http://contropiano.org/ 5, 6 e 7 Dicembre 2019
1/ L’industria 4.0. Rivoluzione tecnologica del lavoro o contro il lavoro? di Stefano Zai ricercatore e coordinatore sindacale dell’Usb di Parma
Con la prima parte da oggi pubblichiamo sul nostro giornale quattro puntate di una analisi/inchiesta curata da Stefano Zai sull’industria 4.0. L’automazione, a livello mondiale, tra il 2015 e il 2020 ha distrutto 7 milioni di posti di lavoro e ne ha creati solo due. Secondo una proiezione uscita su Il Sole 24 Ore, l’industria 4.0 in Italia tra il 2017 e il 2035 porterà alla scomparsa di 3,5 milioni di posti di lavoro. Si tratta di una sfida sul lavoro che va analizzata, compresa e ingaggiata con estrema determinazione. In questa prima parte vengono analizzate le connessioni tra lo sviluppo dell’automazione industriale e la divisione internazionale del lavoro che assegna al nostro paese un ruolo subalterno. Nelle prossime puntate verranno sviluppati quello che l’autore definisce come il “totalitarismo digitale”; l’industria 4.0 come rivoluzione del lavoro e delle sue forme ed infine i progetti del governo sull’industria 4.0 e come opporsi ad essi (redazione). *****
Industry 4.0 è il termine impiegato per indicare la quarta rivoluzione industriale. Non è questo l’ambito per consentire una sua contestualizzazione storica e un confronto con le precedenti, ma una cosa è importante da sottolineare: Industry 4.0 sta avendo e avrà sui modi di produzione, sul lavoro per come lo abbiamo conosciuto, sulla rappresentanza sindacale, sulla società, sullo Stato, una portata rivoluzionaria tale da essere paragonabile, a mio avviso, solo alla prima rivoluzione industriale, dove l’umanità incominciò a trasformarsi da ciò che era stata per secoli, prettamente agricola e contadina, all’essere prettamente industriale. Quello in cui oggi ci stiamo trasformando è tutto da comprendere, non solo per capire verso cosa ci stiamo muovendo, ma per avere gli strumenti per affrontarlo. L’aspetto che viene maggiormente enfatizzato ed evidenziato ai lavoratori e alla società intera dalle parti datoriali, da Confindustria, dalla Unione europea e BusinessEurope, è di Industry 4.0 come rivoluzione tecnologica, ma non è solo questo: è anche e pariteticamente una rivoluzione del lavoro e delle sue forme per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi. Viene descritta in larga parte dal punto di vista tecnologico, dimenticandosi (volutamente) che il secondo pilastro legato alla trasformazione del lavoro è ugualmente fondamentale. Prima di entrare più a fondo in merito alle caratteristiche di Fabbrica 4.0 e sugli impatti che essa sta avendo e avrà nel mondo del lavoro, in modo particolare in termini di occupazione, è necessario provare a mettere a fuoco il contesto. Il sistema economico-produttivo (anche finanziario, ma non lo prendiamo in considerazione in questo articolo) europeo si sta definendo per essere un modello che si va definendo come un processo di centralizzazione senza concentrazione1. Per dirla in parole semplici, si centralizza il business, ossia la parte amministrativa di alto livello, i profitti e la conoscenza (teniamo a mente questa parola, poi capiremo perché), ma le produzioni, le forniture, i processi intermedi, l’indotto, quindi il lavoro, sono parcellizzati, diciamo “liquefatti” in molteplici luoghi (reali e virtuali di produzione e lavoro) lungo le catene del valore globali ed europee e non più concentrati in solo luogo o regione. Queste porzioni produttive parcellizzate e distribuite sulla carta fanno riferimento a più centri, ma la realtà è che questi sotto-processi non sono in grado di reggere ad un elevatissimo livello di concorrenza e finiscono per riferire ad un unico centro, di fatto operando in una mono-committenza. L’Italia fa parte a pieno di questo modello, in un processo che lega la macro regione del nord (Emilia – Lombardia – Veneto), con la propria industria manifatturiera di piccole medie dimensioni, alle catene del valore che hanno il proprio centro nel cuore della Ue (Germania in particolare). Le catene del valore legate a questo centro sono i “cavalli” che devono correre per la competizione tra i vari poli economici globali. Il resto del paese è stato relegato a fornitore di servizi, turismo e fornitore di manovalanza precarizzata, flessibilizzata. Attenzione, però, che il Nord non è omogeneo e per stare nelle sopracitate catene del valore la competizione è schiacciante, si scarica sempre più la competizione sul lavoro (precarizzazione e flessibilizzazione), molti attori industriali di piccole dimensioni non riescono e tutto questo sta producendo una forbice tra ricchi e poveri sempre più ampia. Il sistema economico-paese in parte rientra nel modello europeo appena descritto, mentre il resto è stato e viene “dato in pasto” alle multinazionali extra Ue, che si fondano su modelli economici di valorizzazione differenti da quello europee (vedi la Cina e le vie della seta o gli Stati Uniti di Trump, ecc.), interessati a conquistare fette di mercato, con tutte le conseguenze che questo comporta. Ex-Ilva, Alitalia, ecc., tanto per citare alcuni esempi. Un modello industriale che non esiste: un processo di deindustrializzazione per la maggior parte del paese e un modello acefalo per le regioni del nord, agganciate alle catene del valore sopracitate, che in qualsiasi momento ti possono sganciare o rimodellare a piacimento. Un processo complessivo che non governiamo come paese e a maggior ragione come lavoratori, che trova il suo fondamento nella nostra adesione all’Unione europea. In un modello economico Ue di questo tipo, centralizzato ma non concentrato appunto, è evidente che gioca un ruolo fondamentale la tecnologia. Ecco perché è fondamentale Industria 4.0., che consente la “non concentrazione” dell’apparato produttivo, automatizzando in parte o completamente le produzioni per operare h24, la connessione dei i vari punti globali in cui la produzione è “sparpagliata”, la velocizzazione e la distribuzione dei prodotti (logistica), la circolazione dei fattori produttivi e delle informazioni. Ma al contempo la medesima tecnologia realizza la centralizzazione di ciò che è considerato il delta necessario per potere concorrere a livello globale. Uno dei pochi e possibili fattori rimasti su cui il capitale europeo e occidentale sta puntando per riuscire ad avere ancora profitti, in un contesto di manifattura e produzione reale al palo dal 2008 con la crisi: le informazioni. I dati che racchiudono la conoscenza con cui oggi è possibile valorizzare e concorrere. I dati che racchiudono la descrizione di ognuno di noi, i gusti, gli orientamenti dei lavoratori-consumatori, che poi devono essere riutilizzati nel business. Quindi, Industry 4.0 si basa e si sviluppa su due pilastri fondamentali. Il primo è quello tecnologico: Industry 4.0 come rivoluzione tecnologica. Il secondo è Industry 4.0 come trasformazione delle forme del lavoro, una rivoluzione in senso neoliberale dello stesso, che si contestualizza in una rivoluzione neoliberale più ampia di matrice politico-ideologico-sociale. Industry 4.0 come rivoluzione tecnologica2. Industry 4.0 come rivoluzione tecnologica è caratterizzata da: Produzione additiva3. L’emblema dell’industria 4.0 è la stampante 3D (tre dimensioni) che ha dato il via alla cosiddetta manifattura additiva, cioè una modalità produttiva che consente la realizzazione di oggetti (componenti, semilavorati, prodotti finiti, ecc.) ottenuti producendo e sommando strati successivi di materiale (appunto con la stampa 3D) e ciò contrasta con quanto accaduto fino ad ora in molti ambiti della produzione tradizionale, in cui si procede per sottrazione dal pieno (tornitura, fresatura, ecc.). Si tratta di un’evoluzione fondamentale nella più ampia tendenza alla digitalizzazione della manifattura che si realizza attraverso il dialogo tra computer e macchine, grazie alla condivisione di informazione (tra macchine, tra persone, tra macchine e persone) resa possibile, tra l’altro, dall’ormai consolidata diffusione di internet. Si identificano due caratteristiche della produzione additiva centrali per comprenderne le potenzialità di sviluppo: a) consentire di produrre oggetti disegnati con geometrie complesse non altrimenti realizzabili in un unico pezzo con le tecniche tradizionali, modificandone la struttura costruttiva con un minore impiego di materie prime, maggiori prestazioni, utilizzando materiali diversi da quelli oggi in uso; b) fare sì che i costi di realizzazione di varianti rispetto ad un modello base siano sostanzialmente molto ridotti, in quanto si cambia il software non più la linea, la macchina, lo stampo, ecc. Si viene così affermando un nuovo modello industriale manifatturiero legato alla personalizzazione del prodotto, cioè alla “personalizzazione di massa” delle produzioni, con un impatto sul lavoro dettato dall’esubero di manodopera, completa assenza dell’uomo in questi processi produttivi (una piccola villetta residenziale nelle sue parti strutturali già può essere costruita con la totale assenza dell’uomo) ed una flessibilizzazione del lavoro rimasto che si dovrà adeguare, nei modi, nei tempi e nei luoghi (le stampanti 3D si possono spostare facilmente, l’applicazione edile ne è un esempio). Inoltre, in alcuni settori, verrà scaricata buona parte dei costi produttivi delle parti datoriali ai consumatori, perché piazzeranno al consumatore stesso l’onere di stamparsi il prodotto (Barilla, ad esempio, sta pensando stampanti 3D da vendere al consumatore per stamparsi la pasta direttamente a casa, avendo profitto dalla vendita del software che realizza la forma della pasta e del semilavorato per stamparla, ma con un notevole risparmio nei costi di produzione). “I.O.T., Internet of Things” – Internet delle cose: può essere definito come “rete delle apparecchiature e degli oggetti diversi dal computer connessi alla rete”. Per capire non c’è niente di meglio che citare alcuni esempi: “oltre 50.000 indirizzi IP, nodi intelligenti di una grande rete mettono in connessione ogni oggetto che entra in contatto con la filiera, facendolo dialogare con tutti gli altri: dal robot al componente più piccolo che scomparirà nel prodotto finito, la nuova Mercedes Classe E. A Stoccarda questo modello passerà alla storia come la prima auto “nativa digitale” del marchio. La vettura non è un “concept” ed è in vendita nelle concessionarie, è figlia della digitalizzazione della fabbrica”. […] “La casa farmaceutica può inviare alla stampante 3D dell’ospedale le istruzioni per produrre il medicinale personalizzato”4. In prospettiva, ma in un tempo neanche troppo distante, si definiranno filiere produttive e prodotti finiti in grado di autodiagnosticarsi, quindi non solo completa automazione della produzione, ma anche della sua manutenzione. Vien da sé comprendere come si apra uno scenario potenziale di notevole perdita di posti di lavoro legati alla manutenzione della filiera produttiva stessa e del prodotto finito. Anche in questo caso come per la produzione additiva, si va nella direzione di connettere la linea direttamente con il consumatore finale, nel nuovo tipo di modello industriale legato alla personalizzazione del prodotto, personalizzazione di massa delle produzioni. Si è qui osservato I.O.T. dal punto di vista delle produzioni, per dir così, ma I.O.T. coinvolge un aspetto fondamentale dal punto di vista della quotidianità stessa delle persone e della società. Le nostre case sono sempre più colme di prodotti “smart” (cose connesse alla rete, rese “intelligenti” dalla connessione, appunto), connessi con le filiere di produzione, la rete, i “social network” e noi stessi. Immediato comprendere quale sia la conseguenza: una completa profilazione delle nostre abitudini, ecc., che sviluppa controllo e soprattutto autocontrollo e un accumulo di dati da mettere a profitto. Big data e cloud. Fabbrica 4.0 deve fare viaggiare, monitorare ed immagazzinare dati. Dati, che devono appunto essere scambiati fra le cose (I.O.T.), fare funzionare le stampanti 3D, ecc. Quindi è già una realtà il “cloud computing” – cloud sta per nuvola, nuvola virtuale, nella quale si immagazzinano dati – un insieme di tecnologie che permettono tipicamente sotto forma di un servizio offerto al cliente, di memorizzare, archiviare elaborare dati, grazie all’utilizzo di risorse hardware e software distribuite e virtualizzate. Ma soprattutto è già una realtà il Big data. Applicazioni, piattaforme, social network, ecc., realizzano la produzione di una massa enorme di dati, da gestire e rielaborare in informazioni anche in tempo reale, questo è il “Big data”. Fondamentale per un soggetto Industry 4.0, quindi, la gestione e rielaborazione di questa massa enorme di dati considerando che non tutti sono prodotti dal soggetto stesso. Inoltre, la gestione e rielaborazione del “Big data” rappresenta un business in sé, la nuova gallina dalle uova d’oro, chi ci sa “mettere mano” ed è in grado di rendere disponibile queste informazioni, diventa un operatore indispensabile alla nuova era industriale. Robotica. Quando si parla di robotica a tutti viene in mente la linea produttiva di autovetture, ormai esclusivamente composta da bracci robotici completamente automatizzati. Questa è già una realtà esistente, che Industry 4.0 andrà ad incrementare ed acuire con sistemi sempre più autonomi, complessi ed interconnessi (I.O.T.). Ma questa, interconnessione a parte, sta ancora nell’ automazione o automazione industriale, ed è già presente da numerosi anni nelle nostre fabbriche. Però, Fabbrica 4.0 quando pensa alla robotica, pensa a qualcos’altro. Un ulteriore salto di qualità. Industria 4.0 non parla di “normali sistemi robotici”, la nuova frontiera si chiama robot collaborativo, capace cioè di lavorare a fianco a fianco con l’uomo”, capace, cioè, di sostituire l’uomo. Anche in questo caso per capire di cosa stiamo parlando, facciamo un esempio. “ABB ha presentato da qualche anno, un robot veramente collaborativo: YuMi. YuMi è un robot umanoide, progettato per l’utilizzo per esempio nel montaggio di minuteria, in cui gli esseri umani e i robot eseguono congiuntamente le stesse operazioni. YuMi è l’abbreviazione di ‘you and me,’ cioè una collaborazione “tra me e te”. YuMi è stato sviluppato in primo luogo per far fronte alle esigenze produttive di flessibilità e agilità dell’industria dell’elettronica, ma verrà adottato sempre più in altri settori di mercato. YuMi è anche dotato di vista e tatto” 5 o KIVA robot di Amazon, impiegati nel settore logistico. La conseguenza dell’acuizione dell’automazione industriale, nonché l’introduzione dei robot collaborativi, producono e produrranno, oltre un evidente esubero di manodopera, per quei pochi lavoratori che rimarranno: una velocizzazione del tempo di lavoro, una completa dipendenza dai robot in quanto a metriche e movimenti (i movimenti del lavoratore sono ormai completamente dettati dalle macchine, con conseguenti problemi psico-fisici), saturazione totale del tempo di lavoro (lavoro continuo con l’eliminazione di fattori di riposo e dialogo con eventuale operaio vicino) e ovviamente ed in tendenza una totale sostituzione della macchina al lavoratore. Inoltre, non si sta creando una nuova fascia di lavoro qualificato che “sostituisca” o “subentri” ai lavoratori espulsi, non che la creazione di questa fascia giustifichi l’espulsione degli attuali lavoratori, anche perché il numero non sarà equivalente, ma evidenzia come in realtà non vi sia un piano complessivo relativo all’impatto di Industry 4.0. Chi lavora con i robot racconta che già attualmente sono in grado di autodiagnosticarsi, solo ogni tanto si deve intervenire a risolvere un problema che proprio da soli non sono grado di risolvere (esempio di applicazione di I.O.T.). I robot si rompono spesso, producono numerosi scarti e c’è un incremento del lavoro mal fatto a danno del prodotto e anche dell’ambiente6. Tutti gli aspetti esposti fino a questo punto e quelli che andiamo ad affrontare di seguito in merito al cambiamento della forma lavoro, realizzano un nuovo paradigma che da origine alla manifattura digitale\ fabbriche intelligenti, appunto le “smart factory”. (fine prima parte) note 1Cfr. “Non c’è tempo da perdere: come industria 4.0 cambierà il modo di produrre”, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini 19 luglio 2019. 2In riferimento ai concetti di produzione additiva, I.O.T., “big data e cloud”, robotica, “smart factory”, Cfr. “Nova Edu”, La fabbrica 4.0, collana de Il sole 24 ore. 3Cfr. “La manifattura additiva. alcune valutazioni economiche con particolare riferimento all’industria italiana, Scenari industriali anno 2014, Centro Studi Confindustria. 4“Nova Edu”, La fabbrica 4.0, collana de Il sole 24 ore. 5“ABB svela il futuro della collaborazione tra uomo e robot: YuMi “, Automazione Integrata – la redazione, 10 settembre 2014. 6In riferimento all’introduzione dei robot, Cfr. “La società artificiale”, a cura di Renato Curcio. Sensibili alle foglie, 2017.
2/Industry 4.0. Il totalitarismo digitale di Stefano Zai
Con la digitalizzazione ci troviamo a “metà strada” tra la rivoluzione tecnologica e quella del lavoro per come lo abbiamo conosciuto. Se “sommiamo” agli aspetti visti fino a questo momento l’elemento digitalizzazione, possiamo parlare a pieno titolo di evoluzione del capitalismo industriale a “capitalismo digitale”, dove la conoscenza come fattore produttivo diventa fondamentale (per questo meglio parlare di economia o società della conoscenza) e dove, attenzione, l’“hardware” non è scomparso. Il lavoro fisico di milioni di persone esiste ancora, compreso quello dei “lavoratori della conoscenza” (lavoro mentale) e compreso quello che serve materialmente per produrre i sistemi digitali (un esempio significativo di ciò e su cui torno in seguito, sono quei lavoratori che vengono definiti “operai del click”). Possiamo quindi parlare a pieno titolo di “totalitarismo digitale1 ”, ossia disseminazione di dispostivi digitali, cattura degli atti, interferenza di procedure cognitive, indirizzo delle pratiche, produzione di dati, elaborazione di profili, controllo personale e sociale, a maggior ragione nel lavoro e dei lavoratori, Quali, quindi, gli aspetti essenziali e le conseguenze dovuti alla disseminazione di dispostivi digitali (tablet, braccialetti elettronici, telecamere, smartphone, ecc.) nella società, ma soprattutto nel mondo del lavoro? Controllo a distanza: con il “Job-Act” è stato alterato l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che vietava l’uso di impianti audiovisivi di controllo nei luoghi di lavoro, cosa che ha avviato un’esponenziale assegnazione di dispostivi, di strumenti mobili o fissi (bracciali, smartphone aziendali, badge, tomtom traccianti, ecc.) volti a controllare e registrare ciò che ogni lavoratore fa sia nel luogo di lavoro, ma non solo. Si sviluppa così, un controllo disciplinare e della produttività, dove il primo è realizzato per convergere nel secondo e quindi innalzare la produttività (se pensi di essere sempre osservato, registrato, ecc., ti auto-controlli e rendi di più. L’aspetto del controllo e dell’auto-controllo dovuto ai dispostivi e alle piattaforme digitali ovviamente è da considerarsi anche al di fuori del mero ambiente lavorativo). Solitudine nel lavoro: interazione esclusiva con il dispositivo digitale del lavoratore che esclude non solo dall’interazione con i colleghi con cui potenzialmente può realizzare quel lavoro, ma anche con chi il lavoro lo impartisce (il tablet ti dice cosa devi fare, dove, ecc.) Dominio dei dispostivi sugli atti e pratiche lavorative. Distanziazione: i lavoratori, interagendo con il dispositivo digitale, anche se vicini fisicamente nel luogo di lavoro sono sempre più “distanzianti”, non interagendo mai o di rado con il collega, ma solo con il dispositivo digitale. La conseguenza più immediata è la perdita di solidarietà tra lavoratori e la trasformazione definitiva degli stessi in un’unità singole all’interno del processo produttivo (e sociale!). Quantità al posto della qualità: nella vita e soprattutto nel lavoro ciò che diventa importante è il dato e la sua misura. La performance valutata attraverso l’immagazzinamento sempre più alto di dati (big data) per raggiungere i risultati (punteggio nel lavoro, voti e crediti a scuola, “mi piace” su FB, ecc.). Il tutto a discapito della qualità del lavoro, del pensiero che ognuno mette in ciò che fa e quindi della capacità di pensiero critico. Velocità. Cambiamento del significato di ora-lavoro: la forza lavoro viene acquistata e retribuita sulla base della produttività e al raggiungimento del risultato, che in ogni momento con il dispositivo digitale può venire controllato, misurato e quantificato. Perde di importanza la giornata lavorativa e acquista importanza solo il risultato. Solo questo viene retribuito. La conseguenza di ciò sono l’introduzione del “lavoro agile” e dello “smart working” (il lavoro da remoto), che comportano – al contrario di come vengano “pubblicizzati” nelle aziende, cioè una maggiore conciliazione tra lavoro e tempo di vita – un allungamento della giornata lavorativa oltre le otto ore (con lo smartphone costantemente guardi la mail del lavoro e quindi lavori da casa, alla sera, fine settimana, ecc.). Interviene inoltre, un altro aspetto, che è il cambiamento della figura del lavoratore, sul quale torniamo a breve. Prescritto e Non Prescritto: attraverso i sistemi gestionali informatici vengono standardizzate una serie di domande (a risposta chiusa e senza possibilità di argomentazione) che valutano se hai svolto tutti i passaggi che una mansione lavorativa (standardizzata) richiede per ottenere un risultato. Questo è il prescritto. Se soddisfi tutti i criteri di risposta, ti viene assegnato un punteggio e quindi una retribuzione per la mansione svolta. Molto spesso per soddisfare ogni passaggio standardizzato però, ne occorrono molti altri che il lavoratore svolge, ma che non sono previsti e misurati dal sistema gestionale. Questo è il non prescritto. Su questo l’azienda fa profitto, perché non sta pagando lavoro che in realtà è stato svolto, oppure non paga addirittura il risultato, perché queste azioni non previste hanno impossibilitato il suo raggiungimento nel tempo definito. Partendo da quest’ultimi due aspetti, che sono quelli maggiormente radicali e significativi all’interno della rivoluzione Industry 4.0, si comprende che la digitalizzazione di differenti processi lavorativi, oltre a “colpire” coloro che appartengono direttamente al processo produttivo (operai, tecnici, ecc.), andrà a “colpire” maggiormente quella parte di lavoratori che fino ad ora si sono sentiti insostituibili perché svolgono un lavoro cognitivo o per meglio dire “lavoro mentale2 ”. Infatti, la digitalizzazione impatterà anche e soprattutto sulle posizioni impiegatizie, mediche, avvocati, architetti, ecc. Ciò che riassume tutti questi aspetti, viene definito, Taylorismo digitale3 . Negli ultimi decenni si era sostenuto che il taylorismo fosse tramontato con la scomparsa della fabbrica fordista, ma con l’avvento delle tecnologie digitali – soprattutto il software –si delineano, regole, procedure, metriche cognitive, che sono capaci di controllare\disciplinare i comportamenti del lavoro mentale non meno di quanto facesse la catena di montaggio, solo che è il lavoratore stesso che ora si pone volontariamente in questa condizione. Il taylorismo digitale è un fenomeno in essere a quello che più genericamente viene definito “quantified self movement”, cioè la capacità dei dispostivi indossabili, di raccogliere dati su salute, performance fisiche e mentali di chi se ne serve, per sviluppare una forma di autoanalisi della vita quotidiana, che esonda quindi dalla sola dimensione prettamente lavorativa o tende a mischiarle. Tutto questo allo scopo di diventare sempre più performanti, competitivi, invitando chi ci sta attorno a imitarci e contempo trasformarci in concorrenti gli uni con gli altri. La digitalizzazione e le sue pratiche ci permettono quindi di comprendere nella realtà, come la fase capitalistica in corso, caratterizzata dalla rivoluzione industriale di Industry 4.0, “sviluppi un uso intensivo della scienza e delle tecnologie […] per un’implementazione della conoscenza come fattore produttivo fondamentale […] e come tale fattore sia stato individuato come unico elemento di vantaggio competitivo possibile”4 per potere sopravvivere nella competizione globale. Il “lavoro mentale” diventa quindi fondamentale. Questo non significa la totale terziarizzazione delle società, le produzioni del secondario esistono e devono continuare ad esistere, ma che il fattore fondamentale dello scontro competitivo è la conoscenza5 , la sua valorizzazione, la gestione dei dati che genera che a loro volta vengono trasformati in informazioni e quindi comunicazione\ideologia che riplasma la totalità del corpo sociale stesso nella direzione fino qui vista. Esempi di digitalizzazione, nell’industria, nella scuola, nella sanità: Gladiator (per sentirti un vero gladiatore dell’attività aziendale) prodotto da Motorola, oppure piattaforme come Watson (IBM), Idoctor, Medico2000, ecc., Nuvola, Argo, Classe Viva, ecc. All’interno di Industry 4.0 come rivoluzione tecnologica vi sta a pieno titolo anche “L’intelligenza Artificiale”, che apre un capitolo molto vasto che non affronto in questo intervento. Una cosa però è importante rilevare, ossia come una delle sue componenti fondamentali sia la connessione e l’interazione costante con il “Big data” e appunto la conoscenza come fattore fondamentale. Per “imparare”, “rielaborare”, l’AI, ha bisogno di dati, infatti gli esempi relativi alle piattaforme digitalizzate sopra esposti, fanno parte a pieno titolo dell’Ai. Watson, la piattaforma di IBM, ne è un esempio lampante. Potere accedere alla massa di dati relativi al sistema sanitario, farmaceutico, nonché quelli che vengono immessi volontariamente in rete dalle persone con le app “HealtCare”, risulta fondamentale perché permetterà (in parte già ora) alla piattaforma stessa o similare, di realizzare diagnosi mediche in autonomia dall’uomo, dal medico (scomparsa del sistema del medico di famiglia, ecc.). I dati non si accumulano da soli a formare una base valevole che può essere utilizzata dall’AI, ma come dicevo prima, devono essere rielaborati, resi “leggibili” per gli algoritmi dall’intelligenza artificiale dal “lavoro mentale” di persone in carne ed ossa. La gestione e rielaborazione del “Big data” sta producendo nel mondo migliaia di lavoratori a cottimo, chiamati gli operai del click6 , che vengono impiegati da piattaforme quali: le americane Amazon MechanicalTurk, Upwork, PeoplePerHour, Rate-rhub (Google) o la cinese Zhubajie che aggrega fino a 15 milioni di micro-lavoratori digitali. Costoro comprano micro-lavoro di persone, il cui compito è rielaborare dati per aumentare le capacità degli algoritmi ad apprendere, cioè rendono possibile quello che viene definito il “machine learning” (l’apprendimento delle macchine). Questi lavoratori sono di fatto a cottimo, vengono impiegati in quelle che vengono definite “click farms”, non è necessario un luogo fisico di lavoro definito, ma basta avere accesso ad una connessione con uno smartphone, quindi si rivolge ad una platea di persone estremamente pauperizzata alla quale la misera retribuzione a cottimo così ottenuta può fare la differenza nella giornata. Inoltre, si viene a creare un sistema di delocalizzazione “virtuale” di buona parte di processi legati ai sistemi digitali, senza neanche aprire più sedi fisiche nel paese in cui si è delocalizzato. All’interno dei processi di digitalizzazione di Industria 4.0 vi è da considerare anche la “Sharing economy” o “Gig Economy”, realizzata da piattaforme come Uber, Foodora, JusEat, ecc. e che coinvolge migliaia di lavoratori, alla ribalta delle cronache per le lotte che stanno realizzando in merito al riconoscimento della dignità del loro lavoro contro la parcellizzazione e l’autonomizzazione che sono appunto le caratteristiche per cui è concepita e si valorizza la “Sharing economy”. Altro aspetto fondamentale di Industry 4.0 è la circolazione delle merci delle merci ad alta velocità7 , da qui si comprende come il settore della logistica e della movimentazione delle merci, risulti fondamentale in questo nuovo assetto del sistema produttivo.
note 1 In riferimento ai concetti di digitalizzazione, totalitarismo digitale, controllo a distanza, solitudine nel lavoro, dominio dei dispostivi, distanziazione, quantità, velocità, significato di ora-lavoro, prescritto e non rescritto, Cfr. “L’egemonia digitale”, a cura di Renato Curcio, Sensibili alle foglie, 2016. 2 Cfr. “Lavoro mentale e classe operaia” Guglielmo Carchedi, 2017. 3 In riferimento ai concetti di Taylorismo digitale, “Quantified self movement”, Cfr. “La variante populista: lotta di classe nel neoliberalismo”, Carlo Formenti, Derive Approdi, 2016. 4 “Comunicazione deviante: gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore”, Luciano Vasapollo, Rita Martufi, Edizioni Efesto, 2018. 5 In riferimento al concetto di conoscenza Cfr. “Comunicazione deviante, gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore”, Luciano Vasapollo, Rita Martufi, Edizioni Efesto, 2018. 6 In riferimento agli “operai del click”, Cfr. “Gli operai del click sono il cuore dell’automazione, intervista ad Antonio Casilli di Roberto Ciccarelli, il Manifesto, 27 febbraio 2019. 7 Cfr. “Dalla catena di montaggio alla catena del valore”, Proteo, numero 5/2016, CESTES – USB.
3/ Industry 4.0. Come modellare il “lavoratore imprenditivo”
Nel discorso critico relativo a Fabbrica 4.0 si tende a concentrarsi soprattutto sull’aspetto tecnologico e sulle sue conseguenze (anche perché è la narrazione imposta), dimenticandoci della rivoluzione del lavoro e delle sue forme (che sta nella rivoluzione neoliberale della società) che è in corso e che rappresenta, oltre a quella tecnologica, la componente fondamentale di Industry 4.0, senza la quale non si potrebbe sedimentare e sviluppare. Il concetto fondamentale di questa trasformazione del lavoro e delle sue forme è la conversione della figura del lavoratore per come l’abbiamo conosciuta, dall’essere tale, ad essere collaboratore o per come sono stati definiti in uno studio promosso da Federmeccanica nel 2016, all’essere Lavoratori Imprenditivi. Lo studio stesso si intitola e non lascia margine d’interpretazioni, “Lavoratori imprenditivi 4.0, il lavoro nell’epoca della quarta rivoluzione industriale”, di cui riporto un passo estremamente significativo: “La prevalenza non solo dai cosiddetti lavoratori della conoscenza, ma anche da chi opera in team, in gruppo di lavoro dove si sviluppano competenza diversificate. Dove la dimensione manuale si confonde e s’interseca con quella intellettuale. E viceversa, al punto che le due categorie classiche intellettuale e manuale perdono di valore euristico. Dobbiamo considerale i lavoratori, al plurale appunto. […] L’autonomia, tipica dell’imprenditore, si sposa con l’essere alle dipendenze, condizione tipica del lavoratore. Ecco allora che abbiamo a che fare con lavoratori imprenditivi, lavoratori che sviluppano caratteristiche più del lavoro autonomo, grazie anche alle nuove tecnologie introdotte dalla quarta rivoluzione industriale.” Una conversione che passa attraverso molteplici e differenti aspetti che già sono in corso, trai quali vale la pena evidenziare: Una diversa concezione del luogo di lavoro1 , dove dalla la fabbrica-formicaio (quella conosciuta fino ad oggi) si contrappone e si sviluppa a quella della fabbrica-laboratorio in cui le “differenti componenti del lavoro, si mescolano e si sovrappongono nello stesso ambiente impollinandosi a vicenda di idee”2 . Il lavoro non deve più essere un posto ma un flusso, un’attività che può essere realizzata in posti diversi. La trasformazione si vede in molte fabbriche e uffici, che non hanno più spazi preassegnati per le singole persone, ma solo ambienti liquidi all’interno dei quali i gruppi si associano sulla base dell’agenda del giorno: quale prodotto deve essere realizzato, quale progetto deve essere seguito, quale obiettivo deve essere raggiunto. Le relazioni gerarchiche sembrano scomparire, trasformandosi da “verticali” a “collaborazioni orizzontali”, il tutto a spingere i lavoratori a percepirsi come imprenditori, cosa che non sono perché non detengono i mezzi produttivi e in realtà non partecipano al profitto perché di fatto continuano a percepire un salario, dipendenti o “finte partite IVA” che siano. Il lavoro e il salario sono sempre più indirizzati al risultato, il salario va a diminuire e viene elargito come premio di risultato (cosa che lo fa scambiare come ritorno di un investimento), trasferendo buona parte del rischio dal vero imprenditore datore di lavoro ai finti “collaboratori imprenditori lavoratori”. Ma qual è il concetto, o per meglio dire l’impianto ideologico complessivo (rivoluzione neoliberale della società, per intendersi), che sottende questi aspetti e in generale questa conversione da lavoratore a collaboratore\lavoratore imprenditivo? Appunto, l’annullamento ideologico della fondamentale contraddizione tra l’interesse imprenditoriale del datore di lavoro, legato alla riproduzione del ciclo capitalistico allo scopo del profitto e l’interesse del lavoratore che percepisce un salario o ha una “finta partita IVA” attraverso la quale – di fatto anche se non lo pensa – lavora per un dato soggetto. Infatti, il messaggio che viene continuamente reiterato è che ognuno deve essere, imprenditore di sé stesso3 , nel senso di investimento su sé stessi, concetto che investe in pieno il lavoro ma che “esonda” dal mero ambiente lavorativo all’esistenza singola e collettiva-sociale. Ci troviamo in una fase in cui nel lavoro come nella società può esistere solo l’etica imprenditoriale, che è l’etica del nostro tempo. Il lavoro, come l’esistenza, devono essere completamente basati sulla responsabilità individuale e sulle proprie performance, sul migliorarsi e concepirsi come un costante investimento di sé – nel senso economico del termine – che deve produrre risultati, cioè sulla competizione, concepita come concorrenza di mercato, costante. “L’individuo performante e competitivo cerca di massimizzare il proprio capitale umano in tutti i campi”4 . Ma soprattutto cerca di lavorare su sé stesso per trasformarsi permanentemente, migliorarsi, rendersi sempre più efficiente. Imprenditivo, appunto. A distinguere questo soggetto è proprio il processo di potenziamento di sé a cui è condotto, che lo porta a volere migliorare senza sosta i suoi risultati e le sue prestazioni. “Il grande principio della nuova etica del lavoro è l’idea che la congiunzione delle aspirazioni individuali e degli obiettivi dell’impresa, sia possibile solo se l’individuo (il lavoratore) stesso diventa una piccola impresa”. […] “L’impresa va pensata come un’entità composta da piccole imprese di sé: l’impresa nel senso economico del termine è l’insieme delle imprese delle persone che la compongono”5 . Il “nuovo” lavoro, andando di pari passi con quello dell’istruzione e della formazione, si deve fondare e si sta già fondando sui concetti appena esposti che si riassumono e trovano la loro pratica nei paradigmi dell’: impiegabilità che sostituisce l’occupazione e l’“apprendimento permanente”. Infatti ci troviamo di fronte alla distruzione dello stato sociale per come l’abbiamo conosciuto, alla sua riformulazione a favore di una società che è composta solo da singoli in costante competizione fra loro. Ma se non sei in grado di competere? Se da solo non sei in grado di farcela, allora la società (Stato) interviene, non a risolvere i problemi strutturali che determinano la condizione in cui si è (povertà, crisi economica, ecc.), ma a reinserirti in un percorso perché tu possa diventare nuovamente concorrenziale, perché la responsabilità della condizione di povertà, di disoccupazione, è colpa esclusivamente del singolo, che ha sbagliato l’investimento su te stesso. Detto in modo molto semplice, questa è la logica che sta alla base della flessisicurezza, dell’occupabilità e del “workfare”6 , i paradigmi fondanti del nuovo stato sociale e del lavoro per come sono concepiti dall’Unione europea e quindi recepiti dagli stati membri. “Nel 2000 la strategia di Lisbona chiarisce che […]. Il paradigma della flessicurezza deve diventare uno dei cardini della politica sociale dell’Unione europea […] Nel quadro delle politiche sociali il modello della flessicurezza, coniuga le politiche del lavoro basate sul principio della flessibilità dei contratti e dell’apprendimento permanente con le normative di gestione della povertà […]. La piena occupazione a cui si fa riferimento nei documenti europei è da intendersi nel senso di garantire a tutti gli individui la piena occupabilità per tutto il corso della loro vita […]”7 . Ma occupabilità non significa occupazione, bensì “compito del welfare europeo è, dunque, mettere tutti gli individui in condizione di avere le conoscenze e le qualifiche necessarie per essere sempre competitivi nel mercato del lavoro”8 (investimenti di sé, imprese di sé stessi). Questo fanno i sindacati gialli, ti assistono nel fornirti le condizioni di possibilità di reintegro nella competitività, non difendendo così il diritto al lavoro, gli interessi dei lavoratori, la rappresentanza democratica nei luoghi di lavoro, ma le regole del mercato! Con Lisbona nel 2005 si assume definitivamente che: “l’inclusione sociale esce dagli obiettivi prioritari. Gli stati membri devono continuare a promuovere l’adozione dei contratti di lavoro flessibili, adottare politiche del lavoro basate sull’apprendimento permanente al fine di rendere i lavoratori adattabili (ndr: sfruttabili) per tutto il corso della vita ai mutamenti del mercato” […] “Nel 1994, l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) viene sollecitato da una Raccomandazione (1992) del Consiglio delle Comunità Europee, ad affrontate i problemi legati alla disoccupazione e all’esclusione sociale. Ne esce una “job strategy” che individua come in tutti gli stati europei prevalgano politiche definite “passive”, di allocazione delle risorse a sostegno della disoccupazione, del lavoro e dell’inclusione sociale”9 . Questo non può più rientrare nella nuova logica neoliberale e si fa in modo che gli Stati spostino il loro intervento non a garantire uno stato sociale, diritto del cittadino per costituzione, ma verso la pratica di attivazione del cittadino-lavoratore(attivazione nel senso dell’occupabilità). Il “workfare” sostituisce così il welfare (stato sociale). Lo Stato, in merito a disoccupazione, lavoro ed esclusione sociale, deve fornire – in commistione con agenti privati di collocamento del lavoro e non più solo pubblici – orientamento, collocamento e pagamento di sussidi. Sussidi ben al di sotto dei livelli salariali per incentivare, attivare, la costante ricerca del lavoro. Nascono, prolificano e sono oggi base fondamentale del ricollocamento del lavoro in Europa – anche in Italia stanno diventando una realtà – i “Job center”. I centri per l’impiego, che forniscono un sussidio minimo a fronte di determinate condizioni per l’erogazione dello stesso: dimostrazione di ricerca di lavoro costante, formazione costante, non possibilità di rifiuto di un lavoro proposto (ma non è il reddito di cittadinanza questo?) Lo scopo di tutto ciò è avere lavoratori costantemente precarizzati (flessisicuri), riduzione del livello generale dei salari, lavoro coatto, demansionamento, ecc. (questi principi trovano il loro contesto legislativo nella “legge Fornero”, “Job Act”, nel neoarrivato Reddito di cittadinanza, come nel resto d’Europa troviamo la “Loi travaille” in Francia, ecc. La matrice di ciò sono, appunto, i concetti di indirizzo UE che abbiamo visto e le riforme Hartz tedesche che hanno recepito per primi tali concetti ma che a loro volta ne sono stati i promotori per un modello comune europeo). Senza questo contesto non ci può essere il lavoratore imprenditivo che realizza, sta e promuove la Fabbrica 4.0. 1 In riferimento ai concetti di luogo di lavoro, nuove relazioni gerarchiche, salario a risultato, Cfr. “Nova Edu”, La fabbrica 4.0, collana de Il sole 24 ore. 2 “Nova Edu”, La fabbrica 4.0, collana de Il sole 24 ore. 3 In riferimento ai concetti di imprenditore di sé stesso, investimento su stessi, etica imprenditoriale, imprese di sé, potenziamento di sé, Cfr. “La nuova ragione del mondo: critica alla razionalità neoliberista”, P. Dartot – C. Laval, Derive Approdi, 2013. 4 La nuova ragione del mondo: critica alla razionalità neoliberista”, P. Dartot – C. Laval, Derive Approdi, 2013. 5 “Ibidem 6 In riferimento ai concetti di flessisicurezza, occupabilità, “workfare”, cittadino-lavoratore Cfr. “Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? Giuliana Commisso, Giordano Sivini. Asterios editore, 2017. 7 “Reddito di cittadinanza: emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? Giuliana Commisso, Giordano Sivini. Asterios editore, 2017. 8 Ibidem 9 Ibidem
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