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20 APR, 2019

 

5 libri per capire il 25 aprile e la Resistenza

di Raffaele Alberto Ventura

 

Un momento che dovrebbe essere di unità nazionale ma che invece, puntualmente, diventa un derby tra nostalgici e antinostalgici: qualche libro per capire perché ci servono feste “divisive”

 

Anche quest’anno, con poca originalità, si torna al rituale delle polemiche sul 25 aprile, un momento che dovrebbe essere di unità nazionale ma che invece, puntualmente, diventa per assurdo lo spunto per redde rationem tra nostalgici e antinostalgici, memori e immemori, fascisti e antifascisti. E così, mentre sindaci di paesini del nord cercano un po’ di visibilità abolendo le celebrazioni della Resistenza, media e opinione pubblica dibattono dell’antico tema: il 25 aprile è divisivo? Forse sì: ma anche fosse, scrive Raffaele Alberto Ventura, continuiamo a festeggiarlo perché per unire bisogna anche dividere.

 

Gruppo MessaggerieGiorgio Agamben, Stasis (Bollati Boringhieri)

 

In questa sua agile trattazione sul concetto di guerra civile nella cultura occidentale dai greci a Thomas Hobbes, il filosofo Giorgio Agamben evoca il principio di “amnistia” in uso nelle città greche dopo i periodi di guerra civile, secondo cui le parti in causa si impegnano a “non ricordare in alcun modo i fatti passati”. Il termine impiegato in greco per indicare il fatto di non ricordare è rivelatore: secondo il filosofo, mè mnesikakein non significa soltanto “non portare risentimento” ma precisamente “non fare del male con la memoria”. Questo stesso principio, possiamo aggiungere, animava gli editti di pacificazione che misero fine alle guerre di religione del Cinquecento in Francia. In particolare l’Editto di Nantes prescriveva “che la memoria di tutte le cose accadute da una parte e dall’altra, dall’inizio del mese di marzo 1585 fino al nostro avvento al trono, rimanga spenta e assopita come di cosa non avvenuta. Vietiamo a tutti i nostri sudditi, di qualunque ceto e qualità siano, di rinnovarne la memoria”.

 

Sorge dunque in noi la domanda, che solo indirettamente c’entra con la riflessione del filosofo: è dunque questa la regola che dovremmo applicare anche al 25 aprile, anniversario della Liberazione, considerato dagli eredi del fascismo come un simbolo divisivo? Il dibattito ritorna periodicamente da almeno una ventina di anni, ma ogni anno in maniera più potente, simbolo a sua volta dello sdoganamento della destra iniziato con il primo governo Berlusconi nel 1994. In realtà la risposta a questa domanda richiede soprattutto una riflessione su cosa fu quella guerra e su quali miti e valori sia fondata la repubblica italiana.

 

Gruppo MessaggerieJon Elster, Chiudere i conti (il Mulino)

 

Bisogna in qualche modo chiudere i conti con la violenza del passato. Ogni epoca, ogni paese hanno provato a farlo in modo diverso. Talvolta ha funzionato, altre volte una chiusura imperfetta ha lasciato aperto degli spiragli da cui la violenza si è reintrodotta nella storia. In Italia la transizione è stata molto più rapida che nella maggior parte degli altri paesi, con una breve fase di giustizia selvaggia di matrice partigiana e un’amnistia sbrigativa promulgata (e presto ripudiata) dall’allora ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti. Questo libro del norvegese Jon Elster, sociologo analitico di grande rigore, mette in fila decine di esperienze storiche più o meno note per mostrare la diversità degli approcci e la complessità delle sfide. E ci ricorda soprattutto quali sono i principi cardine di ogni giustizia di transizione: appurare i fatti, punire i colpevoli, risarcire le vittime, creare le basi per un futuro pacificato. Nessuno di questi principi è realizzabile se non in una sofferta relazione con gli altri. E spesso quello che garantisce una conciliazione facile e a buon mercato non è quello che serve davvero a tenere assieme una società.

 

Gruppo MessaggerieEnzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea (1914-1945) (il Mulino)

 

Quando sul finire degli anni Ottanta lo storico tedesco Ernest Nolte inizio a spiegare la seconda guerra mondiale attraverso il concetto (non nuovo) di “guerra civile europea”, venne presto sospettato di voler minimizzare mettendo sullo stesso piano fascisti e antifascisti, in una ideale replica storiografica del celebre refrain “rossi e neri tutti uguali” che mandava su tutte le furie Nanni Moretti in Ecce Bombo. Qui lo storico Enzo Traverso provava a prendere sul serio questo concetto, sì insidioso ma anche fertile: perché quello che la storia sanguinosa del Novecento ci ha mostrato è l’intreccio tra politica interna e politica estera, tra guerra civile e guerra totale, tra battaglie ideologiche e scontri militari, tra identità regionali, etniche, religiose, politiche. Un perenne sconfinamento dai vecchi concetti di sovranità e di nazione, che lascia alla lotta tra fascismo e antifascismo il compito di disegnare la decisiva linea di frattura capace di definire un’identità europea. In questo senso se il 25 aprile è un simbolo divisivo lo è precisamente perché soltanto operando questa divisione, per quanto violenta, è stato possibile fornire all’Italia e poi all’Europa una religione civile su cui ricostruire l’ordine sociale.

 

Gruppo MessaggerieFrancesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri)

 

L’idea che si possa in qualche modo liberarsi dell’antifascismo come religione civile — ma allora per sostituirlo con cosa, con la memoria dell’impero romano? Ops — passa necessariamente dalla minimizzazione delle sue colpe. Che in vent’anni di regime Mussolini abbia fatto anche cose buone non esitiamo a crederlo, non foss’altro che per la legge dei grandi numeri. Il problema semmai è che ne ha fatte un sacco di poco buone, e che molti dei meriti che gli vengono attribuiti sono leggende metropolitane. In questo agile libretto, utile se avete un date su Tinder con un nostalgico del duce e volete tenervi pronti a ribattere con precisione a ogni suo argomento, Francesco Filippi smonta molti luoghi comuni: no, Mussolini non ci ha dato le pensioni, non ha sconfitto la mafia, non è stato un grande condottiero, non era femminista, e persino la grandiosa politica di bonifica delle zone paludose fu molto limitata rispetto alle promesse. Qui vale ancora una vecchia battuta di Roberto Benigni: “Dire a Mussolini che ha fatto delle cose buone è come se un idraulico venisse in casa nostra e ci facesse un impianto perfetto, ma nel frattempo: ci sventra un cane, ci uccide la madre… e noi giustamente ci incazziamo, ma lui ci risponde che ha fatto delle cose buone“.

 

Gruppo MessaggerieClaudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri)

 

Se l’Italia ha finito entrambe le due guerre mondiali cambiando parte dall’inizio alla fine, evidentemente è perché ogni volta il conflitto all’esterno nascondeva una guerra al suo interno, che la finzione dell’unità nazionale riusciva con difficoltà a contenere. Anche Claudio Pavone, partigiano e storico, ha parlato di “guerra civile” in questa monumentale narrazione-riflessione su quello che la Resistenza fu e su quello che ha rappresentato, grazie anche al ricorso polifonico alle voci e alle testimonianze del periodo, fonti basse contro fonti alte. In questo modo “sottrae alla pubblicistica fascista e parafascista l’uso strumentale, e nelle intenzioni provocatorio, di una constatazione di fatto”.

Pavone non lo fa certo per mettere tutto sullo stesso piano, ma anzi per riconoscere che la guerra contemporaneamente patriottica, ideologica e di classe, iniziata l’8 settembre 1943 con lo sbando delle truppe in seguito all’Armistizio e culminata nella data-simbolo del 25 aprile 1945, “la posta in gioco era dunque il senso stesso dell’Italia e della sua identità nazionale”. Un secondo Risorgimento che ha parzialmente corretto i fallimenti del primo, oltre che un modo di assolvere parzialmente le colpe degli italiani all’indomani di una guerra terribile, dando loro una nuova narrazione sulla quale ricostruire. Una pietra acconciata per servire da chiave di volta all’edificio della società post-fascista, ma inevitabilmente anche una pietra d’inciampo sulla quale, di anno in anno, ci s’imbatte rischiando d’incespicare.