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03 Agosto 2019

 

Una specie tra le altre

di Paolo Cacciari

 

La devastazione della biosfera ha superato il limite del non ritorno ma l’economia capitalista non accetterà di porre vincoli alla crescita. Che fare? Paolo Cacciari commenta un recente articolo del filosofo inglese John Gray come una provocazione e ne raccoglie la sfida rivolta agli ecologisti. Se davvero pensiamo a una società in cui i progressi della tecnologia non vengono usati per aumentare la produzione e i consumi ma per migliorare la qualità della vita, allora dovremmo avere il coraggio di sovvertire la cultura prevalente e mettere in discussione la “religione antropocentrica” e specista. L’umanità deve cominciare a concepirsi semplicemente come una specie animale che appartiene alla Terra, una tra le altre, cui non è garantita la sopravvivenza sul pianeta. La scelta sta noi: senza uscire dall’immaginario capitalista che rifiuta ogni limite per affermare il suo dominio sulla natura e le altre forme di vita, l’ambientalismo rischia di diventare un pensiero magico, cioè irrealistico.

 

John Gray è un influente filosofo della politica britannico. In Italia è conosciuto soprattutto per il suo premonitore False Dawn: The Delusionsof Global Capitalism, del 1998 (tradotto da Ponte delle Grazie, Alba bugiarda. Il mito del capitalismo globale e il suo fallimento). Un liberale antiliberista, contrario ad ogni forma di misticismo, consapevole della crisi ecologica, ma oppositore del “pessimismo cosmico” di certo ambientalismo. Insomma, un pensatore che si destreggia tra le contraddizioni del mondo. In questo suo scritto per UnHerd, tradotto dal settimanale  Internazionale con il titolo Come rispondere all’emergenza. Ci vuole più realismo, affronta i temi del “che fare?” in un modo alquanto provocatorio. Per Gray, la “devastazione della biosfera” ha davvero superato il limite del non ritorno, tanto che le conseguenze del surriscaldamento climatico sono irreversibili e continueranno ad agire anche dopo che le sue cause saranno eliminate. Ma secondo lui le soluzioni indicate dagli ecologisti “figli dei movimenti antiglobalizzazione” dei primi anni 2000, come Extinction rebelion, sono sbagliate perché troppo drastiche, “arroganti”, “impopolari” e, pertanto, “ignorano la realtà geopolitica”. Non tengono conto, cioè, che i governi delle nazioni (sia quelle di più antica che di nuova industrializzazione) non resisterebbero un giorno solo – si “destabilizzerebbero” – se “dovessero smettere di usare i combustibili fossili”.  Il tenore di vita degli abitanti crollerebbe, provocando “disordini sociali su larga scala” e i prevedibili cambiamenti politici non andrebbero certo nella direzione di una maggiore protezione dell’ambiente, come dimostrano le esperienze storiche dei regimi autoritari al potere. Quindi – in breve – la tesi di Gray, al pari di scienziati come James Lovelock (l’inventore della teoria di Gaia, la Terra come superorganismo in grado di autoregolarsi, oggi sostenitore dell’energia nucleare – invero, più per disperazione, che per convinzione) – è che la salvezza del genere umano potrà realizzarsi solo attraverso uno sviluppo tecnologico sempre più radicale: concentrazione degli abitanti in “città ad alta densità”, “produzione sintetica di alimenti”, moltiplicazione delle centrali nucleari e così via.

 

Gray è troppo intelligente per non sapere che ci sta prospettando un mondo da incubo, sempre più artificializzato, alla Blade Ranner, ancor più indesiderabile di quello attuale. Cerchiamo quindi di capire cosa ci vuole dire il filosofo britannico. A me pare che in realtà la sua sia una sfida al mondo ambientalista, più che una vera e propria proposta politica.

Il primo livello del ragionamento di Gray è molto semplice e d’ordine immediatamente politico: “Nessuno ha mai spiegato chiaramente – denuncia con ragione il filosofo – come funzionerebbe” un sistema sociale capace di rispettare i limiti dei cicli vitali del pianeta senza  che ciò comporti “un abbassamento degli standar di vita per un gran numero di persone”. Come dire: attenti ambientalisti, se non date risposte credibili e convincenti “per i poveri e per la maggioranza dei lavoratori”, allora la vostra visione del mondo sarà destinata al fallimento. Come dargli torto? Le “politiche verdi”, infatti, sono state fin qui catturate nel discorso generico e inefficace dello “sviluppo sostenibile”, oppure sono cadute nella retorica paralizzante del catastrofismo.

La risposta  “rosso-verde”, che lega indissolubilmente giustizia ambientale e sociale, non è in effetti ancora chiaramente prospettata dai movimenti green. Tantomeno da quelli di derivazione operaia. Senza un’idea di società ecosocialista, capace di risanare i rapporti di potere tra le persone e tra le persone e la natura,  non ci potrà essere componimento win-win tra le ragioni economiche e quelle ambientali. Tra bios e logos. Tra etica ed economia. L’idea di un’economia di cura, che privilegi i valori d’uso dei beni comuni (così come prospettata dai movimenti indigeni, ecofemministi, territorialisti, neomunicipalisti, ecosolidali…) non si è ancora affacciata sulla scena della politica. Non possiamo, quindi, incolpare i professori di filosofia se ancora non la conoscono.

 

La seconda sfida che lancia Gray alla cultura ambientalista è ancora più impegnativa, d’ordine filosofico. Il punto di partenza del pensiero del nostro autore è sacrosanto: “L’economia industriale non accetterà che vengano stabiliti dei vincoli alla crescita”. Ma non per interessi spiccioli di ricerca della massimizzazione dei profitti, ma per ragioni metafisiche: “Sognare l’impossibile è proprio quello che rende gli esseri umani unici e speciali”. L’antropologia contemporanea deriva dal fatto che: “Gli esseri umani sono stati incoraggiati a pensare di avere quel potere sulla natura che era prerogativa del dio”. Ma, poiché “nessuno crede più” a nessun dio, sostituito dalla “devozione alla scienza (…) il cui compito è formulare leggi universali indipendenti dalle convinzioni e dai valori umani”,  allora “le emozioni soggettive devono essere messe da parte” ed è necessario “prendere atto della realtà” culturale oltre che politica, “adattarvisi” e  “trascendere il mondo naturale” attraverso la sola forza delle invenzioni tecnoscientifiche.

 

Chiaro, come due più due. Ma se invece – ci sfida  Gray – c’è ancora chi crede  – con John Stuart Mill 170 anni fa – che sia auspicabile avvicinarsi ad “un’economia di stato stazionario”, a “crescita zero” (oggi diremmo: una società della decrescita), “in cui i progressi della tecnologia non vengono usati per aumentare la produzione e i consumi ma per migliorare la qualità della vita”, allora costoro (gli ecologisti) dovrebbero avere il coraggio di sovvertire la “cultura prevalente” e di  mettere in discussione la “religione antropocentrica” e specista. Prima che politica, la rivoluzione verde dovrebbe quindi riguardare la dimensione antropologica, la “mentalità di oggi”. L’umanità dovrebbe concepirsi semplicemente “come una specie animale  tra tante” e “come tutte le altre non ha un ruolo garantito sulla Terra”. Senza compiere questo salto di paradigma fuori dall’immaginario capitalista (“rifiuto di qualsiasi limite”) – sembra dirci Gray –  le politiche verdi sono destinate a rimanere un “pensiero magico”, cioè irrealistico. Meglio, quindi, adattarsi agli eventi, pianificare una “ritirata sostenibile. Usando le tecnologie più avanzate”, a costo di “perdere tanta parte della piacevolezza che (la Terra) deve alle cose che per la crescita illimitata della ricchezza e della popolazione devono essere estirpate”, con buona pace di Mill, ricordato da Gray, dei Principi di Economia Politica (1848).

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