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6 dicembre 2019

 

Come mai non vedi più i tuoi amici?

di Judith Shulevitz

 

Le ore in cui lavoriamo, riposiamo e socializziamo stanno diventando sempre più disincronizzate. Alcuni esempi storici fallimentari di ingegneria sociale ci raccontano anche il futuro

 

Appena UN SECOLO FA l’Unione Sovietica si imbarcò in uno dei più strani tentativi di rimodellare il calendario delle persone in un modo in cui nessuno aveva mai provato prima. Mentre Iosif Stalin cercava di trasformare una nazione agricola arretrata in una nazione industrializzata, il suo governo ridimensionò la settimana e la portò da sette a cinque giorni. Sabato e domenica furono aboliti.  Al posto del fine settimana, nel 1929 fu introdotto un nuovo sistema di riposo. Il governo divise i lavoratori in cinque gruppi e assegnò a ciascun gruppo un giorno libero diverso. In un dato giorno, quattro quinti del proletariato si presentava in fabbrica per lavorare, mentre l’altro quinto riposava. Ogni lavoratore aveva una tessera di colore differente – gialla, arancione, rossa, viola o verde – che indicava i giorni in cui riposava il suo gruppo. Il programma scaglionato si chiamava nepreryvka, o “settimana lavorativa continua”, perché la produzione non si doveva fermare mai.

 

Per la società sovietica, la nepreryvka fu un disastro. Le persone non avevano più il tempo di incontrare gli amici, però si associavano per colore: i viola si vedevano con i viola, gli arancione con gli arancione e così via. I capi avrebbero dovuto assegnare a mariti e mogli lo stesso colore, ma raramente lo facevano. Il Partito Comunista diceva che queste turnazioni potevano provocare un qualche fastidio, ma questo non era un errore del nuovo sistema. Il Partito voleva distruggere quell’istituzione borghese che era la famiglia. “La vedova di Lenin, da buona marxista, considerava le riunioni domenicali della famiglia un motivo sufficiente per abolire quel giorno”, come dice E. G. Richards nel suo libro “Mapping Time, a history of the calendar” (1999).

 

Comunque i lavoratori non ce la facevano più, uno si lamentò apertamente sulla Pravda: “Che devo fare solo a casa se mia moglie è in fabbrica, se i bambini sono a scuola e se nessuno può venire a trovarmi? Che altro posso fare se non andarmene alla sala da tè pubblica? Che tipo di vita è questa – se per i giorni di riposo si fanno i turni e se non andiamo tutti insieme a lavorare? Se si deve riposare da soli, non è riposo. ”

 

La settimana lavorativa scaglionata non durò a lungo perché i funzionari del partito si preoccuparono perché incideva sulla partecipazione alle riunioni dei lavoratori, considerate essenziali per un’educazione marxista. Nel 1931, Stalin dichiarò che la nepreryvka era stata implementata “troppo in fretta”, provocando un “processo di lavoro spersonalizzato” e alcuni blocchi delle macchine per il sovraccarico di lavoro. Quell’anno il governo aggiunse un giorno di riposo in più alle ferie, ma la settimana di sette giorni non fu ripristinata fino al 1940.

 

Esperimenti come questo hanno portato una cattiva fama ai social engineering. Però in America si sta imponendo una specie di nepreryvka, non perché un tiranno comunista crede che questa sia una buona idea, ma perché questo richiede l’economia di oggi. Le ore in cui lavoriamo, riposiamo e socializziamo stanno diventando sempre più disincronizzate.

 

Mentre una volta condividevamo gli stessi ritmi – cinque giorni di lavoro e due giorni liberi + festività federali + Thank-God-it’s-Fridays ecc. – ora le nostre settimane sono plasmate dai dettami imprevedibili del datore di lavoro. Quasi un quinto degli americani svolge lavori con orari non standard o variabili. Possono essere stagionali, possono lavorare con i turni a rotazione o secondo le esigenze della Uber o delle consegne di Postmates. Nel frattempo, quelli che guadagnano meglio, che sono nella parte alta della scala retributiva, lavorano per ore infinite. Mettiamo insieme chi lavora saltuariamente durante la settimana e chi lavora fino a quando serve, ecco che arriviamo a un un buon terzo della forza lavoro americana.

 

La personalizzazione del tempo può sembrare una cosa minore e in effetti qualcuno considera una bella cosa poter disporre del proprio tempo “libero” per provare a realizzarsi, ma le conseguenze potrebbero essere debilitanti per gli Stati Uniti come lo furono per l’URSS. Un calendario conta più dell’organizzazione dei giorni e dei mesi. È un progetto di vita condivisa.

 

Vi ricordate la vecchia routine del 9 x 5? Quando si lavorava nove ore per cinque giorni la settimana? Se avete 30 meno di trentanni, forse non ve lo ricordate. Forse avete visto però qualche vecchio telefilm, dove il protagonista tornava a casa ogni sera alla stessa ora. Oggi pochi di noi hanno giornate lavorative con la stessa regolarità. Nella parte più basa del mercato del lavoro, essere sempre pronti a lavorare è diventato praticamente un prerequisito per poter lavorare. Un sondaggio del 2018 nel lavoro nel commercio al dettaglio, lo “Stable Scheduling Study”, ha rilevato che l’80% dei lavoratori americani pagati a ore ha orari fluttuanti. Adesso molti datori di lavoro programmano le ore di lavoro con un algoritmo che calcola esattamente quante paia di mani sono necessarie in una certa fascia oraria, un processo noto come pianificazione a richiesta. Gli algoritmi sono progettati per contenere i costi della manodopera, privando però i lavoratori di lavorare con orari prestabiliti.

 

L’impossibilità di pianificare, con almeno una settimana di anticipo, il proprio futuro ha un impatto pesante. Per scrivere il suo ultimo libro – On  the Clock – la giornalista Emily Guendelsberger ha lavorato in un magazzino di Amazon, in un call center e in un ristorante McDonald. Tutte e tre le società le hanno richiesto flessibilità di pianificazione alle loro condizioni. Il più diretto nei termini è stato Amazon, che in un modulo di domanda online, ha indicato esplicitamente: “Potrebbero essere necessario lavorare di sera, nei fine settimana e durante le festività … Spesso sono richiesti straordinari (a volte con un brevissimo preavviso) … Gli orari di lavoro sono soggetti a modifiche senza preavviso.”

 

Un collega che lavorava alla Amazon ha detto alla Guendelsberger che non vedeva  suo marito quasi mai, perché lui lavorava la notte come custode di una scuola e tornava a casa a dormire un’ora prima che lei si svegliasse per andare al lavoro. “Ci vediamo la domenica se non faccio lo straordinario obbligatorio, e qualche volta il lunedì mattina – se non devo lavorare lunedì mattina –  questo è praticamente tutto” le ha detto.

 

All’altro polo della forza lavoro ci sono quelli che guadagnano molto, per i quali la giornata lavorativa e la settimana lavorativa sono un po’ più prevedibili. Ma le giornate e le settimane per loro sono diventate molto più lunghe. Per scrivere il suo libro del 2012 – Sleeping With Your Smartphone – Leslie Perlow, professoressa della Harvard Business School ha condotto un sondaggio su 1.600 manager e professionisti. Il 92% ha detto di lavorare almeno 50 ore a settimana e un terzo di lavorare 65 ore o più. E, aggiunge, “Questo non include le venti o venticinque ore settimanali che la maggior parte di loro passa a controllare il proprio lavoro, mentre in realtà non sarebbe in servizio”. Nel suo libro del 2016 –Finding Time: The Economics of Work-Life Conflict – l’economista Heather Boushey ha descritto questa situazione in modo duro: “I professionisti passano la maggior parte delle ore libere pensando al lavoro e alla carriera”.

 

Quando tante persone hanno orari di lavoro così lunghi o inaffidabili, o peggio, hanno orari di lavoro lunghi e inaffidabili, gli effetti arrivano lontano e sono le famiglie che ne pagano il prezzo più alto. Gli orari irregolari possono allontanare i genitori, di solito le madri, dalla forza lavoro. Un corpus di ricerche ha constatato che i bambini i cui genitori lavorano per orari lunghi e strani hanno maggiori probabilità di avere problemi comportamentali o cognitivi o sono obesi, ma anche i genitori che possono permettersi baby sitter o asili nido privati hanno difficoltà a seguire con premura i figli, quando il lavoro li tiene bloccati alla scrivania ben oltre l’ora di cena.

 

Per sfruttare al meglio il poco tempo che passano in casa, alcuni genitori fanno uso dello stesso software aziendale che organizza la vita in ufficio: Trello per le faccende di casa, per le cose da fare e per i compiti; Slack per parlare con i bambini o addirittura per chiamarli a cena. Chiunque sta crescendo un adolescente sa che si dà più fastidio con l’elettronica che di persona.

 

Ma è difficile anche mantenere una vita sociale se non si può contare su orari affidabili. Io e i miei amici adesso usiamo programmi di programmazione come Doodle per organizzare le nostre cene tra amici. Accettare di partecipare a un evento lontano nel tempo – un matrimonio, una anniversario – può essere fonte di ansia se non si sa quale sarà il turno  della prossima settimana, figuriamoci quello del mese prossimo. Il 40% dei turnisti non conosce i propri impegni sette giorni prima e il 28% li conosce solo negli ultimi tre giorni.

 

Quello che rende questi turni di lavoro irregolari più simili al nepreryvka, comunque, è che dividono non solo a livello micro, cioè nell’ambito famigliare e degli amici, ma anche a livello macro, come un sistema politico. Ore di lavoro sfalsate e più lunghe probabilmente riescono a rendono la nazione materialmente più ricca – gli economisti discutono su questo punto – ma certamente tolgono quello che il defunto giudice della Corte suprema Felix Frankfurter definì un “asset culturale importante: un clima di riposo per tutta la comunità”.

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So che questo modo di pensare mi colloca nel tempo, ma io ho nostalgia di quell’atmosfera dei giorni di fest: le cene con tutta la famiglia, una passeggiata se il tempo è buono, una visita dei vicini. E’ chiaro che non abbiamo perso tutto di queste ore passate insieme, infatti certi studi dicono che il tempo libero dei fine settimana permette ancora una socializzazione, una maggior attività civica e il culto religioso, molto più che nei giorni feriali. Ma la domenica non è più un giorno di ozio – di non-commercio e di non-lavoro obbligatorio – ormai tutto è aperto e, anche se non si lavora personalmente nel week-end, il lavoro si intromette anche in quelle ore che un tempo erano sacre. Quello che non si è finito la settimana scorsa torna in mente appena si apre il laptop e ricorda le email urgenti che aspettano risposta nella casella di posta.

 

Un senso di colpa di basso livello accompagna anche quelle ore che non sono dedicate al lavoro.

 

Ma nemmeno i bambini restano immuni, devono prepararsi per iscriversi all’Università facendo attività extra-scolastiche o praticando sport in una società. Una partita di calcio dei figli, per un genitore, dovrebbe imporre l’etica di non lavorare e pensare solo ai figli e non servire per chattare con vicini e amici, però di solito gli adulti controllano il telefonino e si perdono i loro ragazzi che giocano.

 

Ci sarà una speranza per recuperare un po’ di tempo libero insieme? In “Sleeping With Your Smartphone“ la Perlow spiega la soluzione che ha trovato ai colletti bianchi al Boston Consulting Group. Ha chiamato la sua strategia “PTO“(tempo libero prevedibile). Non sembrava essere un grosso problema. Un gruppo si riunisce per organizzare una serata libera a settimana per ogni membro del gruppo. Uno alla volta – ci si aspettava che ci fosse sempre qualcuno di guardia a tutte le ore – uno diverso per ogni serata.

 

La PTO si è rivelata sorprendentemente complicata. Gli orari dovevano essere cambiati di continuo per garantire che tutte le sere fossero coperte. Non è piaciuto a tutti il nuovo sistema. “Bob“, per esempio, non voleva sacrificare una serata perché viaggiava e  avrebbe preferito passare quel tempo con la sua famiglia.

 

Comunque la Perlow e la Boston Consulting Group hanno considerato la PTO un successo e da allora è stata adottata anche altrove. E’ un sistema che analizza il perché e la risposta che dà conferma che c’è un problema ma non dà una soluzione.  Però la PTO ha permesso alle persone di incontrarsi di più, di parlarsi francamente e di spiegare perché una certa notte non va bene per qualcuno, così hanno legato, insomma è diventata un mezzo di aggregazione, non un sistema per fare in modo che uno alla volta fossero tutti più felici e ben organizzati.

 

Il movimento di “opt out” arriva al problema da una diversa angolazione. I suoi sostenitori chiedono di rifiutare il culto del busyness – della frenesia per gli affari – in parte rifiutando l’idea che, come scrive Jenny Odell in “How to Do Nothing”, ogni nostro minuto dovrebbe essere “catturato, ottimizzato o usato, come risorsa finanziaria, dalla tecnologia che usiamo quotidianamente”. Ma una cosa è cancellare Instagram dal telefonino per essere più presente con moglie e figli e altro è decidere unilateralmente che le email del capo possono aspettare fino a domani mattina.

 

E per chi si trova sugli scalini più bassi dell’economia, non si può ignorare un algoritmo di pianificazione, almeno finché è l’algoritmo che regna. Nel suo libro del 2014 “The Good Jobs Strategy”, Zeynep Ton , professoressa di business al MIT sostiene che la pianificazione-on-demand potrebbe avere più costi che benefici: le aziende, in particolare quelle che dipendono dal servizio clienti, perdono soldi e quote di mercato quando disincronizzano la loro forza lavoro e porta come esempio la Home Depot. Quando fu aperta nel 1979, l’azienda fece un investimento sui lavoratori a tempo pieno con esperienza nel campo delle migliorie della casa e divenne rapidamente leader di mercato. Ma poi Home Depot cominciò a perdere denaro, soprattutto per inefficienza nelle operazioni e nel 2000, un nuovo CEO rimise in linea la società, riducendo i costi del lavoro e imponendo programmi “flessibili”. La Home Depot iniziò ad assumere più part-time, molti dei quali meno esperti dei full-timer. I clienti però non riuscivano a trovare nessuno che sapesse aiutarli nelle scelte nel negozio e i tempi di lavorazione divennero estremamente lunghi. Nel 2005, la Home Depot era precipitata dietro Kmart, nell’American Customer Satisfaction Index.

 

Gap, IKEA e una molti altri rivenditori hanno cercato di capire come limitare il danno per questi turni sconclusionati e stanno testando correzioni,  come stabilire orari di inizio e di fine lavoro più regolari e presentare i turni con almeno un paio di settimane di preavviso, tra le altre cose.

 

Ma sarebbe ingenuo pensare che politiche di questo genere diventeranno la norma. Wall Street chiede sempre maggiori guadagni trimestrali e spinge il tipo di pensiero a breve termine cosicché i dirigenti fanno tagli sul loro costo maggiore: la manodopera. Se vogliamo cambiare il ritmo del tempo collettivo, dobbiamo agire tutti collettivamente, sforzo che è esso stesso insidiato dalla nepreryvka americana. Durante un caucus di una campagna presidenziale una organizzatrice mi disse di non riuscire a convincere i lavoratori a più basso reddito a prendersi un impegno per partecipare alle riunioni o alle manifestazioni, per non parlare di un caucus che richiede troppo impegno e tempo, perché non hanno modo di sapere, con un certo anticipo, i loro turni di lavoro.

 

Ma cambiare è possibile . A Seattle, New York City e San Francisco, le leggi “predictive scheduling” (dette anche “fair workweek”)  sulla “pianificazione anticipata” (chiamate anche leggi sulla “settimana lavorativa equa”) impongono ai datori di lavoro di dare ai dipendenti un preavviso adeguato sui loro turni futuri e di pagare una penale ai dipendenti se non danno il preavviso previsto.

 

Esiste poi la legislazione sul ““right to disconnect” che impone ai datori di lavoro di negoziare un periodo specifico in cui i lavoratori non devono rispondere né alle e-mail, né ai messaggi. In Francia e in Italia hanno approvato queste leggi. (NdT: non ho verificato questa informazione).

 

È un cliché tra i filosofi della politica ricordare che per creare le condizioni della tirannia, bisogna spezzare i legami delle relazioni intime e delle comunità locali. “I movimenti totalitari sono organizzazioni di massa fatte da individui atomizzati e isolati”, scrisse Hannah Arendt in “Le origini del totalitarismo” e si concentrò sul ruolo che svolse il terrore nel rompere i legami sociali e familiari nella Germania nazista e nell’Unione Sovietica sotto Stalin. Ma non serve una polizia segreta per trasformarci tutti in anime atomizzate e isolate, basta che continuiamo a andare avanti, mentre il capitalismo più sfrenato consuma tutte le riserve temporali che un tempo ci permettevano di coltivare i semi della società civile e di nutrire i germogli tristemente fragili dell’affetto, delle affinità e della solidarietà.