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02/06/2018

 

Alle origini della catastrofe palestinese 

di Renato Caputo

 

Controstoria della fondazione dello Stato sionista d’Israele a settant’anni dalla sua fondazione

 

Si è recentemente celebrato in tutto il mondo occidentale il settantesimo anniversario dello Stato di Israele, con grandi cerimonie e prese di posizione di presidenti e autorità politico-culturali. Mentre si è, generalmente e volutamente, occultato che il 1948 è al contempo l’anno della Nakba, ovvero della catastrofe di cui ancora vive le pesantissime conseguenze l’intero popolo palestinese.

 

Ancora più spesso si è nascosto il legame profondo e indissolubile fra i due eventi, ossia come la creazione dello Stato ebraico sia stato realizzato per mezzo di una vera e propria pulizia etnica del popolo palestinese, tanto che il grande storico israeliano prof. Ilan Pappe ha intitolato il suo decisivo studio che ha ampiamente documentato, utilizzando fonti esclusivamente israeliane, tali tragici eventi: La pulizia etnica della Palestina.

 

Certo tale memoria selettiva è indubbiamente conseguenza del senso di colpa, che dovrebbe essere particolarmente forte in un paese come il nostro legato da un Patto d’acciaio con la Germania hitleriana, per la Shoah. In tal modo però si rischia di non imparare nulla dalla propria tragica storia, si rischia di perpetuare il silenzio complice verso un’altra vicenda storica di “sopraffazione, di oppressione, ma che poi è diventata una politica genocidaria”, come ha giustamente fatto notare il grande storico italiano prof. A. D’orsi. Della tragedia del popolo palestinese quando ancora se ne parla in occidente, se ne parla come se si trattasse, ha osservato ancora D’Orsi “di una tragedia naturale”. In realtà si tratta di una tragedia fin troppo umana, che ha le sue origini nella politica colonialista e imperialista propria della nostra Europa – a proposito della quale decisamente più flebile è il senso di colpa che ci portiamo addosso. 

 

Il tentativo da parte delle potenze coloniali europee di sfruttare la religione ebraica per i propri piani di dominio imperiale sul Medio Oriente risalgono almeno alla fine del diciottesimo secolo, quando, Napoleone Bonaparte, per piegare l’Impero britannico, cerca invano di conquistare la Palestina e così spezzare la via commerciale principale che, attraverso il Mar Rosso, univa il Regno Unito alle sue ricche colonie nella penisola indiana. Nonostante la potente cassa di risonanza nei mezzi di comunicazione dell’Impero francese, l’appello di Napoleone agli ebrei del 1799, affinché prendessero il possesso di quella “Terra promessa” che Dio stesso gli avrebbe riservato, sembrò cadere nel vuoto, anche perché lo stesso generale vi rinunciò ben presto, richiamato in Francia dalla sua sete di potere.

 

L’idea sarà ripresa, paradossalmente, a quarant’anni di distanza proprio dall’Impero britannico, per contrastare il tentativo di Mohammed Alì di liberare il mondo arabo dal secolare dominio, riunificandolo a partire dall’unione fra Siria ed Egitto. Nel 1840 il temibilissimo ministro degli esteri inglesi, Lord Palmerston – i cui intrighi pre-imperialisti furono così spesso e animosamente denunciati dal giornalista Karl Marx – invitò l’ambasciatore inglese in Turchia a fare pressioni sul sultano affinché aprisse la Palestina all’immigrazione degli Ebrei. In tal modo si sarebbe potuta rafforzare la presenza in Palestina di una minoranza di religione ebraica, allora ridotta ad appena tremila persone, per impedire l’unificazione del mondo arabo in nome dell’antico e sempre valido principio del divide et impera. Tale piano trovò l’entusiastica adesione del barone Edmond de Rothschild, uno dei più ricchi esponenti della comunità ebraica europea, che investì ben 14 milioni di franchi per fondare trenta nuovi insediamenti ebraici in Palestina, nei quali fu ideata la futura bandiera dello Stato sionista.

 

Il termine “sionismo” fu coniato nel 1885 dallo scrittore austriaco N. Birnbaum – deriva da Zion, una collina di Gerusalemme – e indica l’intento di alcuni appartenenti alla religione ebraica di costruire un proprio Stato in Palestina. Si tratta di un movimento colonialista e nazionalista, sorto non a caso nell’età dell’imperialismo in Europa, che portò ebrei – soprattutto europei – a stabilirsi in Palestina.

 

Tale movimento è sorto e si è sviluppato del tutto indipendentemente dalla piccola comunità ebraica residente da secoli in Palestina, i cui membri si erano generalmente ben integrati con gli altri palestinesi, anche perché la dominante religione islamica è stata quasi sempre più tollerante della cristiana nei riguardi delle altre religioni. Tanto che, ancora oggi, i discendenti di quella comunità tendono a essere considerati, dai sionisti, ebrei di second’ordine, in quanto avrebbero vissuto per secoli mescolati con gli altri palestinesi. Al punto che appartengono generalmente ancora alle classi sociali subalterne.

 

Nel 1896 il giornalista tedesco Theodor Herzl pubblica il suo libro Lo Stato ebraico, in lingua tedesca. Tuttavia, al tempo, la grande maggioranza degli ebrei poveri e/o perseguitati dell’Europa, soprattutto orientale, miravano a integrarsi, superando la secolare discriminazione da parte dei cristiani, o a emigrare in America. Tanto che M. Nordau, braccio destro di Herzl – dopo aver inviato due rabbini in avanscoperta in Palestina, ricevendo da essi un rapporto telegrafico: “La sposa è bellissima, ma è già sposata con un altro uomo”, ovvero il popolo palestinese – si rese conto che lo slogan di Herzl: “una terra senza popolo per un popolo senza terra” era del tutto infondato. Tanto che si mise alla ricerca di soluzioni alternative più praticabili, come ad esempio l’occupazione e colonizzazione di un territorio africano. Così l’opzione palestinese e quella africana rimasero a lungo in ballo, dal momento che lo scopo essenziale del movimento era quello di creare una nazione ebraica in un paese da colonizzare. A tale scopo Herzl, per preparare il terreno, cercò il supporto delle principali potenze, giocando sulle loro rivalità.

 

Il più interessato, a una forte presenza coloniale straniera, nella zona in cui il Mediterraneo lambiva il Mar Rosso, era naturalmente l’Impero britannico, intenzionato a salvaguardare i suoi traffici con le Indie. Il primo ministro inglese H. Campbell-Bannerman sostenne la necessità di collocare nei pressi del decisivo Canale di Suez una popolazione straniera europea ostile ai popoli arabi della zona e favorevole agli interessi coloniali britannici. I coloni sionisti sarebbero stati dipendenti, per la loro sopravvivenza, dall’Impero britannico e avrebbero necessariamente contribuito a garantire i suoi interessi strategici sull’area, indebolendo i paesi arabi circostanti. 

 

Nel 1907 il chimico inglese, futuro capo dell’Organizzazione Mondiale Sionista, C. Weizman si recò in Palestina per fondare a Jaffa una compagnia che, con il supporto di Rothschild, acquistò sistematicamente terre palestinesi. Tre anni dopo il Fondo Nazionale ebraico comprò oltre ventimila ettari nel nord della Palestina da proprietari libanesi residenti in Europa. L’accordo prevedeva lo sfratto di circa 60.000 contadini palestinesi che abitavano e lavoravano quelle terre. 

 

Dunque, l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre, iniziò ben prima del 1948. Si trattava, inoltre, di una forma di colonialismo d’insediamento, più drastico di quello 

imperialista, in quanto non si limitava a sfruttare la popolazione locale, ma agiva in funzione di una vera e propria pulizia etnica. Anche perché i sionisti, come ricordato dallo storico israeliano Pappe, divennero ben presto consapevoli che l’unico modo per fondare uno Stato ebraico era espellere i palestinesi dalle loro terre. Tanto che, quando non si disponeva di sufficienti immigrati dall’est Europa, per sostituire i contadini palestinesi si utilizzò mano d’opera importata dallo Yemen. Si trattava, quindi, di un 

movimento razzista che cercava capitali per colonizzare la Palestina sfruttando il mito religioso della “Terra promessa” da Dio al suo popolo.

 

I sionisti compresero che, per portare a termine il loro piano, avevano bisogno di una forza armata adeguata e così diedero vita a un esercito ebraico: Hashomer. Al contrario i palestinesi, che provarono a denunciare i rischi di uno Stato ebraico in mezzo al mondo arabo, furono perseguitati dagli Ottomani, che dominavano anch’essi sulla base del principio: divide et impera. Durante la Prima guerra mondiale gli inglesi, che controllavano l’Egitto, videro nei sionisti un valido partner per un nuovo ordine coloniale strategico, incentrato sul controllo del Canale di Suez. Nel 1915 un memorandum segreto dal titolo “Il futuro della Palestina” fu presentato al consiglio dei ministri dal primo ministro apertamente sionista del governo inglese: Herbert Samuel. Considerato che non era ancora possibile creare uno Stato, dopo la guerra la Palestina doveva passare sotto il controllo britannico, che avrebbe favorito l’acquisto di terre e la fondazione di colonie di ebrei europei. Il piano mirava a collocare, in mezzo al mondo arabo, tre o quattro milioni di ebrei europei.

 

Tali suggerimenti furono seguiti dall’accordo segreto fra Francia e Inghilterra noto come Sykes-Picot, dal nome dei suoi ideatori, che aprì la strada alla fondazione dello Stato ebraico. Il politico inglese M. Sykes era uno stretto amico di Weizmann e sostenne con il diplomatico francese F. G. Picot la causa sionista. L’anno successivo, 1917, il consiglio dei ministri britannico guidato da A. Lloyd George si impegnò a istituire un territorio per gli ebrei in Palestina. L’impegno fu presentato in forma di lettera dal ministro degli esteri Balfour al leader sionista Lord Rothschild.

 

Come ha osservato l’esimio storico israeliano prof. Avi Shlaim “L’Inghilterra non aveva diritto legale, politico o morale di promettere ad altri la terra che apparteneva agli arabi. Per cui la dichiarazione di Balfour era al contempo illegale e immorale”. A poco più di un mese dall’impegno sottoscritto da Balfour, l’esercito inglese guidato da Allenby occupò Gerusalemme insieme a un’unità militare sionista, costituita dagli inglesi, in cui militavano i futuri padri della patria israeliana: D. Ben-Gurion e Z. Jabotinsky. Un mese dopo il generale Allenby riceveva il suo amico Weizmann. Nel frattempo il numero degli ebrei in Palestina era salito a cinquantamila, mentre gli arabi erano cinquecentomila. Nonostante gli sforzi congiunti di sionisti e colonialisti inglesi gli ebrei erano ancora meno del 10% della popolazione del paese.

 

Alla fine della guerra il presidente degli Usa Wilson inviò in Palestina un comitato per esplorare la situazione in Palestina in vista degli accordi di pace di Parigi. Il comitato riferì che, sulla base del principio di autodeterminazione delle nazioni, cui dichiarava di volersi ispirare Wilson, il 90% della popolazione costituita da arabi era assolutamente contraria al progetto dei sionisti e altrettanto contrari erano gli arabi residenti nei paesi limitrofi. Perciò, per iniziare il piano sionista ci sarebbe stato bisogno di un esercito di almeno cinquantamila uomini. Il che era la migliore dimostrazione di come tale piano fosse ingiusto e contrario al diritto dei popoli all’autodeterminazione. Alla conferenza di pace di Parigi la Gran Bretagna fu rappresentata da Lloyd George e Balfour, i sionisti da Weizmann che mostrò una mappa del progetto di Stato sionista comprendente non solo la Palestina, ma la riva orientale del Giordano, il sud del Libano e la zona occidentale della Siria.

 

02/06/2018

 

Le cause della Nakba 

di Renato Caputo

 

Le cause che portarono alla catastrofe Palestinese del 1948 e alla nascita dello Stato ebraico.

 

La mistificazione della verità per quanto concerne la questione palestinese è certamente uno degli esempi più emblematici di come lavora a pieno regime quella che Vladimiro Giacché, nel suo omonimo libro, ha definito la fabbrica del falso. Anche perché si tratta di una delle rare merci, insieme alle armi, che non sembra scontrare la crisi di sovrapproduzione che generalmente colpisce oggi gli altri settori del modo di produzione capitalistico, giunto alla sua fase di sviluppo imperialista. Anche perché l’industria del falso tende a diversificare la sua produzione e così l’ideologia dominante, sempre più spesso, non ricorre più a forme semplicistiche di negazione della verità come potrebbero essere le menzogne dirette, ma a forme molto più efficaci e sofisticate, come le mistificazioni e le semplificazioni.

Un momento particolarmente significativo di condensazione di tale strategia sono state le celebrazioni dedicate quest’anno ai 70 anni dalla nascita di Israele. Le ricorrenti semplificazioni e mistificazioni, generalmente interessate, che vengono sapientemente utilizzate nella narrazione dominante della questione palestinese, hanno raggiunto nelle celebrazioni di questo anniversario un caso davvero emblematico di negazionismo storico. Fra le diverse tipologie di mistificazione della realtà, quella predominante è stata certamente quella che nella Fabbrica del falso è stata definita la verità mutilata.

Quest’ultima si dà quando nel trattare di un evento non si fa menzione del contesto in cui si inserisce, non si ricordano le circostanze e ciò che lo ha preceduto, nel caso specifico la nakba, ossia con la catastrofe che ha travolto il popolo palestinese e di cui generalmente non si fa menzione per non guastare la celebrazione della nascita dello Stato sionista. Come se tale Stato fosse stato costruito su Marte e non su un territorio, abitato e antropizzato da secoli dal popolo palestinese. In tal modo la narrazione della nascita di questo Stato non è solo presentata in modo parziale, ma è interamente falsata da ciò che occulta. La versione della vicenda che è stata propinata all’opinione pubblica occidentale è, quindi, falsata da una verità, volutamente, dimenticata. Proprio per questo intendiamo proseguire nella ricostruzione degli antefatti – iniziata nel precedente numero di questo giornale – che soltanto consentiranno di poter dare un giudizio storico obiettivo all’evento di cui è ricorso il settantesimo anniversario.

Nel 1919, dunque, i sionisti compresero che non bastavano le precedenti buone relazioni stabilite con le principali potenze imperialiste, ma era necessario trattare con gli arabi per conseguire la spartizione della Palestina. Così formarono un centro di informazioni, sfruttando i buoni rapporti che si erano stabiliti fra gli ebrei di seconda generazione, che avevano appreso l’arabo e i palestinesi, per comprendere come questi ultimi avrebbero reagito di fronte al progetto sionista ed entrare in contatto con chi era disponibile a vendere le terre. 

Nel frattempo, nel 1920, viene nominato il primo governatore inglese per la Palestina, il già ricordato sionista H. Samuel, che mirò a realizzare il piano da lui proposto cinque anni prima, volto a fare della Palestina uno Stato ebraico, con la complicità del suo amico generale Allenby che aveva occupato il paese. Del resto fra le condizioni del mandato della Società delle nazioni – notoriamente dominate dalle potenze imperialiste inglesi e francesi – al Regno Unito c’era la preparazione delle condizioni per la realizzazione dello Stato ebraico. Così Samuel, appena nominato, rese l’ebraico lingua ufficiale della Palestina al pari di arabo e inglese e con un centinaio di procedimenti amministrativi fece in modo che molte terre palestinesi passassero sotto il controllo dei sionisti e consentì un sistema autonomo di educazione ebraico indipendente da quello palestinese. I sionisti organizzarono anche un loro ministero per l’energia e istituzioni per il controllo delle acque e dei lavori pubblici. Soprattutto Samuel diede la possibilità ai sionisti di dotarsi di un esercito autonomo. 

Più in generale, il governo inglese – mirando ad attuare la dichiarazione di Balfour – favorì l’emigrazione di ebrei in Palestina e il loro acquisto di terre. Samuel assegnò tutte le terre non rivendicate, trascurate o di proprietà del governo ai sionisti per costruirvi insediamenti (Kibbutzim). Gli inglesi proteggevano l’entità sionista che funzionava come semi-governo e ne nascondevano l’attività, mentre i palestinesi stentarono a comprendere realmente ciò che stava avvenendo sotto i loro occhi. Gli intellettuali palestinesi non compresero il pericolo costituito dal sionismo nel suo intento di espellere il popolo palestinese dalla propria terra. Più in generale la cospirazione inglese, volta a imporre la presenza sionista, sfuggì o si diede a vedere che sfuggisse ai leader dei paesi arabi, in larga parte prodotti e funzionali al neocolonialismo britannico. 

Tuttavia i contadini palestinesi, che venivano espulsi dalle terre dall’autorità inglese per fare spazio agli insediamenti ebraici, cominciarono a ribellarsi formando gruppi rivoluzionari nelle aree rurali. Nel 1921, grazie a questa spinta dal basso che contrastava con l’attitudine quietista imposta dall’alto, i palestinesi cominciarono a prendere coscienza e a reagire, organizzarono grandi manifestazioni contro le sempre più massicce immigrazioni di ebrei europei favorite dagli inglesi.

D’altra parte, però, la stessa leadership palestinese era appannaggio di una sola famiglia, quella del Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husayni, che cercava di mantenere buoni rapporti con gli inglesi da cui considerava dipendere la sua posizione preminente. Inoltre le strutture decisionali palestinesi erano infiltrate da agenti del sionismo, che denunciavano tanto i nemici da combattere, quanto i palestinesi deboli che potevano essere, in qualche modo, corrotti o costretti a corrompersi.

Il resoconto inviato dal governatore inglese alla Società delle Nazioni sottolineava l’aver favorito nel solo 1925 l’immigrazione di oltre trentatremila ebrei, tre volte tanto rispetto all’anno precedente, cui fu assicurata la cittadinanza palestinese. Furono inaugurati tredici nuovi insediamenti, l’università ebraica e a Tel Aviv – controllata dai sionisti – fu accordata l’autonomia amministrativa. L’allora Lord presidente del consiglio, il conservatore Balfour – che con la sua nota Dichiarazione già nel 1917 aveva promesso la realizzazione dello Stato ebraico – ospite di Weizmann, a capo dell’Organizzazione sionista mondiale, visitò gli insediamenti ebraici e si incontrò con Samuel e Allenby per sviluppare ulteriormente la comune strategia. I palestinesi risposero alla visita di Balfour con una manifestazione di protesta, mentre Weizmann si congratulava con il rappresentante del governo britannico per aver portato a termine la prima fase della costituzione dello Stato ebraico in Palestina. Nei primi dieci anni del mandato inglese in Palestina il numero degli ebrei era più che triplicato raggiungendo le 175.000 unità.

Nel 1929 i sionisti organizzarono la preghiera degli ebrei al muro del Pianto che scatenò la rivolta dei Palestinesi. Gli inglesi reagirono facendo arrestare e condannare a morte i leader della protesta. Al contempo favorirono l’emigrazione di coloni di religione ebraica, generalmente europei, il cui numero aumentò vertiginosamente dai 4000 ingressi nel 1931, ai 9.500 dell’anno successivo, fino a raggiungere i trentamila nel 1933, i 42.000 nel 1934, fino a i 62.000 nel solo 1935. A metà degli anni trenta Tel Aviv innalzò la bandiera sionista e i suoi sostenitori assunsero il controllo delle principali attività produttive della città.

I sionisti tendevano a preparare l’opinione pubblica occidentale, all’occupazione coloniale della Palestina, presentandola come un desolato e sostanzialmente disabitato deserto, che solo la colonizzazione degli ebrei occidentali aveva fatto fiorire. Allo stesso modo, i principali politici inglesi, filo-sionisti, come Lloyd George, Balfour e Churchill identificavano i palestinesi con i musulmani, occultando la presenza al loro interno di ben 100.000 cristiani, per impedire qualsiasi tipo di identificazione e di riconoscimento da parte degli occidentali. Nei rari casi in cui se ne faceva cenno, venivano definiti esclusivamente in relazione alla loro religione, occultando così che, insieme ai musulmani, avevano dato vita al popolo palestinese.

Anche i filmati girati dai colonialisti inglesi e sionisti degli anni venti e trenta, praticamente gli unici esistenti, mostrano quasi esclusivamente le attività produttive svolte in Palestina da britannici e coloni ebrei, mentre la presenza dei palestinesi è sistematicamente occultata. Tanto più che gli inglesi, come i sionisti, si rifiutavano di riconoscere ai palestinesi la stessa dignità di essere un popolo, mentre consideravano i coloni sionisti come i legittimi rappresentante del movimento nazionale in queste terre. Ciò non poteva che portare allo scontro con la maggioranza palestinese. Così, a partire dal 1933, le manifestazioni di protesta si intensificarono in Palestina, cui gli inglesi reagirono con inusitata violenza, uccidendo, ferendo e arrestando manifestanti generalmente pacifici. Gli inglesi imposero una durissima legislazione speciale contro ogni forma di insubordinazione da parte dei palestinesi, norme che in parte significativa sono state riprese e mantenute dallo Stato ebraico.

Dinanzi alla sostanziale impossibilità di sviluppare forme di lotta non violente, il siriano al Qassam cercò, nel 1935, di spingere i leader palestinesi a una rivoluzione politica, ma gli fu risposto che le condizioni non erano mature e che si sarebbero risolti in modo più efficace i problemi dei palestinesi con i negoziati politici con gli occupanti inglesi. Così nel suo tentativo rivoluzionario, Qassam rimase piuttosto isolato e fu facile preda dell’esercito britannico – tra i più moderni e potenti allora esistenti – che lo massacrò, con i suoi sparuti compagni. Tuttavia il loro sacrificio non fui inutile, perché colpì profondamente i palestinesi che cominciarono a fare crescenti pressioni sulla propria leadership, affinché abbandonassero le inconcludenti trattative con i colonialisti inglesi.

Ancora una volta la lotta partì dal basso, dando vita, in particolare, all’imponente sciopero nazionale del 1936, cui aderirono tutti i palestinesi, raggiungendo così l’apice della lotta di massa contro il Mandato britannico e l’imposizione dello Stato sionista. Spaventati gli inglesi reagirono in modo brutale con selvagge rappresaglie contro i sospettati di guidare il movimento rivoluzionario, con arresti arbitrari e distruzione delle abitazioni dei sospetti e, come forma di punizione collettiva, misero a ferro e fuoco i quartieri e i villaggi che più si erano spesi nella lotta. Ben-Gurion – capo dell’Agenzia ebraica, volta ad agevolare l’immigrazione di ebrei in Palestina – ne approfittò per proporre agli inglesi di deportate in Transgiordania i palestinesi espulsi dalle terre, per fare spazio agli insediamenti ebraici. La proposta fu approvata dagli occupanti britannici.

 

16/06/2018

 

Alle origini della deportazione dei palestinesi

di Renato Caputo

 

Le ragioni storiche che hanno prodotto fino a oggi milioni di profughi palestinesi, contribuendo a fare del Medio oriente una polveriera.

 

A metà degli anni trenta, dopo sei mesi di sciopero dell’intera popolazione contro la colonizzazione della Palestina da parte dei Sionisti e la dura repressione portata avanti dalle truppe di occupazione inglese, furono gli stessi dirigenti dei paesi arabi – espressioni della classi dominanti e generalmente strumenti del neocolonialismo dell’impero britannico – a convincere la leadership palestinese a desistere da questa forma radicale di lotta dal basso, dando a intendere che la questione sarebbe stata risolta attraverso trattative con gli inglesi che, da parte loro, dovevano essere considerati dai palestinesi in buona fede e non sostenitori del progetto sionista. La commissione, che condusse la trattativa con i palestinesi, seguendo la collaudata tecnica di dominio del divide et impera, propose la spartizione della Palestina in tre zone, su un terzo sarebbe sorto lo Stato ebraico con la conseguente deportazione dai suoi territori dei palestinesi nei restanti due terzi del paese, che sarebbe rimasto sotto il loro governo, mentre gli inglesi avrebbero mantenuto il controllo delle zone di Gerusalemme e Haifa.

 

I sionisti, che miravano a un puro Stato ebraico, approvarono il piano proprio perché sanciva il principio del trasferimento della popolazione su basi etniche e/o religiose. Del resto i sionisti avevano già operato, negli anni precedenti con la complicità dei britannici, in funzione della futura pulizia etnica delle zone in cui sarebbe dovuto sorgere lo Stato ebraico. In tal modo avrebbero potuto rendere maggiormente credibile il loro mito fondativo di una terra senza popolo, per un popolo senza terra. I sionisti, inoltre, organizzarono un efficiente servizio d’intercettazione telefonica, volto a spezzare ogni legame fra i coloni ebrei e i palestinesi, minacciando i primi di tradimento e di collusione con il nemico. Sin da allora, quindi, la politica razzista nei riguardi dei palestinesi comporta delle ricadute pesanti sulla stessa libertà dei coloni ebrei, che vengono spiati e sono costretti a rompere i legami affettivi che li legano ai palestinesi. La rottura di tali legami era essenziale per la realizzazione della pulizia etnica, indispensabile alla realizzazione in Palestina di uno Stato ebraico.

 

Fra il 1936 e il 1937, dopo aver ucciso per rappresaglia un migliaio di Palestinesi accusati di aver sostenuto la resistenza, gli inglesi costrinsero o indussero all’esilio l’intera leadership palestinese, per decapitare il movimento anticolonialista e privarlo dei propri intellettuali di riferimento. La lotta anche armata dei palestinesi proseguì, nonostante avesse perso la propria dirigenza, tanto che gli inglesi si videro costretti a rafforzare il proprio contingente militare in Palestina di ben 20.000 militari, guidato da quattro fra i più esperti generali, che avevano comandato l’esercito britannico nel corso della Prima guerra mondiale.

 

Gli inglesi si impegnarono con particolare accanimento a disarmare ogni palestinese. Moltissime abitazioni furono setacciate da cima a fondo e bastava il rinvenimento di una qualsiasi traccia di arma, per demolire un’abitazione, praticata proseguita anch’essa, fino ai nostri giorni, nei territori occupati dai sionisti. La popolazione civile palestinese fu pesantemente umiliata dagli inglesi, che svuotavano interi villaggi rinchiudendo l’intera popolazione in pochi e angusti locali, per perquisire a fondo le abitazioni, senza curarsi di devastare o di lasciare nel più completo disordine gli oggetti cari ai palestinesi. Non furono uccisi soltanto semplici individui palestinesi, trovati in possesso di una qualsiasi arma, ma persino un vescovo, G. Hajjar, che aveva invitato i cristiani palestinesi a lottare con i musulmani contro i comuni oppressori. Ciò era pericolosissimo per i colonizzatori inglesi che miravano a presentare i coloni ebrei europei come appartenenti al mondo civile occidentale e i palestinesi come del tutto estranei al mondo civilizzato europeo, anche dal punto di vista delle credenze religiose.

 

Gli occupanti inglesi sembravano prediligere le punizioni collettive con il fine di fiaccare la resistenza dei palestinesi, ad esempio bruciando i campi dei villaggi sospettati di coprire i ribelli e con diversi casi di torture nei confronti della popolazione civile che non si dimostrava pronta a favorire la cattura dei resistenti. Così migliaia di palestinesi, solo in quanto sospettati di simpatizzare con i ribelli, finirono reclusi in campi di concentramento.

Mentre gli inglesi disarmavano sistematicamente i palestinesi, non solo consentirono, ma favorirono l’armarsi dei sionisti, offrendosi persino di addestrarli in funzione del futuro scontro con i palestinesi, nonostante che, sin dal 1938, organizzazioni segrete sioniste avevano iniziato a portare avanti una serie di azioni violente volte a terrorizzare la popolazione civile palestinese. Un ufficiale inglese sionista, Wingate, oltre ad addestrare gli ebrei, inserì sionisti nei suoi battaglioni insegnandogli a rastrellare e distruggere in modo sistematico i villaggi palestinesi. Moshe Dayan, che sarà ministro della difesa dello stato ebraico, prese sotto la sua protezione Wingate il quale, con le sue brigate sioniste, pianificò raid notturni contro i presunti ribelli per ucciderli, con il favore della notte, nelle loro stesse abitazioni.

 

Nel 1938, i seguaci di Quassam, che aveva inaugurato la lotta rivoluzionaria per la liberazione della Palestina, organizzarono la lotta armata palestinese in squadre autonome attive in piccoli villaggi, che portavano avanti un’efficace guerriglia. La lotta contro il colonialismo britannico e sionista raggiunse proprio in questi anni il suo apice. Gli inglesi reagirono umiliando la popolazione palestinesi, uccidendo i capi e sterminando le cellule rivoluzionarie, anche grazie a una rete di infiltrati frutto della collaborazione fra inglesi e sionisti. Inoltre inglesi e sionisti stabilirono un’alleanza tattica con i nazionalisti musulmani, che sovvenzionavano segretamente, affinché screditassero il movimento rivoluzionario. Si stabilì così un’alleanza fra fondamentalismi religiosi che dura sino ai nostri giorni, con gli accordi sempre più stretti che legano i governi della destra sionista con i regimi dispotici del Golfo, che sovvenzionano e fomentano il fondamentalismo sunnita.

 

Negli anni della lotta rivoluzionaria per la liberazione della Palestina, fra il 1936 e il 1939, cinquemila palestinesi furono uccisi e 14.000 feriti. Un palestinese su 10 in grado di combattere, fu ucciso, ferito, arrestato o esiliato dai coloni inglesi con il supporto dei sionisti. In tal modo i combattenti, che avrebbero potuto resistere alle aggressioni sioniste degli anni quaranta, erano già stati, preventivamente, tolti di mezzo, insieme a praticamente tutte le istituzioni dei palestinesi, che si trovarono senza attivisti né intellettuali in grado di svolgere la funzione di leadership. La battaglia per la liberazione della Palestina fu persa non solo a seguito della Prima guerra arabo-sinonista del 1948, ma già alla fine degli anni trenta, quando gli inglesi repressero nel sangue, nel modo più spietato, la rivolta palestinese, decapitando la resistenza della società civile.

 

Nel 1939 la Gran Bretagna annunciò di aver portato a termine il proprio Mandato, per la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina. Con l’inizio della seconda guerra mondiale, 15.000 coloni ebrei furono fatti arruolare nell’esercito dell’Impero britannico. Si costituì così un vero e proprio esercito dei coloni ebrei, dotato persino di una propria aviazione. Ciò fu determinante nella guerra del 1948, in quanto migliaia di sionisti furono addestrati dagli imperialisti inglesi a utilizzare anche le armi pesanti e gli strumenti tecnologici più avanzati per condurre una guerra. Così, mentre diversi coloni sionisti erano ormai assimilabili a militari professionisti, i palestinesi erano non solo privi di tali competenze decisive in un conflitto, ma del tutto privi di armi e di una direzione consapevole. I sionisti divennero esperti pure nelle scienze militari, considerato che coloni ebrei riuscirono a occupare anche gradi elevati nell’esercito imperiale britannico.

 

Nel frattempo i sionisti portarono avanti un’operazione segreta di monitoraggio di ogni villaggio palestinese, per conoscerne con largo anticipo le risorse, le capacità di resistenza della popolazione e quanto sarebbe stato utile e fruttuoso conquistarlo. “Di fatto, sfruttavano l’ospitalità araba”, come ha sottolineato il grande storico israeliano I. Pappe, “per attività di spionaggio” [1]. Le informazioni fondamentali che riuscirono a carpire erano relative al modo migliore per entrare e prendere il controllo dei villaggi palestinesi e depredarne in modo sistematico le ricchezze.

 

L’immigrazione ebraica in Palestina, nel frattempo, aumentava di anno in anno, tanto che i sionisti cominciarono a non rispettare più, in modo sempre più sistematico, i tetti stabiliti dalle autorità britanniche. I sionisti arrivarono a fa saltare la fiancata di una nave francese carica di 1.800 ebrei considerati immigrati illegali dai britannici e, perciò, bloccati sulla nave, provocando l’uccisione di 260 di loro pur di consentire di fare accogliere in Palestina i restanti. Tanto più che a rendere esuli moltissimi ebrei europei contribuivano ora in modo decisivo le sempre più sistematiche persecuzioni portate avanti dagli imperialisti tedeschi e dai loro molteplici alleati e complici europei. Anche perché, per distogliere l’attenzione dalla controffensiva sovietica che, a partire da Stalingrado, costringeva al ritiro le truppe dell’Asse, i gerarchi nazisti avevano dato avvio alla spaventosa soluzione finale, che prevedeva lo sterminio sistematico di milioni di ebrei.

 

Nel frattempo, nel 1942, in un meeting internazionale i sionisti decisero di non puntare più sulla Gran Bretagna – che appariva ormai una potenza in declino e, comunque, non era intenzionata a rinunciare al proprio dominio imperialistico sulla Palestina – ma sulla potenza emergente degli Stati Uniti, favorevoli al superamento del vecchio colonialismo europeo, da sostituire con il neo-colonialismo a stelle e strisce, che si mostrava più favorevole alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Così, nel 1944, l’organizzazione sionista internazionale, assicuratasi il sostegno degli Stati Uniti, decise di iniziare la lotta per il ritiro della Gran Bretagna dalla Palestina.

 

Al contrario, il Mufti di Gerusalemme, Al-Husayni, che i colonialisti inglesi avevano deciso di considerare come massima autorità dei Palestinesi, nella sua miopia politica e per le sue piccole ambizioni, che ne facevano lo strumento migliore delle mire dell’imperialismo europeo, si era schierato con le forze dell’Asse, risiedendo nel corso della guerra in Italia e in Germania, illudendosi che – proprio le forze che intendevano rilanciare l’imperialismo e lo schiavismo su scala internazionale sulla base di un mitologico sistema razziale – avrebbero favorito, per il loro conclamato antigiudaismo, il sorgere di uno Stato palestinese.

 

Note:

[1] Ilan Pappé, “La pulizia etnica della Palestina” 2008, Fazi editore

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