https://www.wumingfoundation.com/ 29 Aprile 2019
Speciale #Lamacchinadelvento
La macchina del vento di Wu Ming 1 è uscito da poco più di dieci giorni ed è stato ristampato dopo sole 48 ore. Grazie a tutte e tutti coloro che l’hanno già preso, letto, commentato, e – naturalmente – grazie a chi lo prenderà, leggerà, commenterà da qui in avanti. Abbiamo già molto materiale interessante da segnalare: eccovi dunque il primo speciale di Giap dedicato al romanzo. Buona lettura. ? Oggi sul sito di Jacobin Italia compare una conversazione tra Giuliano Santoro e Wu Ming 1 a partire da La macchina del vento. Si parla di tante cose: tempo e conflitti sui tempi; Europa ed europeismo; letteratura fantastica e multiversi; come arrivare a La macchina del vento passando per L’Armata dei Sonnambuli e Proletkult; appunti di storia del movimento comunista novecentesco, e infine… marxismo zen. Il tutto con il titolo: → «Proletari di tutti gli universi paralleli unitevi!» ? Nella conversazione testé linkata si fa riferimento a come Mariano Tomatis ha introdotto la presentazione de La macchina del vento al Vag61 di Bologna, il 23 aprile scorso. In una vera e propria lectio magickalis, Mariano ha collegato il romanzo a tutte le riflessioni sul tempo fatte da Wu Ming 1 in quasi vent’anni, e proposto esempi di lotte, numeri di magia e performances che mettano sabbia negli ingranaggi del tempo imposto. L’intervento si intitola Il laboratorio sui viaggi nel tempo è rimandato a ieri e → si può leggere qui. ? La serata al Vag61 era stata annunciata sulla stampa bolognese, in particolare da un’intervista che WM1 ha rilasciato all’edizione locale del Corriere della Sera, uscita il giorno stesso con un sottotitolo mirabile nella sua sintesi: La macchina del vento vi era definito «romanzo ispirato da Berlusconi e Minniti». In che senso? Lo scoprirete leggendo l’intervista, →disponibile su Press Reader. ? Pochi giorni prima, e per la precisione la domenica di Pasqua, su Robinson – supplemento culturale di Repubblica – era uscita, col titolo «Via da Ventotene», una bella recensione de La macchina del vento a firma di Loredana Lipperini. Si può leggere → nell’archivio on line del quotidiano. ? Il record della primissima recensione de La macchina del vento e della primissima intervista a Wu Ming 1 sul romanzo ce l’ha comunque Radio Città Fujiko di Bologna, che la mattina del 16 aprile – giorno stesso dell’uscita– ha dedicato uno speciale al romanzo. → Qui la recensione e l’audio dell’intervista. Sono 16 minuti di inconfondibile esse sibilante ferrarese, in omaggio al compagno Erminio Squarzanti.
https://jacobinitalia.it/ 29 Aprile 2019
«Proletari di tutti gli universi paralleli unitevi!» di Giuliano Santoro e Wu Ming 1
Il nuovo romanzo di Wu Ming 1 è ambientato tra i confinati antifascisti di Ventotene. Il libro fornisce un'ipotesi psichedelica del modo in cui ci si immaginò il futuro. Ne discutiamo con l'autore
È in libreria ormai da un paio di settimane La Macchina del Vento, il nuovo romanzo solista di Wu Ming 1. Il libro è ambientato al confino politico di Ventotene tra il 1939 e la caduta del fascismo. Racconta la vita quotidiana e gli slanci prodotti da quella straordinaria e tragica concentrazione di cervelli politici e militanti antifascisti. Racconta di una coabitazione forzata che per molti versi ha prefigurato la Liberazione e la Resistenza, oltre ad avere prodotto il mito dell’Europa unita che oggi, non sempre a proposito e spesso in maniera acritica e pacificata, viene proposto. È una storia corale, perché in queste pagine si muovono molti degli abitanti dell’isola. Si tratta di personaggi realmente esistiti e delle loro vicissitudini e storie politiche che li accompagnano: tra gli altri Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Umberto Terracini, Camilla Ravera. In primo piano ci sono due personaggi inventati ma plausibili: il fisico romano Giacomo Pontecorboli e lo studente di lettere classiche Erminio Squarzanti. È attraverso di loro che l’autore esplora la dimensione del fantastico, immagina viaggi nel tempo e dialoga coi miti greci. Gli avvenimenti si muovono nelle pieghe di quelli storici, sono frutto di invenzioni verosimili. Di questo, della dimensione del tempo come occasione per guadagnare una narrazione obliqua e insolita e per ragionare politicamente su quegli eventi, abbiamo discusso con Wu Ming 1. Non so se è una scelta pianificata, ma ho l’impressione che i vostri ultimi libri stiano esplorando la dimensione del tempo. Quelli precedenti si muovevano più nello spazio, per descriverli spesso usavamo metafore topografiche, parlavamo di cartografie e ragionavamo sulla scala della mappa narrativa. Penso soprattutto a Q e Altai ma anche a L’armata dei sonnambuli, romanzi nei quali la vostra formazione (psico)geografica emergeva chiaramente. Qualche mese fa è arrivato Proletkult con le sue archeologie del futuro, adesso arriva La Macchina del Vento. Sono testi che ibridano il romanzo meta-storico con la narrazione fantastica/fantascientifica e ragionano sul futuro e sul passato più che sulla continua ricerca di un Altrove oppure sulla dimensione politica degli spazi. Non trovi? Posto che spazio e tempo non sono separabili, e non a caso da più di un secolo parliamo di «spaziotempo», io fatico a discernere, nel nostro lavoro, l’aspetto «cartografico» – come hai detto tu, questo vedere stesa davanti a te la mappa della storia, come se il romanzo fosse un gioco da tavolo – e addirittura l’aspetto propriamente geografico del nostro lavoro dalle riflessioni sul tempo che lo attraversano. Anche nei nostri libri nati per rispondere a interrogativi geografici, dal «Ciclo dei Sentieri» di Wu Ming 2 ai miei Point Lenana e Un viaggio che non promettiamo breve, nell’esplorare e raccontare territori noi parliamo sempre dei conflitti sui tempi che si svolgono in quei luoghi, o addirittura riproduciamo noi stessi una contraddizione sui tempi, per abitarla e per scriverne. Faccio un esempio: si è sventrato l’Appennino toscoemiliano per guadagnare meno di venti minuti nel tragitto Bologna-Firenze, peraltro regolarmente annullati dai ritardi? Si sono prosciugati cento corsi d’acqua per costruire la linea AV ferroviaria? Ecco che Wu Ming 2 decide di fare lo stesso percorso a piedi, mettendoci una settimana, e questo rallentamento del viaggio tra i due capoluoghi dà il tempo, tappa dopo tappa, di farsi le domande giuste su quel che è accaduto, e di scriverne da un’angolatura inusuale. Un altro esempio: in Point Lenana io mi chiedo: perché si va in montagna? E, andandoci, mi rispondo – taglio con l’accetta – che si va a cercare una diversa temporalità, si va in montagna per interrompere il ritmo che ti impone la vita in città, e in questa voglia di interrompere c’è sempre un impulso utopico, che il capitale cerca di normalizzare, infatti il tempo del capitale fa di tutto per inseguirti anche in montagna, commercializzando l’esperienza e trasformando ogni prassi in «sport», ficcando shopping mall tra una cima e l’altra, trasformando i rifugi in disco-pub, facendoti ritrovare il megaconcerto della tale popstar a duemila metri e passa di quota ecc. E poi nei nostri libri geografici c’è, onnipresente, la figura del «fantasma». Ogni luogo è posseduto da fantasmi, e interrogando questi fantasmi capiamo qualcosa su quali tempi si scontrino, si sovrappongano, si sfreghino l’uno contro l’altro, tengano quel luogo in tensione. Per fare un esempio: nei territori che ho esplorato in Point Lenana e Cent’anni a Nordest, le contraddizioni generate dalla prima guerra mondiale sono ancora acute, non hanno spigoli smussati, perché molti «fantasmi della guera granda» sono vivi, in carne e ossa: sono le minoranze linguistiche e nazionali che il Regno d’Italia inglobò attaccando e annettendo territori dell’impero austroungarico: i cittadini italiani di lingua tedesca e slovena sono testimonianze viventi del 1918, dell’esito della prima guerra mondiale. Venendo a Proletkult e a La macchina del vento, sono libri – come già L’Invisibile Ovunque – che si pongono già oltre la nostra produzione di romanzi storici, e dove prosegue la riflessione sul tempo e i tempi, perché in questi testi cerchiamo di tradurre in narrativa lezioni che ci sembra di aver imparato sia lavorando all’altro filone della nostra produzione – quello degli «oggetti narrativi non-identificati» – sia ragionando in pubblico, durante conferenze e workshop. Ne La macchina del vento sono finite, ovviamente trasfigurate, riflessioni fatte seguendo la lotta No Tav, e poi il romanzo non può non far pensare a una mia conferenza del 2011 sul tempo che, guardacaso, partiva da due testi di fantascienza: L’occhio del purgatorio di Jacques Spitz e The Gernsback Continuum di William Gibson. Prima citavi L’Armata dei Sonnambuli, che aveva già un piede nella direzione che stiamo percorrendo ora, c’era già il fantascientifico, un fantascientifico rétro, rococò. Ebbene, lì il personaggio che si fa chiamare Laplace fa alcune riflessioni cruciali sul tempo, sul momento giusto per intervenire nel caos della Révolution, sul Kairos della controrivoluzione. Laplace si dice: la controrivoluzione dev’essere anch’essa, a suo modo, una rivoluzione, altrimenti è solo, banalmente, «restaurazione». Non si può, non si deve tornare al tempo «di prima», quello di Luigi XVI e di Maria Antonietta, bensì a quello «di prima ancora». Se, come diceva Furio Jesi, il tempo della rivoluzione è il dopodomani, quello della vera controrivoluzione, pensa Laplace, è l’altroieri, il presunto Ordine Antico. Ma Laplace sa bene che quell’ordine è un mito retrospettivo, per questo vive il proprio riferirsi alla Tradizione come un moto in avanti, non all’indietro. La macchina del vento incrocia temi e situazioni che, nonostante le ovvie differenze, ci suonano come familiari. C’è il tema del Mediterraneo come mare di incroci e non di guerre, c’è il rapporto tra minoranze e masse e tra le varie anime dell’antifascismo. Ma vorrei tornare sulla questione del tempo, perché anche in questo caso il romanzo risuona nella nostra esperienza quotidiana. Ormai sappiamo che il tempo non è uno solo. È assodato che ci sono diversi tempiche scorrono in parallelo e che lo sperimentiamo nella nostra esperienza quotidiana, basti pensare al tempo del mondo digitale e a quello della vita reale, a come questi si intrecciano creando in noi, sostiene l’analista Douglas Rushkoff, una specie di mini-jetlag ogni volta che passiamo da una dimensione all’altra. Allo stesso modo, andare sull’isola di Ventotene significa entrare in uno spazio che vive una sua temporalità, che in qualche modo anticipa il futuro prossimo ma che aspetta il kairos, il tempo non misurabile dal punto di vista quantitativo ma qualitativo. È il tempo le cui condizioni sono costituite dalla soggettività. In fondo questa è la lezione dei confinati. Persino nel mondo a parte dell’isola stavano vivendo nel e costruendo il futuro? Questa è l’impressione che si ricava, fortissima, da memorie e ricostruzioni. A tal punto che, molto più di recente di quanto si creda, ne è nato un mito pernicioso. La carica di anticipazione che, retrospettivamente, l’esperienza del confino a Ventotene sembra avere è la premessa di tutte le esagerazioni e gli stereotipi propagandistici fioriti intorno al cosiddetto Manifesto di Ventotene, scritto da Spinelli e Rossi sull’isola, nel 1941. Secondo questa vulgata, Ventotene fu la «culla dello spirito europeo» e, addirittura, il luogo di nascita dell’Unione europea. Si crede che il Manifesto di Ventotene – che non si chiamava nemmeno così, è una reintitolazione di molto posteriore – abbia squarciato i cieli e annunciato un tempo nuovo, quasi una scena da kolossal biblico. In realtà, quando il manoscritto circolò sull’isola, in una parte molto minoritaria della comunità dei confinati (girò quasi solo tra giellisti e socialisti), non solo se lo filarono in pochissimi, ma tra quei pochissimi attirò – con buone ragioni – aspre critiche. Ne nacquero alterchi e divisioni, a tal punto che i suoi autori – ribattezzatisi «federalisti» – furono praticamente isolati e dovettero aprirsi una mensa per conto loro. Poi il manoscritto fu portato rocambolescamente in continente, grazie ad Ada Rossi e Ursula Hirschmann, ma nemmeno lì riuscì ad aggregare più di una minuscola cerchia di borghesi “illuminati”. Non si tratta di ingenerosità da parte mia, è un dato di fatto rilevato più volte anche dagli stessi federalisti. Dopo la guerra, per decenni il testo rimase sconosciuto ai più. A lungo non fu nemmeno ripubblicato. Ha cominciato a tramutarsi in un livre de chevet da citare alla bisogna – e perlopiù a vanvera – all’incirca una ventina di anni fa, quando il vaporware della costruzione europea ha cominciato a sfumare e si sono rese visibili le magagne che conosciamo. L’ordoliberismo di Maastricht, del Trattato di Lisbona e della direttiva Bolkestein si è concretizzato in un’austerity da mattatoio, scatenando per reazione rigurgiti nazionalisti. Di fronte a tali rigurgiti c’era il bisogno di premere sul pedale del mito delle origini, un mito delle origini nobile, e così si è fatto di Spinelli un santino. Naturalmente, una significativa parte di chi cita il Manifesto di Ventotene – soprattutto i politici – lo fa per sentito dire, non sa nemmeno cosa ci sia scritto. Stiamo parlando di un testo che, pur con tutte le sue criticità, come pezza d’appoggio dell’ordoliberismo non funziona granché bene. Ad esempio, prevede estese nazionalizzazioni. Ad ogni modo, il risultato è che se oggi dici «Ventotene» scatta il cliché: «Dove è nata l’Unione europea!». Tutta la potenza, la carica di anticipazione di una storia vasta, complessa e ricca di sfumature come quella del confino politico sull’isola viene ridotta a un europeismo bidimensionale e strumentale, e perciò ineluttabilmente impoverita. Non mi sembra un caso che ciò sia avvenuto negli stessi anni in cui si picconava la memoria pubblica del movimento che Ventotene anticipò davvero, vale a dire la Resistenza. A Ventotene la Resistenza fu prefigurata ben prima che sul continente. Per tornare all’inizio di questa risposta, l’impressione che si ricava leggendo gli epistolari dei confinati, le biografie e autobiografie, le ricostruzioni storiografiche, è proprio che su quell’isola gli antifascisti si siano consciamente preparati a prendere il proprio posto nella Resistenza, e da ben prima del 25 luglio del ’43. Nel mio romanzo questo prepararsi si esprime anche tramite fantasticherie, sogni, allucinazioni, e può sembrare in toto una mia licenza poetica. In realtà, mi sono ispirato ad aspetti reali dell’esperienza del confino, o a modi in cui gli ex confinati ricordarono e raccontarono quell’esperienza. Ad esempio, le riflessioni sul «linguaggio notturno» vengono direttamente dall’autobiografia (incompiuta) di Spinelli. Il ruolo di «aruspice» giocato da Mario Maovaz si trova nelle testimonianze. E poi mi piace citare un aneddoto, forse il più inquietante… La mattina del 23 luglio del 1943 Ernesto Rossi – non più a Ventotene perché tradotto a Roma in attesa di un processo, ma ancora impregnato dell’atmosfera di Ventotene – si sveglia nella sua cella e subito scrive una lettera alla madre e alla moglie, raccontando un sogno appena fatto. Nel sogno arrivava a Bologna, dove ha vissuto da ragazzo, trovando la città in preda alla più grande agitazione: tutti correvano, si abbracciavano, esultavano. Entrato in un caffè del centro, Rossi chiedeva al cameriere cosa mai fosse accaduto. Il cameriere gli allungava un quotidiano e diceva di leggerlo senza farsi notare, perché quell’edizione era appena stata sequestrata. Rossi non rammenta cosa c’era scritto, ma nel sogno alzava gli occhi dalla pagina ed esclamava: «Finalmente!» Per questo si è risvegliato euforico. Ripeto, la lettera fu scritta e spedita il 23 luglio 1943. Due giorni dopo cadde Mussolini, e nelle città d’Italia si videro esattamente le scene che Rossi aveva sognato. Ne La macchina del vento gli dei della Grecia antica entrano in gioco, ma in maniera molto umana. Sono forze immanenti, non sovradeterminano la vita degli uomini ma ne rappresentano i conflitti e anche le imperfezioni. Non c’è nulla di determinato, non siamo predestinati a nulla, sembrano dire anche loro. È il ragionamento sulla macchina mitologica, che il regime fascista aveva prodotto e su come produrre narrazioni e miti antifascisti? Qualche giorno fa Mariano Tomatis, presentando con me La macchina del vento al Vag61 di Bologna, ha ricordato un mio vecchio intervento, del settembre 2002, intitolato Siamo tutti Breckenridge. Le ultime righe di quel testo dicevano: «Noi crediamo che i miti (al plurale) siano narrazioni dinamiche espurie, racconti che ci permettono di superare la quarantesima notte nell’ignoto (il deserto, le fasi di incertezza del conflitto sociale). La mitopoiesi consiste nel manipolare i miti, nel ‘farli a pezzi’ e ricostruirli, per estrarre la consapevolezza dall’entropia, senza rinunciare alla ragione (come nell’uso strumentale del materiale mitologico da parte del nazismo) né all’emozione (cioè limitandosi ad analizzare). L’approccio giusto possiamo trovarlo solo raccontando». «Fare i miti a pezzi per ricostruirli» mi sembra quel che ho fatto anche nel romanzo. Lavorando, stavolta, coi miti per eccellenza, quelli in senso stretto, i miti del nostro repertorio classico, i miti dell’epica che ti insegnano a scuola. Ma come ho cercato di farlo? Ho cercato di farlo, come già in Proletkult, lavorando sull’anfibologia per ottenere il perturbante. In retorica, l’anfibologia – letteralmente, «discorso del dubbio» – è un discorso che, grazie a uno o più espedienti, è interpretabile in due modi diversi. Grazie a quest’approccio, un romanzo fantastico può restare per tutto il tempo in equilibrio tra lo strano e il meraviglioso. Nel suo saggio del 1970 Introduction à la littérature fantastique, Cvetan Todorov definiva «fantastico-strano» un racconto in cui il soprannaturale, dopo aver messo in atto tutte le sue potenzialità e ottenuto i suoi effetti sul lettore, trova una spiegazione razionale, in una sorta di «auto-debunking» del racconto. Di contro, è «fantastico-meraviglioso» un racconto in cui il soprannaturale, in un tacito patto tra chi scrive e chi legge, è accettato come tale. Ecco, la dimensione del perturbante – secondo Freud, un’inquietante compresenza di familiare ed estraneo – si ottiene quando ogni scena soprannaturale, ogni frase che evoca il soprannaturale, ogni elemento della costruzione è spiegabile in entrambi i modi. Stesso discorso per l’«extraterrestre». A seconda di come scegli di interpretare il personaggio di Denni in Proletkult, il libro cambia statuto. A seconda di come scegli di interpretare i racconti di Giacomo e la presenza sull’isola degli dei greci, La macchina del vento ti mostra una faccia diversa. Diverse persone, durante o dopo la lettura de La macchina del vento, citano American Gods di Neil Gaiman. È un romanzo che ho molto amato, ma l’uso delle divinità da parte di Gaiman sta pienamente dentro il fantastico-meraviglioso. Gli dei certamente ci sono. Nel mio libro non è detto che non ci siano, e non è la stessa cosa. In questa fase della nostra attività di narratori, e coerentemente con le nostre riflessioni sull’inadeguatezza del debunking-e-basta di fronte alle narrazioni tossiche (teorie del complotto ecc.), noi Wu Ming crediamo che l’anfibologia perturbante sia uno strumento per stimolare letture critiche del reale, per «allenare il muscolo» della lettura critica. Siamo arrivati a praticare questo terreno anche grazie alle riflessioni di Wu Ming 4 su Tolkien e sul fantastico-meraviglioso, e naturalmente grazie alla collaborazione con Mariano Tomatis. Nel tuo romanzo i comunisti sono raccontati da fuori, vivono il dramma dei capitomboli tattico-diplomatici di Stalin, anche se sono percepiti come imprescindibili e ne traspare la maggiore forza organizzativa oltre che la disciplina. Non porli al centro della narrazione è stato un modo per uscire dalla zona di comfort? Come ben sai, nemmeno quell’altra sarebbe stata la mia zona di comfort. Il periodo sul quale mi concentro è quello in cui i comunisti fanno colonia a sé, separati da tutti gli altri antifascisti di Ventotene, per via del patto tra Hitler e Stalin, oltreché per come sono andate le cose in Spagna, e per la crescente consapevolezza di cosa siano state le «purghe» del 1936-1938. La macchina del ventocomincia proprio nel ’38. A proposito delle purghe, André Breton ha appena scritto che dall’Urss giunge ancora luce, ma non è più quella dei Lumi e del pensiero marxiano, bensì «la luce di una scala di prigione che vi faranno scendere alle quattro del mattino, una scala costeggiata di rigagnoli come un tavolo anatomico dove, a un certo punto, riceverete una pallottola nella nuca». Quella pallottola la riceve quasi tutta la dirigenza bolscevica che ha fatto la Rivoluzione d’Ottobre: di tutto il Politburo bolscevico del 1917, come anche del primo governo provvisorio (il Sovnarkom), nel 1940 è ormai rimasto vivo solo Stalin. Tutti gli altri li ha fatti ammazzare lui. Nell’Armata Rossa, vengono fatti fuori gli alti ufficiali che avevano condotto e vinto la guerra civile contro i “bianchi”, cosa che nel 1941 avrà conseguenze disastrose. Il tutto giustificato con teorie del complotto, vecchia specialità della polizia zarista, il cui apparato, sotto un velo di vernice rossa, in buona sostanza sopravvive. L’Okhrana, non dimentichiamolo, aveva inventato i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Gli anni Trenta sono quelli in cui prende forma quella versione della società dello spettacolo che Guy Debord chiamerà «spettacolare concentrato», dove «l’immagine imposta del bene raccoglie la totalità di ciò che esiste ufficialmente, e di norma si concentra su un solo uomo, che è il garante della sua coesione totalitaria». Ogni residua collegialità rivoluzionaria lascia il posto al culto della personalità di Stalin. Avviene nell’Urss e, per automatico riflesso, nell’Internazionale. Quel che dice e fa Stalin è indiscutibile, anche quando firma un patto con Hitler. È così che nell’estate del ’39 il Komintern torna de facto allo «stile paranoico» del periodo 1928-1935, quello in cui ogni altra forza operaia e antifascista era tacciata di «socialfascismo». Chi, all’interno dei partiti comunisti, esprime una critica, nella migliore delle ipotesi viene ostracizzato, come a Ventotene accade a Terracini – che dal confino scrive cose lucidissime contro la linea ondivaga del Komintern – e Camilla Ravera. Due che il partito lo hanno fondato insieme a Gramsci, per dire. Del resto, lo stesso Gramsci non se l’è passata molto meglio, dopo il ’28, a livello di rapporti col partito… Stante un simile intruppamento delle coscienze, come avrei potuto ambientare un romanzo in quella parte della colonia? Era proprio una questione di agibilità narrativa: i comunisti erano lontani da quasi tutto ciò che del confino mi ispirava e mi premeva raccontare: il ruolo di Pertini, le polemiche sull’Europa, la dimensione visionaria… Per essere praticato, il piano narrativo “psichedelico” escludeva a priori impostazioni troppo rigide e dottrinarie. Detto questo, io nello scrivere i miei libri “solisti” non credo di essermi mai, dico mai, mosso in una zona di comfort. Mi sono sempre spinto dov’ero sicuro di sentirmi a disagio, dove sapevo che mi sarei fatto un gran mazzo, dove mi aspettavo di essere il più spesso possibile infelice – al contrario di quando scrivo col resto della band. E ogni volta ne esco esausto. Mi ritrovo perfettamente in un celebre appunto di Beppe Fenoglio: «Scrivo per un’infinità di motivi. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti». Erminio si ritrova in mano una copia clandestina de «L’Avanti» con un articolo pseudonimo di Eugenio Colorni su spontaneità e organizzazione. Vi si sostiene che un’organizzazione centralizzata non riesce a proliferare. «Una forma di organizzazione esiste sempre, indipendentemente dai partiti e dai sindacati – sintetizza – Alle masse non mancano la comunità né il senso di solidarietà nel luogo in cui vivono e lavorano. Ciò che manca loro è una solidarietà più vasta, l’idea di essere parte di un movimento più esteso, oltre ad analisi puntuali ed obiettivi precisi». Mi pare l’ennesimo gancio che La Macchina del Vento offre ai temi di Proletkult e alle teorie di Bogdanov: l’organizzazione come costruzione di una visione del mondo in comune più che come irregimentazione. Quell’articolo del 1937 firmato «Anselmi» lo uso principalmente perché consente di «spazzolare contropelo» il mito di un Colorni «spinelliano». Ci sono lunghi passaggi del Manifesto di Ventotene – tra i cui autori Colorni non figura, è un falso ricordo di molti: lo scrissero Spinelli e Rossi – sulle quali Colorni non poteva evidentemente essere d’accordo. Spinelli e Rossi fanno l’apologia dei processi dall’alto, ripetono in più punti che le masse non sono mature, hanno una visuale troppo ristretta, non capirebbero ecc. Colorni invece credeva nella loro capacità di autorganizzazione, era per l’orizzontalità e i processi dal basso. L’idea che mi sono fatto è che, tatticamente, mise da parte le proprie remore e accettò di firmare il testo (e più tardi di darlo alle stampe con una sua prefazione), perché in quel frangente riteneva prioritario diffondere la parola d’ordine dell’Europa unita. Detto questo, è significativo l’accostamento che fai nella tua domanda: quando ho detto a Lorenzo Teodonio – il compagno che mi ha fatto da consulente scientifico – che avevo finalmente cominciato a scrivere il libro, lui mi ha detto: «Spero abbia un ruolo importante Colorni. Colorni è una specie di Bogdanov italiano». Una mezza boutade, un’intenzionale forzatura, ma molto stimolante. Proprio mentre finivo il romanzo ho visto una terribile puntata di Passato & Presente, la trasmissione di Paolo Mieli, interamente dedicata a Colorni. Un cliché dopo l’altro. Il ricordo di Colorni è congelato nel cliché, perché morì troppo presto, e non possiamo nemmeno immaginare come si sarebbero evoluti i suoi rapporti coi federalisti. C’è anche il “carico da undici” del risvolto personale, con sua moglie Ursula che si innamora di Spinelli… Un ginepraio. Quando gli antifascisti al confino sentono la storia di Giacomo Pontecorboli, si pongono i dilemmi filosofici propri dei viaggi nel tempo. Semplificando, il principale dibattito che ha impegnato alcuni filosofi e interrogato gli scrittori che si sono cimentati con i viaggi nel tempo riguarda la possibilità di andare nel passato per cambiare il corso della storia. Se esiste soltanto un tempo lineare, allora non sarà possibile tornare indietro nel tempo, uccidere Mussolini e salvare l’Italia dal fascismo. Se esistono molte dimensioni, e viaggiare nel tempo è spostarsi nel multiverso, allora potremo modificare una di quelle linee temporali. E costruire un futuro in cui Mussolini è stato fatto fuori prima della marcia su Roma. È un modo per rompere il fatalismo? Teniamo conto anche del tono perplesso e problematizzante con cui Erminio riporta queste conversazioni, che hanno luogo in un solo camerone della cittadella confinaria, e avvengono nel «linguaggio notturno» di Ventotene, quello delle visioni compensatorie, delle fantasticherie che aiutano a resistere. Fantasticherie sempre legate al proiettarsi in avanti, al superare le pastoie del presente. Di queste fantasie Erminio arriva a comprendere l’importanza, il valore, la pulsione utopica: nel linguaggio notturno si esprime una verità, e sarà un altro confinato, il ravennate Guido Ravaioli, a spiegarla in una delle scene-chiave del romanzo, forse la più filosofica. Per tornare alla questione a cui accennavi, quella del «multiverso», i confinati si pongono un problema non da poco: se noi uccidiamo Mussolini prima che prenda il potere, e dunque creiamo un corso degli eventi alternativo al nostro, avremo fatto il bene degli abitanti di quel mondo parallelo, ma nel nostro il duce sarà ancora al potere, e allora a noialtri che ce ne viene? È qui che, con intento canzonatorio, qualcuno conia il motto «Proletari di tutti gli universi paralleli unitevi!», che possiamo vedere come un’estensione “laterale” dello slogan che abbiamo usato per Proletkult: «Proletari di tutti i pianeti unitevi!» Sono entrambi witz, forzature ironiche, ma noi crediamo che aiutino a pensare meglio, che stimolino l’attitudine a immaginare il nuovo. Sono qualcosa di simile ai k?an del buddismo zen. Ecco, vedili così: sono k?an marxisti.
Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo). Wu Ming 1, membro del collettivo di scrittori il cui ultimo libro è Proletkult (Einaudi), dirige per Alegre la collana di ibridi narrativi Quinto Tipo. Il suo ultimo libro da solista è La macchina del vento (Einaudi).
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