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24 ott 2018

 

Terra, identità e repressione dalla Palestina all’Europa

di Anna Maria Brancato

 

Vittima di un movimento, quello sionista, di carattere territoriale, identitario ed esclusivo, la questione palestinese diventa fondamentale per capire le dinamiche che dilagano nei nostri paesi: come i palestinesi espulsi, relegati ai margini di un sistema che non sa che farsene, che persegue la purezza e l’identità della propria terra, così i poveri e i migranti vengono esclusi da un sistema liberale e capitalista, scrive Anna Maria Brancato

 

Roma, 24 ottobre 2018, Nena News –

 

Pare sempre che tutto sia già stato detto sulla delicata situazione in Palestina, che a tutte le domande sia già stata data una risposta, quantomeno teorica. Eppure, nonostante i fiumi di inchiostro spesi da più parti per denunciare e analizzare gli ultimi eventi palestinesi, persiste ancora quella che non definirei semplice disinformazione, ma un vero e proprio gap informativo. Credo, dunque, sia utile ripercorrere alcune tappe fondamentali di questo ultimo periodo palestinese, che ha visto i palestinesi diventare protagonisti delle decisioni altrui, senza la possibilità di intervenire direttamente.

Il tentativo vuole essere, dunque, quello di contribuire a ingrossare quel fiume di articoli, riflessioni e analisi che riguardano la Palestina, dando una connotazione storica ad alcuni degli ultimi episodi, evitando allo stesso tempo un inutile elenco di eventi decontestualizzati.

Inizio con l’individuare tre degli obiettivi presi unilateralmente di mira dalla politica congiunta israeliana e americana/internazionale: la terra e la sua identità, i rifugiati, la repressione. Questi punti costituiscono da sempre il nodo della questione palestinese. Con il primo (la terra) mi riferisco, in questo caso specifico, alla decisione americana di trasferimento della propria Ambasciata a Gerusalemme Est. Cosa ha voluto dire davvero quel gesto?

La risposta storica a questa domanda va ricercata nelle intenzioni del movimento sionista fin dalla sua nascita nel XIX secolo: in quanto movimento coloniale europeo di insediamento, il sionismo si è caratterizzato per la smania di acquisire sempre maggiori porzioni di territorio, a scapito degli abitanti originari. La famosa mappa che spesso viene utilizzata per illustrare graficamente l’espansione israeliana in terra palestinese, indica proprio questo. Nel ’48 Israele ha conseguito la sua pretesa normalità di stato legittimo; nel ’67 ha occupato ed è stato proprio in questo momento che l’alleanza israelo-americana si è saldata, arrivando in seguito a innescare quel fantomatico processo di pace che in realtà, come dimostrato da più parti e come la realtà attuale continua a dimostrare, ha solo permesso allo stato di Israele di mantenere il controllo e rafforzare lo status quo.

Un controllo che si concretizza non solo tramite la presenza militare, ma anche attraverso i continui espropri, demolizioni e costruzioni di sempre più ampi insediamenti. Per citare i casi più noti, si pensi all’insediamento ebraico di Maale Adumin, a est di Gerusalemme, strategico perché posto nel mezzo della Cisgiordania e di fondamentale importanza per i piani di ampliamento ed espansione israeliani; o il villaggio di Khan al Ahmar, del quale recentemente è divenuto simbolo la scuola di gomme, e che ancora questi giorni sta ancora affrontando l’ennesima battaglia per la sopravvivenza, con i suoi abitanti costretti a distruggere le proprie case e “trasferirsi”.

A questo tema è strettamente legato quello della “identità” della terra. A luglio la Knesset (il parlamento israeliano) ha approvato la legge che rende Israele uno stato fondato su basi etnico/religiose. C’è da stupirsi? Per i più esperti non rappresenta sicuramente una novità. Difatti, il movimento sionista (territoriale, come si è visto), che ha raggiunto la sua istituzionalizzazione nello stato di Israele, ha da sempre rivendicato la volontà di “restaurare” uno stato ebraico (la non meglio definita national home di cui parlava la Dichiarazione Balfour) per soli ebrei.

Ancora una volta, ignorando la molteplicità demografica presente da ben prima in Palestina. La legge della Knesset ha dunque rappresentato il sigillo, la conferma a livello temporale e storico delle intenzioni e della fermezza di un movimento coloniale fine ottocentesco.

Tutt’altro che isolata è la questione dei rifugiati, diretta conseguenza legata alla questione della terra e della identità della terra. Mi riferisco, nello specifico, alla decisione americana di tagliare i fondi all’Unrwa (agenzia Onu che si occupa di fornire assistenza ai rifugiati palestinesi). L’Unrwa, nata anche per volontà americana all’indomani della creazione dello Stato di Israele per far fronte alla valanga di profughi espulsi dalla Palestina rappresenta un tentativo unico di creare una agenzia che si mantiene attraverso gli aiuti e donazioni internazionali. L’Unrwa negli anni ha ricevuto da più parti svariate critiche, tra le tante quella di non essere in grado di far fronte a emergenze e necessità sempre più impellenti. Bisogna però riconoscere all’agenzia di aver svolto un ruolo fondamentale all’interno dei campi profughi (e nelle zone limitrofe) dove fornisce servizi essenziali per la popolazione.

Ma il carattere “speciale” dell’Unrwa  (i rifugiati palestinesi difatti, a parte in alcune circostanze, non ricadono sotto la protezione dell’Unhcr) ha contribuito a perpetuare per i palestinesi la precaria condizione di rifugiato. Non essendo, infatti, una agenzia pensata per trovare una soluzione politica al problema, si “limita” a fornire i servizi di prima necessità, spingendosi fin dove può, senza che questo possa significare davvero la svolta per gli oltre 5 milioni di rifugiati palestinesi nei numerosi campi profughi.

È facile trovare una spiegazione storica anche a questo. Il movimento sionista (territoriale, identitario) non solo bramava ad acquisire sempre più terra in Palestina, ma puntava a non dover avere a che fare in nessun modo con i vecchi abitanti palestinesi. L’espulsione (o trasferimento) si è tradotto nell’esistenza dei campi profughi, luoghi che, con qualche eccezione, possiamo trovare ancora esattamente nello stesso perimetro su cui nacquero dopo la guerra del ’48.

Il sionismo, in seguito istituzionalizzato nello Stato di Israele, ha perseguito la sua volontà di eliminare la popolazione palestinese, non solo fisicamente, quanto anche a livello discorsivo e culturale (si pensi alla manipolazione della storia, della geografia, alla toponomastica, perfino alla moda o alla cultura culinaria). Il tentativo di legare le mani all’Unrwa, dunque, non rappresenta altro se non la volontà di eliminare il problema dei rifugiati alla radice e non dover essere obbligati a fornire una soluzione politica al popolo, il cui esilio dura ormai 70 anni. Per quanto ambigua, però, la posizione dell’Unrwa è risultata di fondamentale importanza per la sopravvivenza stessa dei rifugiati all’interno dei campi profughi.

L’ultimo punto citato, invece, è la repressione. E si commette un errore se si pensa che questa non abbia a che fare con i due precedenti. Nello specifico mi riferisco qui alla feroce repressione che i palestinesi di Gaza stanno subendo ormai da Marzo, o dall’inizio della Marcia del Ritorno. Le stime parlano di più di 200 vittime palestinesi; dato che, anche se in crescita di settimana in settimana, pare non scoraggiare le folle di manifestanti che ogni venerdì, dal 30 marzo, si recano lungo le linee tra Gaza e lo stato israeliano reclamando la propria esistenza. E sì, perché come si è visto, il movimento sionista (territoriale, identitario, esclusivo) avrebbe preferito che i palestinesi non fossero mai esistiti, neanche a Gaza, e se da una parte la repressione israeliana della Marcia del Ritorno è funzionale alla politica israeliana che continua a indicare il palestinese come un pericolo alla propria sicurezza; dall’altra fornisce al popolo palestinese l’ennesima opportunità di esprimere la propria esistenza e dignità.

Ossia, dove la politica (non solo internazionale, ma anche a livello locale) fallisce, relegando nell’ombra le legittime rivendicazioni di un popolo (e il recente venticinquesimo anniversario della sigla degli accordi di Oslo in qualche modo lo ha ricordato), sta al popolo riprendere in mano la propria condizione, rivendicando in primo luogo la propria esistenza laddove qualcun altro ne reclama l’estinzione.

Della Marcia del ritorno però, e della azione repressiva di Israele, si è smesso di parlare nei media mainstream, o lo si fa in maniera totalmente decontestualizzata. E allora quello che non dobbiamo smettere di domandarci è perché ha perso così tanto valore la voce di un popolo?

La domanda non è retorica, ma vuole essere un invito a valutare l’intera questione palestinese come fondamentale per capire anche le dinamiche identitarie, esclusiviste e di esclusione che stanno dilagando nei nostri paesi. I palestinesi espulsi, relegati ai margini di un sistema che non sa che farsene, che persegue la purezza e l’identità della propria terrra. Così come vengono esclusi i poveri da un sistema liberale e capitalista, così come vediamo essere esclusi e respinti i poveri e gli immigrati dal sistema nostrano, alla continua ricerca di una identità forte e unitaria che non trova.

Il silenzio imposto dall’informazione di massa sulla questione palestinese è funzionale a quell’ormai non troppo nuovo tipo di censura che preferisce inondare il lettore o l’ascoltatore di notizie confusionarie (che siano verificate, poco importa), dalle quali però pare sempre possibile identificare un colpevole (uno straniero) a cui addossare tutte le mancanze di un sistema e che, nei fatti, risulta essere il terrorista, l’immigrato, colui che si oppone, l’escluso.
Da qui deriva l’importanza della questione palestinese. Il silenzio imposto ai palestinesi sta diventando anche il nostro silenzio. Nena News

 

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