http://www.euronomade.info https://www.dinamopress.it/ 26 aprile 2019
Su “Dominio e Sabotaggio”: intervista a Toni Negri di Cannelle Gignoux, Davide Gallo Lassere, Jean-paul Gasparian, Matteo Polleri
A più di quarant’anni dalla sua prima stampa italiana, pubblichiamo l’intervista che compare come postfazione alla recente edizione francese del celebre pamphlet di Toni Negri, curata per i tipi di Entremonde da Cannelle Gignoux, Davide Gallo Lassere, Jean-Paul Gasparian e Matteo Polleri
Edito nel gennaio ’78 per Feltrinelli, Il Dominio e il sabotaggio. Saggio sul metodo marxista della trasformazione sociale si presenta come un testo profondamente legato alla congiuntura nella quale appare, caratterizzata dall’affermazione su larga scala dell’autonomia operaia e proletaria in diversi ambiti della società italiana. Il movimento del ’77 aveva in effetti segnato un passaggio chiave nel ciclo di lotte del «lungo ’68 italiano», accentuandone la conflittualità e mutandone le forme espressive. Potresti descriverci la situazione nella quale hai scritto questo pamphlet? Pensiamo in particolare al contesto milanese, che hai frequentato attraversando la redazione di «Rosso», il «giornale dentro il movimento», punto di riferimento di diversi gruppi autonomi. TN: Dominio e sabotaggio è stato scritto in Svizzera dove mi ero rifugiato in seguito ad un mandato di cattura della procura di Bologna per i fatti del marzo ’77. I compagni di Rosso (alla cui redazione partecipavo) erano stati molto attivi a Bologna in quelle primaverili giornate di rivolta e la polizia e la magistratura non avevano trovato nulla di più intelligente per reagire e reprimere che accusare di associazione sovversiva uno dei membri della redazione del giornale. Ma parliamo di cose più serie: Dominio e sabotaggio è un testo senz’altro legato più che ai fatti di Bologna, alla situazione delle lotte a Milano, dove vivevo da un decennio e (come ho già detto) facevo parte di Rosso, l’organo dell’autonomia milanese, diffuso in tutto il paese. Ora, nel 1977, i fatti di Bologna (l’insurrezione e l’occupazione della città universitaria dopo l’uccisione di uno studente da parte dei carabinieri) e romani (la vigorosa espulsione da parte degli autonomi dei sindacati del “compromesso storico” dall’università La Sapienza) erano stati anticipati dal movimento milanese, lungo gli anni che lo precedono. Nell’occupazione di abitazioni e di luoghi di incontro e dell’università, nelle appropriazioni proletarie nei supermercati e dei loisir di massa (cinema, concerti, ecc.), nella conquista e nella difesa di zone metropolitane liberate e nelle feste proletarie che ne seguivano, si era espressa l’autonomia che aveva così inaugurato e consolidato in quegli anni nuove forme di vita del proletariato metropolitano. Tutto questo si aggiungeva agli scioperi operai ed alla loro difesa nelle fabbriche e nei quartieri. Esisteva una continuità fra la fabbrica e il territorio che era stata prodotta e sperimentata a partire già dal ’68, nella città e nelle banlieues milanesi – prima di tutto su iniziativa delle organizzazioni di base degli operai delle fabbriche, poi mano a mano su iniziativa di un soggetto metropolitano molteplice (sempre operaio ma anche studentesco, giovanile, femminile, immigrato…) organizzato sul territorio. Dominio e sabotaggio fa parlare questo soggetto che, nelle lotte e nell’organizzazione, cerca la propria “autovalorizzazione” e vuole consolidarla in fabbrica e nella metropoli. “Autovalorizzazione” significa che questo soggetto, se è operaio, vuole aumentare il salario e lavorare meno; se è studente vuole organizzare criticamente i propri studi, esser pagato per questa formazione e non subire controlli disciplinari; che infine, per quelli che lavorano e per quelli che non lavorano, a tutti propone di esser padroni della propria vita e di esercitare “contropotere” nei confronti di padroni, politici, preti e poliziotti, organizzandosi nel costruire forme comuni di vita. Contro questa moltitudine si scatena la repressione statale che viene crescendo dal ’68 al ’77. Bisogna dunque difendersi. Una difesa all’altezza della forza che si è capaci di esprimere dentro i rapporti di produzione nelle fabbriche e nei quartieri. “Sabotaggio” è l’espressione dell’autovalorizzazione della moltitudine operaia e metropolitana a fronte della repressione sempre più pesante che essa subisce. E corrisponde agli alti livelli di coscienza e di organizzazione del proletariato milanese in quegli anni. Non confondete dunque la parola sabotaggio con un’incitazione luddista, di resistenza morale o individuale. Sabotaggio è, nel linguaggio operaista, la resistenza collettiva, moltitudinaria contro il comando capitalista sulla produzione, sull’organizzazione del lavoro. Il sabotaggio individuale può talora essere un sintomo; il sabotaggio collettivo è un’azione rivoluzionaria. Quello che il sabotaggio cerca è l’indipendenza della classe operaia dal capitale e, dentro questa separazione, l’unità proletaria del diverso, l’intersezione di operaio di fabbrica e di lavoratore sociale. Questi concetti erano sviluppati, in parallelo a Dominio e sabotaggio, da altri operaisti, come per esempio Ferruccio Gambino e Maria Rosa Dalla Costa, che stabilirono allora l’intersezione fra lotte operaie, lotte razziali e lotte femministe.
In questo quadro, insisti in particolare sull’analisi della situazione globale del capitalismo italiano e internazionale, polemizzando con ogni forma di «riformismo» e di «compromesso politico» tra le forze sociali, ed aprendo al tempo stesso un confronto con le differenti correnti della galassia rivoluzionaria dell’epoca. L’offensiva repressiva che ha poi colpito i nuclei autonomi – ed in particolare l’operazione del 7 aprile ‘79 – è nota e ha certamente a che fare con la radicalizzazione dello scontro impostasi nel ’77. Potresti ricostruire quelle discussioni tattiche e strategiche? TN: Nel bel mezzo del ’77, davanti al contrattacco capitalista, era necessario costruire una più alta forma di organizzazione, non solo più estesa, non solo unificata, ma rinnovata ed attraversata da un diagramma programmatico e da capacità di decisione. Dominio e sabotaggio è un testo, fra gli altri, che serviva a preparare la piattaforma di discussione per l’assemblea generale dell’autonomia operaia convocata a Bologna nel settembre ’77. Il saggio è infatti datato 3 settembre. A quell’assemblea non potrò essere presente perché latitante, ma il mio testo ci fu. Qual era la linea che vi si sosteneva? Che bisognava, dall’assemblea di settembre, fare emergere una nuova piattaforma politica ed un vero passaggio organizzativo. A questo scopo, il problema da risolvere per Dominio e sabotaggio sta nel costruire un nuovo rapporto fra l’azione (politica) di “destabilizzazione” e l’azione (di classe) di “destrutturazione” del potere capitalista. Per “destabilizzazione”, si intendeva l’azione costante che il movimento produce, sul terreno sociale e politico, di “delegittimazione” e di blocco dell’esercizio del potere politico del nemico. Per “destrutturazione”, si intende l’azione di classe nell’attacco al capitale costante, alla sua valorizzazione, sia nella fabbrica che nei processi di circolazione sociale del valore. Il dibattito strategico si svolgeva allora fra chi considerava fondamentale ed esclusivo l’attacco alle figure politiche del capitale (il cosiddetto attacco al “cuore dello Stato”) e chi riteneva che, nella durata, l’organizzazione rivoluzionaria dovesse articolare le lotte sia sul terreno dell’organizzazione del lavoro in fabbrica sia su quello della lotta politica nel sociale. Si trattava, dunque, per Dominio e sabotaggio, di proporre la lotta contro i poteri dello Stato, riconoscendo però come strategico il terreno della lotta contro il capitale fisso, e cioè il terreno specifico del sabotaggio (quando per “sabotaggio” s’intendesse, come detto prima, l’azione sovversiva sul rapporto fra capitale fisso e capitale variabile, fra capitalisti e classe operaia, in fabbrica e nella società). Come si vede, il dibattito toccava punti determinanti nella lotta di classe che allora si conduceva. Nel convegno di Bologna non si affermò alcuno dei due punti di vista, ma la componente autonoma, assolutamente maggioritaria nel movimento, non seppe dare indicazioni precise in una fase caratterizzata da una repressione feroce del movimento che il governo del “compromesso storico” (DC+PC) conduceva. In tal modo si lasciò spazio allo svolgersi della linea delle “Brigate rosse” che, alzando appunto il tiro contro il “cuore dello Stato”, si assunsero la responsabilità di un’accelerazione rivoluzionaria immatura, decisa contro la maggioranza dei militanti, e della quale fecero pagare il prezzo all’intero movimento. Ci vollero comunque, negli anni ’80, sessantamila arresti, trentamila condanne, migliaia di anni di carcere per fermare il movimento. Ma a mostrare quanto fosse alta e profonda la sua incidenza sociale, bastarono dieci anni perché esso già si ricomponesse all’inizio degli anni ’90 producendo quello che sarà poi il movimento esploso a Genova nel 2001. Un ultimo suggerimento di lettura per quanto riguarda quegli anni: non bisogna lasciarsi affascinare dagli aspetti carnevaleschi di quel periodo. Con queste note, non abbiamo dimenticato quell’esperienza bachtiniana di festa rivoluzionaria che aveva accompagnato il ‘77. Quella espressione festosa nelle lotte sociali degli studenti e degli operai non mancava in nessuno dei gruppi e delle forze che vissero quel periodo di lotte a Milano, a Bologna o a Roma. L’“immaginazione al potere” non determinò però una linea politica, le attraversò tutte. È ingenuo pensare che i compagni che sceglievano la lotta armata fossero cupi e tristi e che coloro invece che non la sceglievano fossero fantasiosi e allegri. Li divideva la scelta che facevano e non lo spirito che aveva attraversato il ’77.
Lungo tutto il pamphlet, si trovano una serie di intuizioni che avevi elaborato nella prima metà dei ’70 e che saranno ulteriormente affinate durante periodo successivo, nei celebri Marx oltre Marx e L’Anomalia selvaggia. Basti pensare alla definizione del marxismo come «logica della separazione», alle nozioni di «forza invenzione» e «autovalorizzazione proletaria» e alla figura dell’«operaio sociale». Cosa ha significato introdurre questi concetti nel dibattito dell’epoca? TN: Si tratta di nozioni che son venute costruendosi durante gli anni ’70 nella lettura e nella discussione politica comunista che si svolgeva nei circoli dell’autonomia operaia. Il riferimento a Marx era ancora centrale in quegli anni, specialmente ai Grundrisse, allora tradotti in italiano. Lo sviluppo di questi concetti appare in piena luce quando si consideri l’insieme dei miei lavori degli anni ’70 ed in particolare gli opuscoli che, come Dominio e sabotaggio, sono compresi nel volume Libri del rogo (Les livres donnés aux flammes). Sono opuscoli che, dopo il 7 aprile ’79 – data della grande repressione –, furono dati alle fiamme dal loro stesso editore. Vergogna! Per tornare ai concetti: essi sono sempre sviluppati – come per esempio “destabilizzazione” dell’ordine politico e “destrutturazione” dell’organizzazione capitalista del lavoro – prima di tutto a contatto della realtà, in quella inchiesta operaia che qualifica il metodo operaista. “Logica della separazione” è termine che si oppone alla risoluzione dialettica hegeliana (Aufhebung) del negativo – anche per gli operaisti, prima delle femministe, fu necessario “sputare su Hegel” per togliere di mezzo quel sentimento di indifferenza e quelle pratiche di mediazione che la dialettica hegeliana sempre produceva nello studio delle relazioni di classe, patriarcali o razziali. “Forza invenzione” è il primo nome dato a quella forma del “lavoro vivo” che successivamente venne chiamato “lavoro immateriale”, “lavoro cognitivo”, ecc. Ben prima che emergessero le teorie del “capitale umano” e del “cognitariato” venne affinandosi il concetto di “forza invenzione” con riferimento, certo, alla lettura del “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, ma soprattutto attraverso le inchieste e la con-ricerca sul “lavoro tecnico” (in quanto separato da quello operaio). Già nelle ricerche dei primi anni ’60 ed in particolare nel lavoro di Alquati, questo concetto era stato elaborato – ora è ripreso sotto il nome di “forza invenzione”. Basti ricordare che quando si parla di “forza invenzione” non si parla di una capacità lavorativa individualmente qualificata ma di un’espressione tecnica, espressa dall’insieme del gruppo operaio, che passa attraverso l’attività dei lavoratori addetti a certe funzioni. Molto meglio è dire che sempre, anche nel lavoro dell’operaio-massa, passano due istanze: l’una ripetitiva e l’altra inventiva, anche se pesantemente compressa e spinta verso una percezione a valore zero. Dell’“autovalorizzazione proletaria” abbiamo già parlato. Il concetto serve a “dar corpo” alla lotta operaia, al consolidamento della sua consistenza ontologica nel rapporto antagonista con il capitale. La sua formula potrebbe essere così riassunta: “+autovalorizzazione – forza strutturante del capitale” (e ciò nel linguaggio operaio significava direttamente “+ salario – potere al capitale”, “+ welfare – dominio capitalista sulla società”), insomma “+autovalorizzazione – capitale”. Era la legge della lotta di classe, la formula del “rifiuto del lavoro”. Queste formule possono tuttavia, se prese astrattamente (lo fanno spesso gli anarchici quando negano ogni valore alla lotta di classe ed affermano che solo valgono le lotte “destituenti”), essere qualificate come relazioni riformiste, tessute dentro una continuità teorica che prevede un + o un – in maniera bilanciata; ma sono al contrario (in linea con il marxismo rivoluzionario) la chiave non dialettica di una relazione costruttiva, costituente, fra teoria e pratica rivoluzionaria – l’espressione appunto del rifiuto del lavoro. Che non si può concepire se non dentro e contro lo sviluppo del capitale. Mi chiedete anche che cosa significava introdurre questi concetti all’interno del dibattito marxista dell’epoca – la risposta: poco o nulla. Sicuramente nulla per i parrucconi della filologia marxista. Ne fu piuttosto sensibile qualche filosofo che militava – Althusser ad esempio o, più tardi, Braverman e Harvey. Ma anche quando ci conoscessero, se non erano nelle lotte, non potevano comprenderci. I concetti di cui sopra erano infatti anche affetti, pratiche collettive, prodotti della con-ricerca militante.
Tenendo conto delle enormi differenze economiche, politiche e culturali che ci separano da quegli anni, cosa resta attuale, a tuo avviso, del contributo teorico e politico di questo saggio? È possibile riprendere nel presente le riflessioni sulla sperimentazioni di nuovi modelli di organizzazione autonoma? Pensiamo in particolare al rapporto con l’eredità leniniana, e alla proposta implicita di giocare «Lenin oltre Lenin» che emerge in certi paragrafi. TN: Basta intendersi su quel che si denifisce “leninismo”. Io ne conosco una lettura fissata dalla dogmatica sovietica e della Terza Internazionale = leadership del partito, centralizzazione politica assoluta, subordinazione e cinghia di trasmissione al partito dei movimenti sociali (sindacale, femminista, ecc.), teoria dialettica classe/Stato, ecc. ecc. Su questo terreno credo che abbiamo subito, tutti quanti, troppe sconfitte per poterlo rinnovare. Soprattutto penso che la modificata composizione tecnica della classe operaia e della società lavoratrice impedisca materialmente la ripetizione di quel leninismo e ne denunci l’illusione di ogni ripresa. Insomma, l’inchiesta politica ci impedisce di flirtare, anche brevemente, con il “lavoro morto” del processo rivoluzionario (cioè con le forme di organizzazione, anche vittoriose, che si colleghino a vecchie composizioni politiche di classe). Ciò non toglie che anche il nome di Lenin possa oggi essere iscritto nei modi di vita della moltitudine rivoluzionaria, come richiesta di organizzazione. Dubito invece che i riferimenti a Lenin in Dominio e sabotaggio (che personalmente ritengo un testo ancor troppo leninista) possano esser ripresi nell’attuale dibattito sull’organizzazione. Per non far confusione e per non vivere di illusioni, è meglio quindi tener fuori dal dibattito il leninismo ed affidarsi piuttosto (come Marx e Lenin e Mao han sempre fatto) alla ricerca sulla natura e sui diversi comportamenti delle classi in lotta. C’è da far questo e quindi tutto da rifare. Sempre di nuovo, sempre con nuovi strumenti. Quando si parla di organizzazione, i primi operaisti dicevano: analizziamo prima di tutto la composizione organica della classe operaia. Perché (come si dice in Dominio e sabotaggio): “We are all bastards;// And that most venerable man which I/Did call my father, was know not where//When I was stamp’d”. Negli anni ’60-’70, gli autonomi italiani ci andarono vicini a vincere sul terreno dell’invenzione di nuovi modelli di organizzazione. E tuttavia persero la battaglia. Bisogna ricordare sempre che perché una teoria sia valida essa deve imporsi, vincere sul terreno della pratica. Ripetiamoci, dunque: oggi c’è tutto da rifare. Voi giovani avete un terreno completamente aperto da percorrere davanti a voi e da costruire. Un’unica raccomandazione, da un punto di vista marxiano e insieme in una prospettiva operaista: non staccate mai il progetto di destabilizzazione del nemico dalle analisi della destrutturazione del capitale, non sottovalutate mai il grado di autovalorizzazione proletaria neppure quando i processi di valorizzazione capitalista sembrano, con la loro forza, con la loro dimensione, con la loro ombra, oscurare il mondo.
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