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26 febbraio 2019

 

L’Egitto è intoccabile e non sapremo mai la verità: ecco quel che nessuno ha il coraggio di dire su Giulio Regeni

di Fulvio Scaglione

 

La verità sul ricercatore italiano già la sappiamo: l’hanno ammazzato uomini dei servizi segreti egiziani, apposta o per eccesso fa poca differenza. Al-Sisi non ci dirà mai nulla più di così, perché non vuole. L'Italia non ha la forza politica, economica o militare per costringerlo a far di più

 

«Il summit è il messaggio», ha detto Jean-Claude Juncker con la solita sbrigatività. E ha ragione. Il primo, storico incontro tra i 22 Paesi della Lega Araba e i 28 Paesi dell’Unione Europea, che si è appena svolto a Sharm el Sheikh, la Rimini del Sinai egiziano, ha trasmesso un messaggio inequivocabile: Abdel Fatah al-Sisi, l’ex generale diventato Presidente dell’Egitto con un colpo di Stato, va bene a tutti. In Europa, dove un giorno sì e l’altro anche ci si straccia le vesti per i diritti umani. E nel mondo arabo, che si è radunato scodinzolando sotto le sue insegne.

 

Vale la pena di ricordare qualche dato. Al Sisi è stato direttore dei servizi segreti dell’esercito, poi nel 2011 (dopo le dimissioni di Hosni Mubarak) è diventato il più giovane membro del Consiglio supremo delle Forze Armate (la vera stanza dei bottoni dell’Egitto). Nel 2012, quando Presidente della Repubblica egiziana era l’esponente dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi, Al-Sisi viene nominato capo di Stato maggiore delle Forze Armate ministro della Difesa e ministro della Produzione militare, in un Paese dove le aziende dirette dai militari incidono sul Pil per una quota che va dal 35 al 45% del totale. E nel 2013, riconoscente per tanta fiducia, Al-Sisi depone Morsi, inaffidabile sì ma democraticamente eletto, con un golpe da America Latina, per diventare a sua volta Presidente nel 2014.

 

Il golpe di Al-Sisi (vero, Mogherini& Co.?) porta con sé una repressione non diversa da quella messa in atto da Bashar al-Assad in Siria nel 2011-2012. Centinaia di morti nelle piazze, migliaia di arresti, desaparecidos, pestaggi. Pochi si scandalizzano. Il premier Matteo Renzi nel 2014 è il primo leader occidentale a sbarcare in Egitto e a congratularsi con Al-Sisi. Peccato. Perché ci sono almeno 500 morti per tortura nelle carceri, come documentato dalle organizzazioni umanitarie egiziane, nel solo 2016. Che è anche l’anno in cui, tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, viene rapito e assassinato Giulio Regeni. E questo è proprio il punto a cui volevamo arrivare.

 

Durante il summit Ue-Lega Araba che ha consacrato la statura internazionale dei rais egiziano, il nostro premier Giuseppe Conte ha incontrato Al-Sisi e gli ha parlato del “caso Regeni”. Al-Sisi ha garantito di essere personalmente interessato alla soluzione dell’atroce mistero che circonda la fine del giovanissimo ricercatore italiano, torturato come uno dei tanti oppositori egiziani che voleva incontrare e studiare. Fa male parlare in questo modo del dramma atroce di una famiglia, ma se vogliamo essere onesti quella pantomima si traduce così. Uno: la verità su Regeni già la sappiamo, l’hanno ammazzato uomini dei servizi segreti egiziani, apposta o per eccesso fa poca differenza. Due: Al-Sisi non ci dirà mai nulla più di così, perché non vuole e forse soprattutto perché non può. Se lo facesse, tradirebbe il sangue del proprio sangue, quegli uomini dei servizi segreti che ha diretto, lo hanno portato al vertice e oggi sono il sostegno del suo potere e di quel po’ di solidità che il Paese ha raggiunto. Tre: l'Italia non ha la forza politica, economica o militare per costringere Al-Sisi a fare di più.

 

Questo articolo potrebbe pure finire qui. Lo sanno tutti che è così. Lo sapeva il Governo Gentiloni, che nel 2017 decise di far tornare al Cairo l’ambasciatore italiano, che era stato appunto ritirato dopo la morte di Regeni. E lo sa l’attuale Governo, che preme su Al-Sisi ma con gentilezza e cautela, vedi mai si offendesse. D’altra parte dei diritti umani, delle condanne a morte distribuite come caramelle, della democrazia, dei valori e di tutto il solito ambaradan, quando si tratta dell’Egitto non importa nulla a nessuno. Lo dimostra la corsa dei 28 Paesi europei verso Sharm el-Sheikh, e prima ancora episodi anche meno edificanti. Per esempio: dopo la crisi diplomatica tra Italia ed Egitto del 2016, il buon presidente francese Francois Hollande corse da Al-Sisi per garantirgli crediti presso le banche francesi, con cui l’Egitto avrebbe comprato armi francesi. Obiettivo: provare a prendere il posto dell’Italia nei lucrosi affari con l’Egitto, in particolare quello del gas, per cui Eni prevede di investire nel Paese 10 miliardi entro il 2022. E poi ci sono le armi, le 130 aziende italiane che operano laggiù e hanno in ballo gare d’appalto per miliardi e miliardi. Eccetera eccetera.

 

L’Egitto, in poche parole, è un Paese intoccabile. Perché è l’architrave della stabilità di un bel pezzo di Africa del Nord e di Medio Oriente. Con triangolazioni anche poco sospettabili. L’Eni, per esempio, ha esplorato i due enormi giacimenti egiziani di gas naturale, quello di Zohr nel Mediterraneo e quello di Noor al largo della costa Nord del Sinai. L’azienda italiana, però, aveva esplorato anche i giacimenti israeliani di Tamar e Leviathan, con riserve tali da soddisfare la domanda interna di Israele per decenni e lasciare grandi quantità di gas per l’esportazione. Israele, però, non ha gasdotti importanti e nemmeno struttura per liquefare il gas e avviarlo all’estero. Chi ci penserà? Un’azienda egiziana, guarda un po’, proprio mentre la domanda di gas cresce a livello mondiale.

Per l’Italia e per l’Europa, poi, l’Egitto ha anche un’altra fondamentale funzione: quella del frangiflutti rispetto ai flussi migratori in arrivo dall’Africa. Non direttamente ma attraverso l’influenza che esercita sulla Libia, e in particolare attraverso il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica che tiene la mani sul rubinetto del traffico di migranti che vogliono attraversare la Libia e affrontare il Mediterraneo. La civilissima e sdegnosissima Europa è arrivata a Sharm al-Sheikh dopo aver trattato per settimane, prima del summit, sul testo di un documento relativo alle migrazioni. Questo perché Al-Sisi sta per fare la stessa carriera del collega turco Recep Erdogan e, con ogni probabilità, incassare un bel po’ di euro per bloccare i poveracci che arrivano dall’Africa sub-sahariana. Il che, prima o poi, potrebbe spingere anche l’Italia, finora legata al piano Onu per la Libia, a mollare gli ormeggi e abbracciare il pupillo di Al-Sisi, il generale Haftar, appunto. E allora siamo onesti. Davvero crediamo che ci sia qualcuno, a destra o a sinistra, sopra o sotto, in Italia o altrove, che sia pronto a far saltare questo calderone di miliardi e interessi strategici per rendere giustizia alla famiglia Regeni e accontentare i sindaci che espongono la bandiera gialla con la richiesta di verità sui loro municipi? Sarebbe bello. Ma non sarà.

 

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