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9 luglio 2019

 

Processo al Plan Condor a Roma, vittoria storica

di Andrea Cocco

                      

In questo articolo Alessandro Leogrande ripercorre la storia del processo

                      

La sentenza della Corte di Appello di Roma per il processo ai militari sudamericani implicati nel Piano Condor stravolge il primo grado e condanna al massimo della pena tutti gli imputati. Il processo, il primo del genere svoltosi in Europa, è al centro di un documentario e aveva visto un grande impegno di documentazione di Alessandro Leogrande

«Dopo 45 anni giustizia si può». È con la voce di chi ha lottato per decenni contro l’impunità che Aurora Meloni, appena uscita dall’aula, commenta la sentenza pronunciata ieri dalla Corte di appello di Roma sul Plan Condor, il piano segreto finalizzato alla sistematica sparizione di attivisti e oppositori politici durante le dittature in America Latina.

«Abbiamo attesto tanto – spiega Aurora – Per me questo processo è iniziato ne 1999, quando ho rilasciato le prime dichiarazioni alle autorità italiane sull’omicidio di mio marito, Daniel Banfi che era uruguayano, militante del MLN Tupamaros ed è stato trucidato nel 1974  in Argentina, dove ci eravamo rifugiati per sfuggire alla dittatura uruguayana. Ma è solo oggi – continua – dopo 45 anni, che posso tirare un sospiro di sollievo».

Una voce commossa ma ferma, quella di Aurora Meloni, che si unisce a quella delle decine di altri familiari e di attivisti che ieri hanno accolto con un’ovazione la pronuncia della Corte di Appello di Roma.

Sui 27 imputati, in una lista che comprendeva alte gerarchie e militari delle dittature di Uruguay Cile, Bolivia e Perù, sono state 24, escludendo i decessi, le condanne per omicidio riconosciute e 24 le pene all’ergastolo comminate.

«Oggi è stata fatta pienamente giustizia», commenta Arturo Salerni, avvocato di parte civile in diversi casi esaminati, «perché è stato ricostruito con esattezza il ruolo dei diversi torturatori e assassini nella scomparsa delle persone ed è stata riconosciuta la loro responsabilità per aver deliberatamente concorso a omicidi e sparizioni».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Avviato ufficialmente nel 1974 il Plan Condor si è concretizzato nella persecuzione, tortura e sparizione di migliaia di oppositori che, in fuga dai propri paesi di origine, avevano trovato rifugio nei paesi limitrofi. Un piano meticoloso orchestrato dagli Stati Uniti dell’allora segretario di Stato Henry Kissinger, e portato avanti con operativi congiunti tra i servizi segreti e le forze armate dei diversi paesi.

Nel febbraio del 2017 la sentenza di primo grado del processo Condor a Roma aveva riconosciuto per la prima volta a livello internazionale l’esistenza del Piano, facendo emergere, grazie all’immensa mole di documenti e testimonianze portate nel corso del procedimento, l’estensione criminale e occulta dell’organizzazione e mettendo in evidenza la standardizzazione delle procedure e il coordinamento delle attività.

Nel momento di riconoscere la colpevolezza degli imputati, accusati dell’eliminazione di 43 vittime latinoamericane di cui 23 di origini italiane, i giudici di primo grado della corte di assise di Roma, si erano però fermati di fronte alle lacune dell’ordinamento italiano.

Se da un lato infatti, nel codice penale italiano non esiste una fattispecie specifica per la  desaparición, dall’altro, fatto ancora più grave, non era contemplato fino al 2017 il reato di tortura, poi inserito ma con immense lacune, tra cui la prescrizione.

Una condizione che al momento della sentenza di primo grado aveva permesso a diversi imputati di evitare condanne nonostante il riconoscimento di responsabilità nella cattura, le torture e la sparizione delle vittime. Quello che mancava, si evinceva nelle motivazioni della sentenza di primo grado, era la pistola fumante: la prova inconfutabile che gli autori dei sequestri e delle torture erano anche responsabili della loro scomparsa.

Tra i casi più eclatanti quello di Jorge Nestor Troccoli ex-capo dei servizi segreti dei Fucilieri Navali in Uruguay, il FUSNA, e responsabile di una vasta operazione che tra il 1977 e il 1978 ha portato, in collaborazione con la famigerata ESMA di Buenos Aires, alla scomparsa di oltre 30 uruguayani che si erano rifugiati in Argentina.

Fuggito dall’Uruguay, dove stava per essere arrestato, Troccoli si era rifugiato in Italia nel 2007 consapevole che qui non avrebbe potuto essere arrestato per i reati di tortura. E questo nonostante fosse, tra le altre cose, l’autore di un libro, L’Ira del Leviatano, pubblicato negli anni ’80 e in cui riconosce in prima persona di essere stato autore di torture e di azioni operative in Argentina. Fatti che insieme alle testimonianze dirette di persone da lui torturate non erano state sufficienti, nel corso del processo di primo grado, a evitare un’assoluzione per mancanze di prove.

 

Per lui come per altri la condanna di ieri all’ergastolo ribalta completamente il verdetto.

«Pensare che un torturatore avesse trovato rifugio in Italia e potesse girare libero nel nostro paese era un fatto insostenibile», spiega l’avvocato Salerni. «Con la condanna in secondo grado a Troccoli, l’Italia ripara una mancanza grave e cioè il fatto di non aver concesso l’estradizione in Uruguay quando era stato richiesto».

«Tutta l’area del Sud America oggi, con questa sentenza, trova giustizia», aggiunge Andrea Speranzoni, avvocato di parte civile. «È importante ricordare chi erano le vittime del Plan Condor: sindacalisti, militanti, insegnanti e in generale qualsiasi oppositore alle dittature militari e fasciste del Cono Sur: dal Cile di Pinochet, alla giunta militare argentina, alla dittatura di Bordaberry in Uruguay, al Perù e alla Bolivia».

Per capire a pieno la portata della sentenza, ricorda Speranzoni, bisognerà attendere i 90 giorni necessari alla pubblicazione delle motivazioni. Ma al di là degli aspetti giuridici quello che è importante sottolineare è che il processo, con le decine di persone venute in Italia a testimoniare, costituisce una pagina viva di memoria combattente. Un intreccio di storie da cui è difficile non smettere di trovare energie. Storie come quella di Juan Montiglio, membro della guardia personale di Salvador Allende, che con i sui compagni resistette all’attacco alla Moneda per essere poi trucidato; o quella di Omar Venturelli dirigente del MIR ed ex-sacerdote, poi sospeso a divinis, a causa del sostegno dato all’occupazione delle terre in Cile; o ancora la storia di testimoni come Maria Victoria Moyano Artigas nata in un centro di torture in Argentina e sottratta ai propri genitori desaparacedidos.