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10/10/2019 

 

Fuggiamo dalla fragilità umana

Giuseppe Fantasia Intervista Olga Tokarczuk

vincitrice del Nobel per la Letteratura 2018

 

Qualche mese fa, durante la kermesse romana “Libri Come”, incontrammo in un hotel dei Parioli la Olga Tokarczuk, scrittrice e poetessa tra le più acclamate in Polonia con libri tradotti in oltre trenta paesi. Da oggi più che mai, quel nome non facile da pronunciare, sarà sulla bocca di tutti (o quasi ) visto che è lei la vincitrice del Nobel per la Letteratura del 2018 (in buona compagnia con il vincitore di quest’anno, Peter Handke), non assegnato lo scorso anno per via degli scandali sessuali e dei problemi all’interno dell’accademia svedese che assegna il premio. 

 

Timida, ma curiosamente interessata a conoscere e ad ascoltarci parlare in italiano con l’interprete dal polacco, la ricordiamo intenta a fissarci con i suoi occhi tra il grigio e il celeste, avvolta nel suo scialle ricamato con fiori. Ci guardava e scrutava a lungo per poi rispondere con un tono di voce mai più alto del consentito nonostante i rumori di sottofondo delle persone nella hall. Era in Italia per presentare “I vagabondi” (Bompiani, 2019), il libro con cui aveva già vinto l’anno prima l’International Man Booker Prize, la storia di una narratrice che all’inizio del romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una sola cosa: essere una barca su quel fiume, “essere eterno movimento”. È quel suo spirito-guida che ci conduce attraverso esistenze fluide di uomini e di donne fuori dell’ordinario, dalla sorella di Chopin che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia per seppellirlo nella sua casa a l’anatomista olandese che scoprì il tendine di Achille e che usò il suo corpo come terreno di ricerca fino a Soliman, rapito quando era ancora in fasce in Nigeria e poi portato alla corte d’Austria come mascotte. Sono loro i suoi “vagabondi”, storie diverse scritte – come ci disse l’autrice – “in un periodo in cui viaggiavo tantissimo”. “Quasi naturalmente – continuava -  ho cercato di raccontare queste esperienze. Non sapevo quale fosse la forma migliore da dargli, perché tutti i generi letterari normali, i reportage, i diari di viaggio e altri generi letterari usati, erano a mio parere vecchi, inutili e non adatti”. “Mi sembrava che il viaggiatore si muova saltando da un posto all’altro ed è così che la prima analogia a cui ho pensato è stata quella dello zapping; così come cambi canali, così il viaggiatore si sposta da un posto all’altro”. 

 

Che immagine ha voluto fornirci con queste storie?

“L’immagine più forte che secondo me è quella di un romanzo costellazione: non coinvolgo ovviamente tutta la volta celeste, ma dei frammenti che poi metto in relazione. È come quando la sera esci sul balcone a guardare le stelle: sono messe in maniera caotica, ma il nostro cervello le vede come un disegno pieno di significati e congiunzioni”. 

 

Questo libro, “I vagabondi”, è stato scritto dieci anni fa ed è riferito in particolare a un popolo di profughi slavi, ma è quanto mai attuale. Siamo noi, gli esseri umani, i primi ad essere vagabondi? 

“Si è giusto, siamo un’umanità in viaggio, che si sposta e che fugge. Quel titolo è pertinente soprattutto in polacco in cui risuona molto il retro pensiero della fuga che non c’è in italiano, perché non poteva essere mantenuto. C’è l’dea di sfuggire a qualcosa”. 

 

Da cosa bisogna fuggire oggi? È necessario farlo o affrontare le cose? 

“Nel libro, ma in generale nella vita, mi sembra che in realtà la cosa da cui si fugge è la fragilità umana, è il nostro essere transeunti e mortali, il nostro essere soggetti al decadimento. È da questo che fuggono i miei personaggi. La metafora che è alla base del libro è l’opposizione tra il continuo movimento delle persone e la fragilità del corpo umano e il suo essere soggetto al passare del tempo, come il contenitore più fragile nel quale viene contenuta la volontà di spostamento. Le voglio dire in proposito una cosa”. 

 

Prego, ci dica pure. 

“Il 1542 è stato a mio avviso un anno molto importante, perché è stato l’anno in cui sono stati pubblicati contemporaneamente due libri: “L’atlante del corpo umano” di Andrea Vesàlio e “Sulla rivoluzione dei corpi celesti” di Copernico. Nello stesso anno sono stati scoperti e descritti il macrocosmo e il microcosmo. Quell’anno è per me l’inizio dell’età moderna, l’inizio del nostro mondo”. 

 

I cambiamenti sono meglio della stabilità?

“Per me sì. La nostra civiltà occidentale mi sembra basata su questo movimento in avanti: quello che è oggi sembra peggio di quello che sarà domani, è sempre necessario un cambiamento e un tendere verso qualcosa che è migliore. Questo è il senso del pensiero civile. Il libro parla di quale è il modo in cui si parla, si viaggia e ci si sposta, quale ne è il senso e se esiste. 

 

Ha trovato una risposta a tutto questo?

“Il mio compito non è dare risposte, ma cercare domande”. 

 

La scrittura cosa è per lei?

“Scrivendo ho l’impressione che partecipo ad una rete di comunicazione fra le persone, una rete interumana. La letteratura è un sistema molto raffinato e profondo per creare questo tipo di comunicazione. Non credo in quello che è chiamato lo “scrivere per un cassetto”. Se scrivo, dall’altra parte deve esserci qualcuno che ne fa esperienza e lo accoglie”. 

 

Scrivere è terapeutico?

(lo ripete in italiano, perché il termine polacco è identico, e ride, ndr) 

“Certo, sicuramente. La scrittura allarga, aumenta, approfondisce la nostra coscienza ed è la stessa cosa che accade nella terapia: vi entriamo senza sapere delle cose e poi le veniamo a sapere. Solo così diveniamo più profondi ed intensi”.