notiziegeopolitiche.net - 19 marzo 2018 - Durante un suo intervento pubblico a Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha rivolto dure critiche all’ambasciatore statunitense in Israele, David Friedman, arrivando ad apostrofarlo come “figlio di un cane”. Il contesto era la denuncia che il leader palestinese stava muovendo all’amministrazione Usa per la sua politica in Medio Oriente, in particolare per la controversa decisione di dicembre di trasferire la propria rappresentanza diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme, che ha scatenato scontri e proteste nonché ha portato al congelamento delle trattative di pace. Friedman, ebreo ortodosso, si era caratterizzato già durante la campagna elettorale di Donald Trump per il suo carattere impetuoso, aveva dato del “kapò” agli ebrei liberali statunitensi e usato toni accesissimi nei confronti dei palestinesi, e già una volta nominato in febbraio aveva fatto sapere la sua intenzione di volersi stabilire a Gerusalemme e non a Tel Aviv.
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20 mar 2018
La rabbia di Abu Mazen: “Friedman è un figlio di un cane”
Queste le parole rivolte ieri al presidente palestinese all’ambasciatore americano a Tel Aviv David Friedman, un sostenitore del movimento dei coloni israeliani. Non pochi palestinesi però guardano con scetticismo a questo tardivo spirito battagliero di Abu Mazen
Gerusalemme, 20 marzo 2018, Nena News –
“Figlio di un cane” così il presidente palestinese Abu Mazen ieri ha qualificato
l’ambasciatore Usa in Israele, David Friedman, un accanito sostenitore del movimento dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata. “Loro costruiscono sulle loro terre?”, ha chiesto incredulo Abu Mazen ai presenti durante una riunione dei vertici dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) riferendosi a recenti dichiarazioni Friedman secondo il quale i coloni israeliani non violerebbero la legge internazionale e i diritti palestinesi perché vivrebbero “nella loro terra, nella terra di Israele”. “Lui è un colono”, ha esclamato Abu Mazen che qualche settimana fa aveva rivolto un “cattivo augurio” a Donald Trump: “Possa crollare la tua casa”.
Abu Mazen conferma – anche con queste colorite imprecazioni – la posizione di fermezza nei confronti degli Stati Uniti adottata dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele fatto a dicembre da Trump. Alla popolazione palestinese non dispiace questo approccio inedito e più battagliero ma ciò non significa che nei Territori occupati sia in sensibile aumento il gradimento del presidente dell’Anp. Tanti ritengono tardivo il “risveglio” del presidente che per due decenni anni ha insistito sulla possibilità di raggiungere l’indipendenza palestinese grazie proprio alla mediazione degli Stati Uniti. Inoltre l’Anp non ha ancora interrotto la cooperazione di sicurezza con Israele che la popolazione palestinese chiede con forza da anni.
Lo scetticismo perciò prevale e non pochi prevedono che Abu Mazen sarà costretto tra qualche mese a fare una retromarcia sull’esclusione degli Stati Uniti da una ipotetica futura trattativa tra israeliani e palestinesi. D’altronde Abu Mazen rischia di ritrovarsi da solo quando l’Amministrazione Usa presenterà il suo “piano di pace” alla luce delle manovre dietro le quinte di alcuni Paesi arabi del Golfo volte a dare appoggio al progetto di Trump nonostante la netta opposizione dei palestinesi.
Il piano americano, stando alle versioni di esso apparse sulla stampa araba e israeliana, non contempla un appoggio chiaro alla soluzione a Due Stati (Israele e Palestina) che per decenni è stato il principio di tutte le iniziative diplomatiche internazionali e che anche Stati Uniti hanno informalmente sostenuto fino all’ascesa al potere di Trump. E la Casa Bianca dopo aver adottato sanzioni economiche punitive – come il taglio dei fondi Usa per l’agenzia dei profughi Unrwa – ora lascia intendere che la «pace» in Medio Oriente si può fare senza i palestinesi. I segnali inquietanti in quella direzione non mancano.
Qualche giorno fa l’Amministrazione Usa ha convocato una conferenza a Washington su come “aiutare” la Striscia di Gaza alla quale hanno partecipato Israele e i Paesi arabi ma non i palestinesi. Abu Mazen aveva respinto l’invito – ritenendo il meeting un pretesto per promovere il piano americano – ma l’assenza dei rappresentanti palestinesi non è sfociata nell’annullamento dell’incontro che invece si è svolto regolarmente con la partecipazionedei delegati arabi. A questo si aggiungono le voci, credibili, di pressioni saudite sulla presidenza palestinese affinché si dichiari pronta a negoziare le proposte americane. A dare forza a queste indiscrezioni è stato anche il recente incontro al Cairo tra il presidente egiziano Abdel Fattah el Sisi e il potente erede al trono saudita Mohammed bin Salman. I due al termine dei colloqui non hanno emesso alcun comunicato a sostegno di Abu Mazen.
Infine ad aggravare il quadro c’è la paralisi se non proprio la fine del processo di riconciliazione interna, cominciato alla fine della scorsa estate, tra Fatah, il partito guidato da Abu Mazen, e il movimento islamico Hamas che da quasi 11 anni controlla la Striscia di Gaza. Ieri il presidente è tornato ad accusare Hamas di responsabilità nel fallimento della riconciliazione e per l’attentato a Rami Hamdallah, la settimana scorsa a Gaza, da cui il premier dell’Anp è uscito illeso. Abu Mazen ha anche preannunciato che adotterà “nuove misure” nei confronti del movimento islamista e di Gaza che potrebbero però colpire soprattutto la popolazione civile. Per questo i rappresentanti delle maggiori formazioni politiche palestinesi si sono incontrati a Gaza per rinnovare la condanna dell’attentato a Hamdallah e per invitare Abu Mazen a recarsi nella Striscia per far luce in prima persona sull’attentato. Nena News