https://www.linkiesta.it/it/

11 Agosto 2018 

 

L’America mette in crisi la Turchia? Erdogan (coi profughi) la farà pagare all’Europa

di Alberto Negri

 

Dietro la crisi della Lira, le sanzioni americane per punire le mosse filo-russe di Ankara. L’ultima arma del Reis? I tre milioni di rifugiati siriani ospitati in territorio turco

 

Cosa si prepara dietro la crisi della Turchia? 

Il nocciolo della questione, oltre che economico e finanziario, è che la Turchia oscilla spericolatamente tra Est e Ovest come nei momenti più turbolenti della sua storia. Erdogan, il custode di tre milioni profughi siriani, vuole gli F-35 americani ma sfidando le sanzioni Usa a Mosca ordina i missili S-400 di Putin, in concorrenza con quelli del consorzio italo-francese Eurosam, e ha commissionato alla Russia la più grande centrale atomica mai progettata sulle sponde del Mediterraneo (ci lavorano 10mila persone) oltre a puntare a realizzare il Turkish Stream, il gasdotto che con il nome di Southstream i russi volevano realizzare con Eni e Saipem, una pipeline fatta saltare da Bruxelles e da Washington dopo la crisi Ucraina e l’annessione della Crimea nel 2014. Noi ci consoleremo, forse, con il Tap, la pipeline del gas dall’Azerbaijan che il premier Conte ha promesso a Trump.

 

E così c’è sempre una prima volta per essere sanzionati dall’America, come nel caso della Turchia, membro storico della Nato dagli anni Cinquanta che paga anche sui mercati la sua ribellione agli Usa. In realtà tra Washington e Ankara dal luglio 2016, quando fallì il colpo di stato contro Erdogan, è in corso una sorta di guerra degli ostaggi. Gli Usa ospitano l’imam Fethullah Gülen, ritenuto da Erdogan il capo della sedizione. I turchi hanno ricevuto ripetuti dinieghi alla sua estradizione e molti della cerchia del presidente ritengono che gli Usa abbiano tentato anche da loro un regime change. Ankara da due anni ha messo in carcere e poi ai domiciliari il pastore evangelico Andrew Brunson accusato di terrorismo e complicità con Gülen. Sono quindi stati sanzionati dagli Usa i ministri turchi dell’Interno e della Giustizia, sospese dal Senato le forniture dei caccia F-35 e ristretti i crediti delle istituzioni internazionali.

 

Risultato: la lira turca, come del resto il rial iraniano, è ai minimi storici sul dollaro. 

Oggi il triangolo Russia-Turchia-Iran – decisivo per la questione siriana ma non solo – è costituito da Paesi nel mirino delle sanzioni americane. Se poi aggiungiamo i dazi alla Cina si capisce bene che è in atto una sorta di scontro tra gli Stati uniti e l’Eurasia. Fino all’ascesa dell’Akp nel 2002 la Turchia è stata dominata dai laici e dai golpe dei militari poi è toccato ai tradizionalisti e ai religiosi. L’intuizione di Erdogan è stata quella di dare rappresentanza politica a questa Turchia rimasta ai margini diventata protagonista dell’economia con le Tigri anatoliche, le piccole e medie imprese esportatrici, il motore del boom economico ma che quelle più indebitate. C’è poco da scherzare oggi con il debito delle aziende turche: è quasi tutto a breve e coinvolge le banche europee fino al collo, spagnole tedesche, inglesi e italiane. Debiti in dollari ed euro che con la drastica perdita di valore della lira turca costano sempre di più. Persino Erdogan ha dovuto piegarsi ad aumentare i tassi per far comprare i suoi bond sui mercati, pur continuando a tuonare contro le agenzie di rating e la “lobby dei tassi interesse”.

 

Il Reìs piace ai nostri sovranisti, meno alla direttrice del Fondo monetario Christine Lagarde, che gli rimprovera di avere messo il guinzaglio alla Banca centrale. Erdogan oggi considera la Lagarde un nemica della nazione alla stregua dei curdi. Eppure questo Paese sarebbe decisamente dell’orbita occidentale. Nel 1952 la Turchia entrò poi a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica creata dagli Usa per contrastare la minaccia di invasione dell’Urss. Successivamente a questa scelta gli Stati Uniti schierarono le testate nucleari in Turchia, considerata il bastione sul fianco Sud-orientale e l’avamposto di un eventuale attacco a Mosca. Oggi in Turchia ci sono 24 caserme Nato e i missili Usa puntati sia contro Mosca che contro Teheran, oltre alla base di Incirlik che i turchi concedono agli americani assai di malavoglia. Del resto nel 2003 Ankara si oppose anche al passaggio delle truppe Usa in Iraq. Dagli anni Settanta, inoltre, la Turchia si è impegnata a condividere i principi fondativi dell’Unione Europea e dal 2003 avviato le riforme per chiedere l’adesione ai trattati. Da quegli anni i negoziati hanno subìto diversi rinvii a causa delle resistenze di Germania e Francia. 

 

In realtà la Turchia è stata ipocritamente tenuta nella sala d’aspetto dell’Unione ben sapendo che né Berlino né Parigi avrebbero mai accettato il suo ingresso in Europa. Dal tentato golpe in avanti la Turchia ha dimostrato un evidente allontanamento dal mondo occidentale, soprattutto nel caso della guerra in Siria, costruendo invece proficue relazioni con la Russia e l’Iran. La Russia ha bisogno di un importante alleato come la Turchia per poter avere facile accesso al Mediterraneo, sia in termini commerciali che militari. Inoltre il triangolo Russia-Turchia-Iran è indispensabile per tentare una soluzione della questione siriana. È interessante sottolineare che Mosca e Teheran sono entrambe sotto sanzioni occidentali, questo significa che la Turchia diventa anche uno sbocco per i loro affari. 

 

È l’antico gioco dei Tre Imperi, russo, ottomano e persiano:

hanno combattuto tra loro per secoli ma possono darsi una mano quando serve. L’avvicinamento alla Russia e all’Iran potrebbe in futuro allontanare Ankara dalla Nato, per entrare a tutti gli effetti in una opposta coalizione regionale, pur restando tatticamente agganciata all’Alleanza e all’Europa. Lo dimostra la guerra siriana. In un primo momento la Turchia si opponeva alla permanenza di Assad al potere, spingendo per la sua destituzione, poi ha cambiato posizione trovandosi a fianco di Russia ed Iran pur di eliminare un embrione di stato curdo alla frontiera siriana. Ma se Assad comincia l’offensiva contro Idlib, dove sono insediati decine di migliaia di jihadisti, il fronte siriano si incendierà ancora e arriveranno altri rifugiati che hanno una sola via di fuga il Nord e la Turchia. E allora la Turchia tra Oriente e Occidente sceglierà un’unica strada: quella della sopravvivenza.

 

https://www.avvenire.it/

sabato 11 agosto 2018

 

La crisi turca e le sue conseguenze. Ingoiare l'orgoglio

di Giorgio Ferrari

 

Lo scenario non è dei più incoraggianti. Da gennaio a oggi la lira turca ha lasciato sul terreno il 30% del suo valore penalizzando sia i prezzi dei beni di consumo sia le imprese, costrette a onorare i propri debiti in valuta estera con una divisa il cui valore è drammaticamente crollato: basti pensare all’euro, che un tempo veniva scambiato alla pari e oggi esige circa 6 lire, o al dollaro, che ieri in pochi minuti si è apprezzato di un ulteriore 13%, mentre sul mercato obbligazionario i rendimenti dei bond decennali sfondavano quota 20% e il tasso di inflazione galoppa ormai oltre il 15%. Ma, come si può facilmente immaginare, non si tratta di una faccenda soltanto interna alla Turchia. Istituti come l’italiana Unicredit, la francese Bnp-Paribas, la spagnola Bbva rischiano di pagare cara la tempesta monetaria turca. Così come rischia la stessa Unione Europea, che assorbe il 40% dell’interscambio commerciale con Ankara (l’Italia è il quinto partner con 19,8 miliardi di dollari nel 2017 – di cui 11,3 di esportazioni).

Ma cosa si cela dietro questa crisi valutaria? Ancora una volta l’eterno paradosso turco, quello cioè di una grande nazione, cruciale per posizione e influenza geopolitica in tutta l’area mediterranea e mediorientale nonché strategica in quanto membro della Nato; una nazione che è al tempo stesso avvitata su stessa – e qui sta il paradosso – proprio grazie alla vittoriosa longevità del suo presidente: quel Recep Tayyp Erdogan, di fatto padre-padrone di una Turchia uscita con la travolgente affermazione del partito di intonazione confessionale Akp dal laicismo costituzionale del suo fondatore Kemal Atatürk ed approdata ormai da qualche anno ad una forma ibrida (e assai lontana dai criteri europei) di democrazia autoritaria innestata su trasparenti nostalgie neo-ottomane.

Una deriva che in parte ha illuso Erdogan di poter disporre a proprio piacimento non solo della Costituzione, della magistratura (cinquantamila fra funzionari pubblici, esponente delle Forze armate e dell’ordine, militanti politici, giornalisti si trovano tuttora dietro le sbarre accusati di tramare contro lo Stato), della conduzione degli affari esteri, ma anche dell’economia, materia friabile e scarsamente dominabile anche dai governanti più avveduti. La nomina – familistica, come è tentazione inesorabile di ogni sultano che si rispetti – del proprio genero Berat Albayrak come nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze (personaggio pressoché digiuno della materia, ma subito pronto ad additare i mali del Paese – ma diciamo pure i propri errori – come risultato di un complotto internazionale), rispecchia quella perdita di lungimiranza e di lucidità politica che per lungo tempo era stato il fiore all’occhiello di Erdogan e il volano della grandiosa crescita economica del Paese che gli aveva garantito vittorie elettorali plebiscitarie.

Una perdita di contatto con la realtà («Se loro hanno i dollari, noi abbiamo dalla nostra la gente, la giustizia e Dio», è la sua risposta alla tempesta monetaria) che ha messo rapidamente in allarme la comunità finanziaria internazionale. Ma i proclami millenaristici, anche quelli del Presidente turco, hanno scarso effetto nel gelido mondo delle Borse, dei mercati, della finanza. E non saranno certo i recenti affari con Mosca (l’acquisto del sistema missilistico antagonista della Nato, le annunciate centrali nucleari, il gasdotto Turkish Stream con Gazprom e le interessate rassicurazioni di Putin) o il rinnovato legame con Teheran a condurre la Turchia fuori dalla crisi. Che anzi rischia di avvitarsi ulteriormente, visto che Donald Trump (complice l’irrisolta vicenda del pastore Brunson, detenuto in Turchia per terrorismo) ha appena annunciato un raddoppio dei dazi sull’acciaio e l’alluminio turco. 

Che ci sia una guerra commerciale in corso oltre che una tensione diplomatica non v’è dubbio. Che Ankara la possa vincere è estremamente improbabile. La soluzione? “Swallow the pride”, come dicono gli americani: ingoiare l’orgoglio (cosa molto ardua per Erdogan). E venire a patti. Entrambe, l’Europa e Ankara, hanno bisogno l’una dell’altra e non è nemmeno pensabile che la crisi turca possa trasformarsi in una ben più vasta e tragica replica di quella greca.

 

 

top