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14 Dicembre 2019

 

La guerra è dichiarata e la battaglia inizia

di Giuliano Santoro

giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto

 

London Calling quarant'anni dopo continua a ispirarci perché è un disco globale, che provincializza l'Europa e porta il rock'n'roll dove non era mai arrivato

 

Secondo la nota definizione di Italo Calvino, un classico si riconosce dal fatto che «non ha mai finito di dire quello che ha da dire». Più precisamente, argomenta Calvino passando in rassegna alcune delle caratteristiche dei classici, ci troviamo di fronte a un classico quando ci accorgiamo che tende a relegare l’attualità a rumore di fondo ma al tempo stesso continua a sprigionare una potenza tale che con quel rumore di fondo non può fare a meno di interagire. London Calling, il terzo disco dei Clash che oggi compie quarant’anni, può definirsi un classico esattamente per questo: si staglia come pietra miliare ma offre continuamente chiavi di lettura, punti di vista, sguardi sul contemporaneo. È un disco che continua a  risuonare nelle nostre esistenze quotidiane. 

È l’inizio dell’estate del 1979, siamo a Londra. Lungo Causton Street, non lontano da Westminster, c’è un terreno adibito a campo da calcio. Ogni giorno si presenta un gruppetto di ventenni a giocare a pallone. Sono i Clash con la loro crew. Joe Strummer, voce e chitarra ritmica, non è dotatissimo tecnicamente ma per compensare corre come un pazzo ed è molto generoso. Mick Jones, chitarra solista e spesso cantante, ha buoni numeri ma tende a strafare quando ha la palla al piede. Il bassista rude boy Paul Simonon è poco attrezzato dal punto di vista tecnico oltre che fallosissimo. Topper Headon, il batterista, è un virtuoso, uno di quelli che fanno la differenza. I quattro giocano assieme ai ragazzi del loro entourage. Ogni giorno, dopo un’ora di sgroppate polverose, ritornano sudatissimi in sala di registrazione al Vanilla Studios, un magazzino di un palazzo che oggi non esiste più, è stato demolito. Stanno lavorando a London Calling, il primo disco di rock’n’roll globale della storia della musica, un album che non si limita a tracciare nessi tra luoghi diversi, linguaggi plurimi e sonorità differenti ma che ricombina i rapporti tra centro e periferia, tra sud e nord. 

 

In quell’estate del 1979 il punk sembra davvero morto. Sono apparsi due album d’esordio che travalicano il genere e battezzano la cosiddetta new wave: Unknown Pleasure dei Joy Division e Y del Pop Group. È uscito Metal Box dei Pil, il gruppo con il quale John Lydon si libera del personaggio marcio di Johnny Rotten che gli aveva cucito addosso Malcom McLaren e decostruisce il rock prima che il punk, chiudendo la parentesi fugace e fondativa dei Sex Pistols di Never Mind the Bollocks. 

 

Anche i Clash, dal canto loro, avevano aperto un varco. Col primo disco omonimo avevano debuttato e stabilito un canone punk diverso da quello dei Pistols, diffondendo consapevolezza e coscienza invece che provocazione e iconoclastia. Da subito il punk aveva mostrato di avere le spalle larghe, di poter comprendere allo stesso tempo il massimo della sobrietà (che sfocerà nello straight edge anni dopo negli Usa) e il consumo di droghe, di poter spaziare dall’astrazione al realismo, di comprendere messa in scena e ricerca della verità. E poi impegno politico e nichilismo, complessità sonora e semplicità disarmante. 

 

Visto da questo punto di vista, il genere sembra impossibile da circoscrivere. Ma bisogna andare al cuore del fenomeno per notare le caratteristiche che accomunano cose tanto diverse: l’attitudine a recuperare lo stile e lo spirito del rock’n’roll e la tendenza ad assorbire, decostruire e risignificare il segno dei tempi, masticare e risputare le parole che circolano in un dato contesto storico per osservare la realtà in maniera completamente diversa. 

 

Questo i Clash avevano fatto, a modo loro, fin da quando si erano incontrati e questo cercano di fare ancora ai Vanilla Studios. La catena di eventi che li aveva messi insieme è stata ricostruita da Pat Gilbert nel suo Death or Glory (qualche anno fa abbiamo messo la sua e altre voci nel progetto di narrazione collettiva clashista Strummer to tell). L’antefatto si svolge in un pub di Portobello Road. Mick Jones e il chitarrista Keith Levene, che poi si unirà ai Pil di Lydon, incontrano Paul Simonon, che avevano testato come cantante. Non era  andata bene, ma Mick era rimasto colpito dalla carica e dalla sensibilità artistica di Paul. Dunque aveva deciso di imbarcarlo ugualmente: «Penso che possa diventare il nostro bassista, anche se non sa ancora suonare». Paul si era messo subito a studiare. Racconterà di aver cominciato inseguendo le note del primo disco dei Ramones, uscito proprio in quella primavera del 1976. Manipolando il bilanciamento dello stereo era possibile escludere il suono delle chitarre o del basso e quindi suonarci sopra.

 

Quel giorno all’Hennekey Pub, i tre dovevano essersi detti qualcosa anche sul tizio che si faceva chiamare Joe Strummer, che il manager Bernie Rhodes aveva visto suonare di spalla ai Pistols coi 101’ers, gruppo che prendeva il nome dal numero civico dello squat in cui abitava. Il caso aveva voluto che si sarebbero imbattuti in lui pochi giorni dopo. Era il 13 maggio e si trovavano in fila all’ufficio di collocamento per ritirare il sussidio di disoccupazione. I quattro, Joe da una parte e Mick, Paul e Keith Levene dall’altra, avevano cominciato a fissarsi e per poco non avevano fatto a botte. Secondo la documentata biografia che gli ha dedicato Chris Salewicz, Joe non era convinto di accettare l’offerta di entrare nel gruppo, aveva consultato il libro dei Ching ricevendone una risposta sibillina: «Stai con i tuoi amici». Doveva aver pensato che i suoi amici erano quei ragazzi coi capelli corti che giravano per Londra stretti nei giubbotti di pelle e uniti come una gang e da lì a poco, nel 1977, era uscito il disco d’esordio.

 

Poi il gruppo era andato negli Stati uniti a registrare il secondo album, che avrebbe preso il titolo di Give’em Enough Rope. Non si può dire che sia un cattivo disco, contiene grandi canzoni e la band dimostra di crescere dal punto di vista musicale e compositivo. Era il passaporto che avrebbe dovuto consentire alla band di conquistare l’America. Joe Strummer e Mick Jones erano andati a completarne la produzione a San Franciso, dal produttore hard-rock Sandy Pearlman. Avevano visto al cinema Animal House di John Landis con John Belushi e ne erano rimasti folgorati. Ma era venuto fuori un suono troppo leccato, pieno di effetti e poco diretto. Quando a Londra arrivò uno scatolone con le prime copie, Paul Simonon e Topper Headon lo portarono al negozio di roba usata. Fu così che il secondo, attesissimo, disco dei Clash venne venduto in anteprima mondiale da  un rigattiere. I Clash avevano amato gli Stati uniti, il posto dove il treno in corsa dei Sex Pistols si era infranto e dove Sid Vicious, volto nichilista dell’ondata punk londinese, era stato trovato cadavere. Proprio a San Francisco era stato coniato il claim che gli sarebbe rimasto appiccicato: «The only band that matters». 

 

Dunque, i Clash tornano a casa ma scoprono che la casa sta per inabissarsi. La constatazione viene da una circostanza reale che solo in un secondo momento diventerà metafora. In quel periodo Joe Strummer abita lungo il Tamigi. Lo osserva e legge i titoli di giornale che lanciano l’allarme esondazione del fiume. Da qui prende le mosse il brano che dà il titolo al disco. London Calling è l’unico album dei Clash il cui titolo viene da una canzone. Il ribaltamento è servito: i Clash rivelano al mondo che il paese dei Beatles e della Regina sta collassando. Siamo in tempi di apocalisse (Armagideon Time, è il titolo della canzone che esce sul lato b del singolo di London Calling) compiono la missione per cui erano nati, quella di provincializzare Londra, la Gran Bretagna e l’Impero.

Mal Peachy, curatore dell’enciclopedico volume sui Clash uscito qualche anno fa, ha scritto giustamente: 

 

La stampa musicale britannica in generale non ha apprezzato il fatto che i Clash stessero diffondendo  la loro sfera di influenza in tutto il mondo. Ma i Clash hanno sempre avuto un progetto globale.

 

 

Rispondendo alle critiche di Mark P., autorevole fondatore di Sniffin’ Glue, la più autorevole fanzine del ’77 inglese, Joe Strummer aveva detto:

Mark P. voleva che ce ne rimanessimo a casa, per fare i nostri dischi, come fanno tutti. Ma noi volevamo esplodere per raggiungere l’America ed essere globali. Qualcuno ha dovuto prendere quel toro per le corna e scuoterlo.

 

I Clash erano internazionalisti, anche ingenuamente terzomondisti, con quel pizzico di romanticismo che in politica va saputo dosare perché può essere letale ma nel rock’n’roll è necessario. La cosa che li ha resi attuali è che andarono istintivamente oltre. Erano davvero globali, e London Calling è il disco manifesto di questa attitudine. Ebbero l’ambizione di ridefinire i rapporti di forza e ridisegnare le geografie. La testimonianza di questa attitudine sta in un poster che la band decise di inserire nel materiale promozionale di Give’em Enough Rope. C’è la mappa del mondo e per ogni continente vi sono segnalati terroristi, gruppi armati, disastri naturali, eserciti di liberazione. L’Atlante dei Clash è confusionario e provocatorio, ma guarda al mondo intero.

 

London Calling si apre con Brand New Cadillac, cover di uno dei primi brani rock’n’roll prodotti in Gran Bretagna. Era uscito almeno vent’anni prima come b-side a firma Vince Taylor, poi si era diffuso quasi col passaparola, interpretato da diversi gruppi minori dagli anni Cinquanta in poi. Nella provincia inglese non ci sono Cadillac Nuove di Zecca, ma non fa nulla, perché Vince Taylor è un rockabilly inglese, riproduce il rock’n’roll degli Stati uniti e rilancia il revival che anni dopo diventerà da quest’altra sponda dell’Atlantico una strana narrazione di una tradizione che in Inghilterra non era mai esistita, rimpianto di un’età aurea immaginaria fatta appunto di motori che rombano, giubbotti di pelle e piste da ballo infuocate. I Clash suonano questo pezzo appena entrati in sala prove e la canzone entra nel disco praticamente così com’è. È la testimonianza di come le sottoculture rock della Gran Bretagna e degli Stati uniti stiano giocando una partita di ping pong che condurrà al punk. Le due metà del campo sono l’ex colonia a stelle e strisce e la madrepatria coronata. La rete che le divide è costituita dall’Oceano. Se riavvolgiamo in rewind il nastro del match, vedremo il volano correre da una parte all’altra: i punk britannici sferrano il colpo rispondendo ai Ramones e ai gruppi garage statunitensi, che a loro volta avevano replicato al rythm’n’blues e al soul bianco di Beatles, Rolling  Stones e Who, i quali avevano raccolto la battuta lanciata dalla musica nera americana degli anni Cinquanta e Sessanta.

 

Al contrario di quello che dicono in I’m so bored with the Usa (canzone che rimaneggiava un pezzo che Mick Jones aveva dedicato a una sua fidanzata e che diceva I’m so bored with You) i Clash amano gli Stati uniti e ne sono ricambiati. Ma il disco che stanno preparando ai Vanilla Studios deve suonare diverso dal precedente. Hanno bisogno di tornare a casa prima di ripartire alla conquista del mondo. Per prima cosa scelgono come produttore Guy Stevens, che li aveva aiutati a mettere insieme alcune registrazioni ai tempi del primo disco. Stevens non è l’ultimo arrivato. È uno scopritore di talenti, ha scovato i Procol Harum e lavorato ai primi album di Mott the Hoople, gruppo proto-punk del quale Mick Jones era fan. A differenza di Pearlman, però, Stevens è un outsider. Beve e prende pastiglie, è considerato inaffidabile. Si dice che le case discografiche lo paghino per stare lontano dagli studi di registrazione. Quando entra nella sala prove dei Clash fa cose strane. In alcune immagini si vedono i quattro suonare e Stevens che sembra una comparsa delle gag di Benny Hill, entra con una scala sotto braccio, la pianta per terra, ci sale su con una sedia pieghevole e comincia a roteare la sedia sopra la band. Altre volte lancia suppellettili contro le pareti o versa del vino dentro il pianoforte sul quale Joe Strummer sta provando gli arrangiamenti. C’è del metodo, nella sua follia. È la sua maniera per creare la giusta tensione attorno al gruppo. Nel 1981 Guy Stevens morirà e i Clash gli dedicheranno una canzone struggente.

 

Un’altra traccia del disco, The Right Profile si cimenta con Montgomery Clift, o meglio con la mitopoiesi del divo di Hollywood a opera di un adolescente inglese. Justin S. Wadlow in un saggio sul rapporto tra Strummer e gli Stati uniti contenuto in un’interessante raccolta di ricerche sulla figura del cantante dei Clash scrive:

In un certo senso, la maggior parte di ciò che Joe Strummer vide negli Stati uniti fu la mitologia, una serie di icone composte da parole di libri, immagini di film e musica di canzoni. Non importa dove Joe Strummer guardasse, le leggende apparivano davanti ai suoi occhi.

 

Questo confronto con gli Stati uniti, con la loro dimensione di frontiera, meticcia, con la loro Costituzione aperta e con la mitologia che tutto questo comporta, è un aspetto decisivo della dimensione globale dei Clash. Tutto ciò viene descritto in Gates of the West, una canzone registrata a New York e inserita nell’Ep The Cost of Living, uscito all’inizio del 1979, in cui Strummer si dice orgoglioso di essere arrivato fino agli States ma rivendica di volerci stare

… con i perdenti mendicanti sonnolenti

quando girano per la notte […]

camminiamo proprio come loro

e non possiamo sfuggire al nostro destino

 

È una tensione che esplode in London Calling e che permea un disco che comincia con le radici del rockabilly, che finisce con il reggae di Revolution Rock e che trova uno snodo decisivo nella dichiarazione militante di Guns of Brixton, unica canzone accreditata a Paul Simonon della discografia clashiana. ma che scorre fin dall’inizio della storia della band. Nella versione statunitense dell’album di debutto, uscita poche settimane prima di London Calling, era comparsa White Man in Hammersmith Palais, che suona come una dichiarazione programmatica forse più della fragorosa White Riot, altro brano in cui si sottolinea la bianchitudine come identità paradossalmente dal punto di vista sociale e della composizione di classe, delle lotte e dello spazio metropolitano. White Man descrive la sensazione di spaesamento di un bianco che va ad ascoltare reggae, anche se poi immagina che quello che servirebbe per cogliere l’unità di fondo sarebbe semplice: «Perché non telefonare a Robin Hood per chiedergli una migliore distribuzione delle ricchezze»?. 

 

Soltanto isponendosi in questa prospettiva che i Clash possono attraversare lo spazio globale senza essere sospettati di cultural appropriation. Come emerge anche in Safe European Home, che racconta con sincerità disarmante il viaggio in Jamaica di Joe Strummer e Mick Jones e il loro essersi sentiti a disagio, spaesati e fragili, appena al di fuori della sicure case europee. 

London Calling è una dichiarazione programmatica, il nome della trasmissione che da ragazzino Strummer ascoltava in onde media da Berlino, dove aveva vissuto per un periodo con la sua famiglia, viene ribaltato. La Londra che Chiama, a dispetto della vulgata, non è la capitale del regno e neppure il cuore del Commonwealth. O meglio, lo è ma la chiamata che arriva dalla metropoli non è un ordine imperiale e neppure un modo per ribadire le gerarchie coloniali. Londra Chiama, sì ma per lanciare un segnale di allarme, per urlare all’apocalisse incombente: il mondo che conosciamo si sta inabissando. Questo dice il testo, mentre Mick Jones affila due riff taglienti e Paul Simonon parte con un giro di basso che, come ha poi rievocato lui stesso, serviva a dire quello di cui abbiamo ancora oggi bisogno: «Eccoci qua, la città affonda e tutto intorno è l’Apocalisse ma noi siamo qua».