https://www.doppiozero.com/ 01 Marzo 2019
Elsa Morante e «L’anno della Storia» di Niccolò Scaffai
Tra i libri importanti usciti negli ultimi mesi, quello di Angela Borghesi, L’anno della «Storia». 1974-1975. Il dibattito politico e culturale sul romanzo di Elsa Morante (Quodlibet 2018) risalta per impegno e ampiezza (con le sue 900 pagine, il volume è di particolare imponenza e suscita, già per questo, curiosità e attenzione). Il libro crea un doppio effetto: di prossimità e insieme di distanza rispetto alle voci di critici, giornalisti e lettori che si pronunciarono, spesso con toni radicali, nei confronti del romanzo di Morante.
Da cosa dipende la prima impressione, quella di prossimità? Prima di tutto da un sospetto, da un’ipotesi di continuità e durata. Leggendo il libro di Borghesi, infatti, viene da pensare che sia cominciato tutto da lì, da La Storia, capolavoro letterario e insieme best-seller popolare che Einaudi pubblicò nel giugno del 1974 direttamente in edizione economica, vendendone in un anno un milione di copie. È proprio di fronte a quel romanzo che la critica italiana sperimentò, forse per la prima volta, contraddizioni e problemi che ancora oggi ne mettono in gioco il ruolo, nel bene e nel male. Ma, al di là di effetti e ipotesi, è certo che La Storia indusse la cultura italiana a porsi domande cruciali, che non hanno trovato però né allora né oggi risposte sicure: quanto conta il giudizio dei critici di professione rispetto a quello dei lettori comuni? Chi sono gli uni e gli altri e a quali valori (politici, morali, stilistici) si adeguano o reagiscono? Su quali elementi si fonda l’autorevolezza del critico e che cosa distingue, o distingueva, questa dote dall’esercizio di un’egemonia? Il successo va compreso o messo sotto processo (e, nel caso, la sentenza sarà di condanna o assoluzione)? Sono più o meno le stesse domande che ci poniamo nei confronti dei best-seller italiani più recenti; è quasi inevitabile, per esempio, mettere a confronto il dibattito su La Storia con il ‘caso Ferrante’ (anche se il paragone è anacronistico e improprio, se non altro per la mediazione internazionale che ha contribuito alla fortuna dell’Amica geniale). D’altra parte, rilette oggi, molte delle recensioni che il libro di Morante ricevette appaiono sbagliate o ingenue, in ogni caso datate e lontane. È l’effetto che fanno soprattutto i giudizi liquidatori: anche su questo c’è da riflettere, ora che s’invoca – anche con buoni argomenti – la necessità di un ritorno alla stroncatura. In generale è proprio l’impegno nella polemica a restituire l’immagine di un mondo letterario e di una cultura di cui poco rimane nel presente. Ad esempio, i critici marxisti, con poche eccezioni, espressero giudizi negativi nei confronti di un’opera eterodossa rispetto alle loro categorie; verrebbe quasi da rimpiangere quella stagione di certezze, se non pensassimo che la critica, quando è davvero tale, rifiuta l’ortodossia e non cerca il valore fuori dal testo, cioè al di là del modo in cui un’opera mette in forma i propri significati. Ciò che invece certamente non si rimpiange, anche perché il mondo delle lettere e il giornalismo ‘culturale’ ne risentono ancora, è la misoginia, che emerge nelle ‘recensioni’-caricatura: invece di parlare del libro, ad esempio, vari interventi si concentrano sulle questioni private, sui legami sentimentali, insomma sul pettegolezzo.
È anche per queste ragioni che L’anno della «Storia» andrebbe letto fino in fondo come una specie di profilo di storia della critica italiana, scritto però non con l’asettica oggettività del manuale, ma con l’energia della militanza. Borghesi, infatti, non assume una postura pacificata e porta alla luce le contraddizioni tra il partito preso di alcuni critici e il loro concreto agire nel campo letterario, dagli anni Settanta fino ad oggi. Del resto, l’autrice del saggio non nasconde la propria parzialità: le qualità della Storia non sono messe mai in questione e la distinzione assiologica tra ‘bene’ e ‘male’ in senso critico, cioè tra gli apprezzamenti e le stroncature, è netta. È un limite? No, è piuttosto una scelta, del tutto condivisibile data l’importanza di Morante e della sua opera, che fa dell’Anno della «Storia» un esempio raro di militanza documentata, o di storiografia polemica. Il lavoro di Borghesi non ha infatti solo un rilievo critico-ermeneutico ma anche storico-filologico, basandosi su una ricerca capillare che ha portato al reperimento di oltre 300 articoli di varia natura, qualità e ampiezza, scritti e pubblicati intorno alla Storia tra il giugno 1974 e l’agosto 1975. Nel libro se ne possono leggere circa 200, in un’antologia che sfiora le 500 pagine; la rassegna è preceduta da una cronaca di altre 300 pagine, in cui la studiosa analizza i lemmi della vastissima bibliografia di cui dà conto, mettendo in evidenza, mese dopo mese, il ruolo assunto nel dibattito da figure eminenti come Pasolini, Garboli, Rossanda, Fortini e molti altri.
Il caso di Fortini è tra i più singolari. «Il critico e saggista» scrive Borghesi «tra i maggiori e i più seguiti del paese, non prese posizione nella disputa sul romanzo più durevole, pervasiva e animosa che l’Italia del dopoguerra aveva avuto». Le ragioni del silenzio sono indagate e motivate con argomenti convincenti, sui quali si pone un sigillo inatteso: il manoscritto di una lezione o conferenza fortiniana, dal titolo «La Storia» di Elsa Morante, rinvenuto da Luca Baranelli tra le proprie carte famigliari. Nel testo, si riconosce al romanzo un «peso intrinseco» e alla sua autrice un’«autentica vocazione narrativa», ma si decreta che «una letteratura social popolare, o meglio nazionale, non può essere affidata al progetto del singolo, ma sola può scaturire da una vasta e organica concertazione politica il cui sbocco sia la rivoluzione». I giudizi sul libro di Morante mettono a repentaglio amicizie, come quella tra Bassani e Soldati, e manifestano dolorosi complessi e ambivalenze, come nel caso di Pasolini. La sua aggressività nei confronti di Morante, come ha osservato Walter Siti (citato da Borghesi), «è in parte autopunitiva: Pasolini indica in lei il “manierismo” che i critici avevano costantemente rinfacciato a lui. Punisce in lei i peccati che lui stesso ha commesso».
E mentre dalle pagine di «Linus» Oreste del Buono, entusiasta del romanzo, promuove una «recensione collettiva» cui parteciperà anche un giovanissimo Gianfranco Bettin, nel «manifesto» Nanni Balestrini, Letizia Paolozzi, Elisabetta Rasy e Umberto Silva scrivono del libro usando toni e paragoni da cui lo stesso direttore del quotidiano, Luigi Pintor, si dissocia definendo l’intervento «una mascalzonata, o un segno di fascismo intellettuale». Al fuoco della controversia, risalta un altro vizio della critica di ieri e di oggi, quello cioè di non esercitare le energie analitiche ed eventualmente polemiche direttamente sull’oggetto (fino al paradosso di quei recensori che dichiarano di non aver letto il libro di cui parlano), ma sui giudizi e le posizioni degli altri lettori. La critica come risentimento, regolamento di conti o lezione ai colleghi impreparati. Nell’anno della Storia, sono molti i contendenti che prendono la parola contro la ‘recensione zero’, cioè contro l’«elzeviro» elogiativo scritto a caldo da Natalia Ginzburg e pubblicato nel «Corriere della Sera» il 30 giugno del 1974. Negli stessi giorni, erano usciti altri articoli positivi: quello di Pampaloni nel «Giornale nuovo» e quelli di Bo e Garboli sempre nel «Corriere», il 29 giugno. Ma è soprattutto il pezzo di Natalia Ginzburg che viene spesso richiamato polemicamente, soprattutto per via dell’impegnativo confronto che propone. «La sensazione che ho avuto dopo averlo finito è stata questa» scrive infatti Ginzburg «che La Storia rappresentava una svolta nella mia vita, e che rappresentava un fatto di incalcolabile importanza per tutti, avendo a lungo pianto mentre lo leggevo, mi sono a un tratto chiesta da quanto tempo non piangevo così su un libro, e mi sono ricordata di aver pianto negli anni remoti della mia adolescenza, sui romanzi di Dostoevskij, e forse mai più dopo. Ho anche pensato che non riuscivo a vedere nessuna differenza apprezzabile fra La Storia e I fratelli Karamazov. Penso che questa frase molti la giudicheranno incauta, e forse blasfema. Siamo abituati a pensare che Dostoevskij è irraggiungibile. Però anche le cose irraggiungibili qualche volta vengono raggiunte». Morante si troverà a dover scontare quasi subito quel confronto con Dostoevskij, di cui non era responsabile, a cominciare dalla recensione di Giuseppe Galasso apparsa nella «Stampa» del 5 luglio, che riprende e critica il parallelo. Ma Galasso è un maestro di stile al confronto di Giuseppe Marchetti, che nella «Gazzetta di Parma» del 25 luglio scrive: «Con la sua ben nota falsa ingenuità, Natalia Ginzburg ha già definito “bello” il romanzo La Storia di Elsa Morante che Einaudi pubblica con grande corteggio di echi pubblicitari e subito in edizione economica. Il libro cade in un momento favorevole alle donne scrittrici: Clotilde Marghieri ha appena conseguito il premio Viareggio per la narrativa con il suo splendido libro». Un caso flagrante di pessima critica e imbarazzante sessismo.
Di ben altro tenore, i rilievi di Cesare Cases. Nel suo ampio e meditato intervento, tenuto al Congresso di sociologia della letteratura a Gaeta nell’ottobre del ’74 e pubblicato nei «Quaderni piacentini» nel mese di dicembre, Cases ricorda che per interpretare il romanzo conviene metterlo a confronto prima con le altre opere dell’autrice: «La prima ingiustizia commessa dalla critica verso la Morante è di averle negato il confronto con se stessa. Stando ai critici, una giuria, se La Storia avesse bisogno di premi, potrebbe tranquillamente attribuirle un premio «Opera prima». Tolstoj? Dostoevskij? Liala? Tutto è possibile, ma il critico deve anzitutto far riferimento al resto dell’opera, non a parametri esterni.» Di settimana in settimana, la polemica si fa più aspra e incalzante. Per Enzo Siciliano, il romanzo è «divaricato, spaccato da un contrasto che si salda in modo fittizio, e talvolta pretestuoso» («Il Mondo», 11 luglio); per Angelo Guglielmi il successo depone di per sé a sfavore dell’opera («Paese sera», 2 agosto); per Walter Pedullà, nel primo dei tre interventi che dedica al romanzo, La Storia è «una pianta che può danneggiare culturalmente la nostra letteratura» («Avanti!», 17 agosto). Mentre Rina Gagliardi, sempre sulle pagine del «manifesto» (19 luglio) giudica La Storia «un romanzo eccezionale», Franco Rella, nello stesso quotidiano, attacca Gagliardi (e di riflesso La Storia, che in sé gli interessa poco) per «l’impiego di una serie di categorie critiche scolastiche, a dir poco usurate e imprecise».
Sono più ponderate le riserve che emergono in particolare negli scritti di Ferdinando Camon («Il Giorno», 17 agosto) e Luigi Baldacci («Epoca», 20 luglio). Il primo, alludendo ancora al parallelo Dostoevskij-Morante, critica il romanzo «proprio sotto l’aspetto con il quale ci si presenta, di interpretazione della storia e chiarificazione, per mezzo di esempi, degli anni dal ’41 al ’47». Non sono convinto che fossero precisamente questi gli intenti di Elsa Morante (cioè l’interpretazione e la chiarificazione di un periodo delimitato, anche se di tragicamente cruciale), ma Camon richiama giustamente l’attenzione sul rischio implicato da una narrazione che rilegge la Storia in chiave esemplare, cioè la semplificazione di elementi specifici e condizioni peculiari come quelle che hanno provocato la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Morante, osserva Camon, avrebbe fatto «dell’ebreo Davide Segre […] non più un ebreo ma una tipica vittima della storia nel particolare momento del nazifascismo». Dal canto suo, Baldacci, dopo aver definito La Storia un romanzo ‘pascoliano’, si chiede se «sia lecito oggi riprendere quella grande esperienza di natura, così isolata nella nostra tradizione, così antistorica e antiletteraria?». È un passo che Borghesi mette in rilievo nel saggio introduttivo e la cui portata va anche oltre il caso Morante; nella domanda di Baldacci, infatti, è implicito un pregiudizio ancora vivo nella cultura italiana, che oppone la natura alla storia e alla politica, come se la presenza dell’una escludesse la consapevolezza delle altre: gli scrittori del Novecento (da Calvino a Levi, da Morante a Ortese) hanno mostrato, ciascuno dal proprio punto di vista, che non è così.
Verso la fine dell’anno, i toni cominciano a farsi meno accesi, ma la sostanza polemica resta al centro del dibattito, cui partecipano anche i critici universitari coinvolti da Angelo Pupino in un’inchiesta pubblicata da «La Fiera Letteraria». Pupino, che all’autrice aveva dedicato una monografia qualche anno prima (Strutture e stile nella narrativa della Morante, 1968), pone cinque domande su La Storia ad Alberto Asor Rosa, Renato Barilli, Gaetano Mariani, Giorgio Petrocchi, Carlo Salinari, Giacinto Spagnoletti e Ferruccio Ulivi. L’ultima di queste riguarda la mancata inclusione delle opere di Morante nell’antologia della Letteratura dell’Italia unita curata da Gianfranco Contini: «Supponendo che in una futura edizione […] Contini confermi, anche dopo La Storia, l’esclusione della Morante, cosa avrebbe da dire in proposito?». Pur nella diversità di giudizio sul romanzo, gli intervistati su questo punto concordano: l’ultimo libro non farà cambiare idea a Contini, che aveva già trascurato un’opera stilisticamente più connotata, e perciò a lui in teoria più congeniale, come Menzogna e sortilegio.
Il riferimento alla Letteratura dell’Italia unita coinvolge la questione del canone, che evidentemente si pone già a pochi mesi dall’uscita del libro, a ulteriore conferma dell’impatto della Storia nella cultura italiana di quegli anni. Ciononostante, ricorda Borghesi, si «è dovuta superare la soglia del nuovo millennio perché nei manuali più diffusi e nelle maggiori antologie scolastiche la trattazione di Elsa Morante cominciasse a veder crescere il risicato numero di pagine a lei dedicato fino a ieri l’altro dai più prestigiosi critici accademici. […] Gli studi sull’opera morantiana stanno vivendo un’altra primavera. E la nuova narrativa mostra di non avere paura del patetico». Se è così, la critica dovrà affinare gli strumenti per trattare con il patetico o il melodrammatico, per capirne e indicarne il miglior uso che uno scrittore possa farne. Anche per questo ci sarà ancora bisogno di fare i conti con La Storia.
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