpo di piccone che fa crollare un intero edificio fondato sui pilastri di dio, patria, e famiglia». Proprio su questa questione, se mai, si consumerà l’eventuale dissidio tra la Lega e gli ultracattolici o, più probabilmente, avverrà l’auto-silenziamento di quei senatori e di quella parte dell’opinione pubblica che si riconosce in Pillon. Un tentativo di analisi A fronte di un attacco su più fronti, e sistematico, ai diritti riproduttivi e in particolare ai diritti delle donne, è necessaria un’analisi delle ragioni politiche che sottendono a queste scelte governative, premettendo che non pare che il Governo ne stia facendo una sua bandiera, e anzi l’attenzione mediatica al ddl Pillon sembra essere merito esclusivo del grido di allarme trasversale, riverberato dalla rete dei centri antiviolenza al movimento femminista. L’attacco alle donne (e alle loro figlie e ai loro figli) assume i tratti dell’attacco a una minoranza, a un corpo elettorale di second’ordine, ma – trattandosi dell’unica minoranza non numericamente minoritaria – tende a camuffarsi e a non acquisire i tratti, pericolosi in termini di consenso, della guerra aperta. Esistono, ci sembra, tre questioni attraverso le quali leggere questo contrattacco patriarcale: la prima economica, la seconda ideologica e la terza politica – i fili delle quali sono strettamente intrecciati tra loro. Quanto alla questione economica, non si tratta solo degli introiti per la mediazione familiare (calcolati intorno ai 77 milioni di euro all’anno), dell’abrogazione dell’assegno di mantenimento (battaglia fondamentale delle associazioni di padri separati) o dei finanziamenti delle lobby antiabortiste. Si tratta piuttosto di una visione socio-economica in senso più ampio: questa operazione si origina da un’idea di società basata sulla famiglia tradizionale, nella quale i due genitori, di genere diverso, svolgono i ruoli di casalinga e di lavoratore e la donna ha la delega totale al lavoro di cura; e su questa stessa visione delle relazioni familiari si basa un’impostazione di welfare strettamente familista, che legittima il de-finanziamento dei servizi dedicati ai bambini, a partire dagli asili-nido, e lo sfruttamento del lavoro gratuito delle donne. Il quadro ideologico di riferimento è quello della degenerazione della società occidentale: secondo il ministro della famiglia Lorenzo Fontana, la società italiana è vecchia, i/le giovani emigrano, a fronte di un’immigrazione che viene vista come superiore a quella che è effettivamente. L’ansia del declino – causato dalla denatalità, dagli aborti e dalla «sostituzione etnica» – è un potente meccanismo produttore di senso e la famiglia tradizionale, nella quale la donna svolge il ruolo di madre, è una prospettiva rassicurante per chi si sente (e viene narrato come) privato delle proprie identità e certezze. Il campo semantico della madre – come dimostrato da Alberto Mario Banti – è centrale nella creazione di un immaginario nazionale, già risorgimentale e ora «sovranista». Questa impronta ideologica – tradizionalmente conservatrice e reazionaria – è già chiaramente iscritta nel programma elettorale leghista, che parla di famiglia come «società naturale fondata sull’unione tra uomo e donna […] nucleo primario della comunità, culla di nuova vita», ma viene completamente assunta – con totale subalternità ideologica – anche dal M5S, e in particolare dalle quattro firmatarie e dal firmatario grillino del ddl Pillon. Esiste, poi, una questione più strettamente politica. Questa crociata legislativa non può che essere letta come un riflusso del potere patriarcale, nel momento in cui gli vacillano le fondamenta. Come il Decreto sicurezza attacca le persone migranti – e in particolare quelle che lottano e chi è loro solidale – così il ddl Pillon e le mozioni antiabortiste attaccano le donne e il movimento femminista, cercando di costringerlo a una lotta sulla difensiva, proprio nel momento in cui si sta proponendo, in Italia e nel mondo, come spazio produttore di senso e di resistenza e prova a tenere insieme le lotte delle/i migranti, quelle delle lavoratrici e dei lavoratori, quella contro il Cpr, contro la repressione, contro la violenza di genere. Se il movimento femminista fino all’anno scorso provava a ripensare la Costituzione, decostruendo la sua matrice sessista e chiedeva #moltopiùdi194, in riferimento ai pesanti limiti intrinsechi della normativa sull’aborto, oggi si trova a dover difendere i diritti di minima che la Costituzione garantisce, e a opporsi a una riforma del diritto di famiglia, che pure andrebbe strutturalmente riformato. Tuttavia, di fronte a un attacco così strutturato, non c’è altra via che rilanciare più in alto. Così, se l’Italia è stata scelta come sede del tredicesimo Congresso mondiale delle famiglie, incontro internazionale dei movimenti antiabortisti già ospitato in Ungheria, Non una di meno rilancia con una tre giorni a Verona. Con «Verona: città transfemminista», il movimento femminista ritorna sulle barricate e organizza un momento di agitazione nazionale e internazionale contro il progetto governativo di limitazione delle libertà individuali e collettive. Come scrivono le zapatiste alle donne del mondo, «anche se i dannati capitalisti e i loro nuovi cattivi governi vincono e ci annientano, devi continuare a combattere nel tuo mondo». A partire dallo sciopero dell’8 marzo. Michela Pusterla è dottoranda in italianistica all’Università di Trieste. Veronica Saba fa parte del team di Chayn Italia Onlus, piattaforma online contro la violenza di genere, ed è dottoranda presso l’Università degli Studi di Trieste.
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