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Morte di Jamal Khashoggi | Saud, la modernità del terrore di Enrico Campofreda Sospetti e ipotesi tante, prove però nessuna. Così il giallo attorno alla fine di Jamal Khashoggi resta sospeso fra illazioni e accuse, smentite e rassicurazioni. Tutte di parte, e tutte sostenute da una volontà politica. In seguito della sparizione del commentatore del Washington Post, preventivamente uscito dal suo Paese per non incorrere in qualche azione repressiva dovuta alle reiterate critiche al metodo di Mohammad bin Salman, è aumentato il numero di proteste anti saudite.
Nuovamente a Istanbul sotto il consolato-antro che ha inghiottito Khashoggi, si sono riuniti manifestanti con la presenza di volti noti dell’impegno per i diritti umani, spiccavano quelli della yemenita premio Nobel per la pace 2011, Tawakkol Karman e del dissidente egiziano Ayman Nour. In più sulla stampa internazionale sono riportate le testimonianze di molti sauditi, già repressi all’epoca della primavera 2011, finiti in galera o se, facilitati da una corposa possibilità economica, riparati all’estero. Alcuni casi di dissidenza sono noti, iniziati prima dell’avvento di MbS e comunque proseguiti nell’ultimo biennio con una metodica degna della peggior coercizione oggi sulla scena mediorientale.
Un termine di riferimento è l’Egitto di al-Sisi, e con la capacità di celare i misfatti tramite l’occultamento delle notizie e azioni più che palesemente poliziesche, affidate ai sotterfugi di un’Intelligence che agisce nell’ombra. Il clima di terrore, lo conferma chi ha concesso interviste pubblicate su New York Times, The Guardian, Le Monde raccontando la propria esperienza, produce omertà e paura. “Incontrando all’estero altri sauditi difficilmente si parla, perché sotto la kefia o dietro la cravatta del businessman può nascondersi una microspia”. Questo clima s’accompagna alla propaganda liberale, modernista del principe che agisce da re, che si fa bello d’un progetto sbandierato ai quattro venti con l’enfasi del caso: permesso di guida alle donne, consenso offerto al genere femminile di frequentare spettacoli cinematografici e manifestazioni sportive. Una Rivoluzione dei costumi. Tutto contro la mentalità iper tradizionalista del salafismo wahabbita ben radicato nel Paese, comunque protetto e finanziato da innumerevoli attività finanziarie di privati e dello stesso Stato.
Il modernismo che bin Salaman afferma di lanciare contro il fondamentalismo di casa, di fatto non sfiora madrase e predicatori estremisti. Lo stesso ‘armarsi di più e meglio’ (nel 2017 l’Arabia Saudita è al terzo posto nella graduatoria mondiale dopo Usa e Cina) sostenuto dal principe per combattere il terrorismo, si traduce nell’alimentare guerre locali come quella contro i ribelli yemeniti. Non risulta che ci siano stati, né ci siano, interventi repressivi contro quelle cellule jihadiste presenti in questi anni nella penisola araba. La “sicurezza” interna viene perseguita, appunto, censurando il pensiero critico verso i modi passati e i progetti presenti del clan Saud, peraltro colpito da lotte intestine, intrighi e purghe. Come noti raìs mediorientali - coronati, laici e religiosi - MbS insegue una politica accentratrice, autoritaria, personalistica. Utilizza il doppio binario d’una pseudo liberalizzazione dei costumi, per conservare un potere classista profondamente antidemocratico. E chi critica può sparire senza lasciare tracce. Come Khashoggi.
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