http://www.middleeasteye.net/ http://nena-news.it/ 12 feb 2018
Sette anni dopo ecco come Facebook blocca la libertà di espressione in Egitto. di Dania Akkad traduzione di Elena Bellini
L’indagine del portale Middle East Eye sul social che più di altri è stato considerato un sostegno alla rivoluzione di piazza Tahrir. Oggi gli attivisti lo denunciano: cancella i nostri profili
Roma, 12 gennaio 2018, Nena News – AGGIORNATO il 30/01/18 –
Il 30 gennaio, Facebook ha risposto alla nostra richiesta di commento e ci ha detto che: Facebook non ha bloccato gli account citati nel nostro articolo perché chiesto dal governo egiziano; la società specifica ciò che è permesso e ciò che non lo è nei suoi Standard della Comunità; lo staff di Facebook ha preso i dovuti provvedimenti nei confronti degli account menzionati nel nostro articolo perché i loro contenuti violavano tali standard; le segnalazioni vengono analizzate da personale madrelingua che conosce il contesto locale per garantire che le politiche aziendali vengano applicate in modo corretto ad ogni situazione; le segnalazioni multiple non portano alla rimozione dei contenuti se non vi è violazione degli standard] Middle East Eye rivela che, sette anni dopo aver contribuito a lanciare le rivoluzioni che portarono alla caduta del leader storico Hosni Mubarak, Facebook sta bloccando l’attivismo egiziano online. La piattaforma social era stata acclamata come elemento cruciale delle rivolte – chiamate anche “Facebook Revolution” – iniziate il 25 gennaio 2011, che hanno portato decine di migliaia di egiziani nelle strade, cambiando la storia del Paese. Ma alcuni attivisti egiziani dell’opposizione, di ogni orientamento politico e ceto sociale, hanno dichiarato a Middle East Eye che l’anno scorso la società ha ripetutamente bannato le loro pagine e chiuso le loro dirette dopo ripetute segnalazioni dei contenuti da parte di troll. Sawsan Gharib è un’agente immobiliare in Texas e portavoce Usa per il movimento egiziano del 6 Aprile, che ha avuto una certa influenza nelle rivolte che hanno portato alla cacciata di Mubarak. “Non posso comunicare con altri attivisti – dice – Non posso comunicare con la gente”. Gharib racconta che la sua pagina personale è stata chiusa più di sei volte, l’anno scorso. Anche una seconda pagina, aperta dopo i problemi con la prima, è stata ripetutamente bannata. E anche Mubasher 6 Aprile o April 6th Direct, una delle pagine Facebook del 6 Aprile attraverso la quale il movimento condivideva notizie, foto e video, è stata rimossa lo scorso luglio. Il movimento, allora, ha aperto un’altra pagina, ma tutti i contenuti postati sulla prima sono andati persi. “Tutto perduto”, dice Gharib. Secondo lei, alcuni troll filogovernativi hanno preso di mira gli attivisti e i movimenti come il suo, perché vogliono metterli a tacere. Lei partecipa regolarmente a programmi televisivi turchi ed egiziani, per parlare contro il governo e a condividere il suo punto di vista in gergo egiziano, attirando circa 7mila followers. “Anche un senzatetto riesce a capirmi”, dice. Gharib è anche una degli amministratori di diverse pagine Facebook del 6 Aprile. Quando viene bannata, non solo resta disconnessa dai suoi amici e dalla sua famiglia, ma è anche tagliata fuori dalla gestione della pagina Facebook del movimento e non riesce ad organizzarsi in modo efficace con gli altri attivisti. I troll “stanno tentando di legarci le mani in modo da impedirci di fare qualsiasi cosa – dice – Ho paura che la prossima volta verrò bannata a vita”. Nonostante i ripetuti tentativi di contattare Facebook, la Sawsan e gli altri attivisti intervistati da MEE non hanno ricevuto altro che una risposta automatica dalla società. Ancora non capiscono per quale motivo i loro post abbiano violato i termini e le condizioni del gigante digitale, né cosa possano fare per evitare che le loro pagine continuino ad essere bannate. Attraverso una compagnia di pubbliche relazioni assunta da Facebook, MEE ha inviato alla società di social media una lista di attivisti le cui pagine sono state bannate (con il consenso di tutti loro) e ha chiesto un commento, ma, fino a questo momento, non abbiamo avuto risposta. Dov‘è che Facebook fallisce Una delle principali ragioni di questi blocchi è una questione di proporzioni. Dal suo lancio, nel febbraio 2004, la piattaforma “The Facebook”, com’era chiamata all’inizio, è cresciuta in modo esponenziale. La società è ben conscia del problema, secondo quanto dichiarato a MME dagli esperti, ma non ha investito abbastanza per garantire una moderazione dei contenuti, soprattutto in lingue diverse dall’inglese, proporzionale alla crescita degli ultimi 14 anni (oltre due milioni di utenti). Le difficoltà per gli attivisti arabi cominciano nel momento in cui Facebook aumenta i propri sforzi, su richiesta dei governi, per chiudere le pagine di “estremisti”, ed è sempre più incline a chiudere le pagine per poter continuare a funzionare in Paesi come Israele e Vietnam. Queste mosse – tra cui la recente decisione di chiudere la pagina del leader ceceno Ramzan Kadyrov – hanno messo Facebook sotto accusa: le sue politiche sarebbero poco chiare e non oggettive. Come hanno scritto Julia Angwin e Hannes Grassegger su Pro Publica, la società potrebbe benissimo star gestendo uno dei progetti di censura meno controllabili e di più vasta portata della storia. Magra consolazione per gli attivisti egiziani, che si stanno rendendo conto che la piattaforma, una volta considerata simbolo della libertà di espressione e loro miglior mezzo di comunicazione, si è trasformata in un campo di battaglia controllato dalla società, in cui loro stanno perdendo. “In Egitto, Facebook è il più importante, se non l’unico, mezzo di comunicazione teoricamente libero dal controllo del governo”, ha dichiarato Mohamed Okda, consulente politico egiziano e commentatore dei media. Okda sostiene di aver iniziato a notare l’aumento del blocco di pagine di attivisti la scorsa primavera e, secondo lui, migliaia di attivisti potrebbero esserne stati vittime. “Trovo spaventoso che Facebook, che dovrebbe servire a farci restare in contatto, stia usando il suo potere monopolistico per zittirci”. ‘Basta dar loro internet’ Molti ritengono che il lancio della pagina Facebook “Kullena Khaled Said” – “Siamo tutti Khaled Said” – sia stato il momento cruciale che ha galvanizzato le successive rivolte. Wael Ghonim, all’epoca direttore marketing di Google a Dubai, ha creato la pagina nel giugno 2010, dopo che la polizia egiziana aveva trascinato il blogger 28enne Khaled Said fuori da un internet café e l’aveva picchiato a morte in strada, di fronte a casa sua e della sua famiglia. Sulla pagina, Ghonim ha scritto: “Oggi hanno ammazzato Khaled. Se non faccio niente per lui, domani toccherà a me”. La pagina ha dato origine a manifestazioni, che a loro volta hanno aperto la strada alla rivolta. E mentre esperti e attivisti iniziavano a chiedersi quale fosse il ruolo delle piattaforme social nelle rivolte regionali, il loro potere come strumenti di mobilitazione era ormai sotto gli occhi di tutti. “Se vuoi liberare una società, basta darle internet,” ha dichiarato Ghonim alla Cnn l’11 febbraio 2011, giorno in cui Mubarak si è dimesso. “Internet ci aiuta a combattere la guerra dei media, che è fondamentalmente una guerra che il governo egiziano, il regime egiziano, ha giocato molto bene nel 1970, 1980 e 1990. Con l‘avvento di internet, non ci sarebbero riusciti”. Per molti egiziani, soprattutto attivisti, Facebook è diventato, e continua ad essere, un mezzo di comunicazione fondamentale, con il 23% di utenti nella regione, come risulta da una ricerca del 2017 della Mohammed Bin Rashid School of Government di Dubai. Le manifestazioni non autorizzate dalla polizia sono state vietate dal novembre del 2013. C’è stato anche un aumento della repressione sui media. Il social network era un luogo in cui gli egiziani potevano fare rete, ottenere informazioni che non potevano trovare altrove, o, nel caso di Bahgat Sabr, riferirle direttamente. ‘Cosa potrebbe fare la democrazia’ Sabr, quasi quotidianamente, fa una trasmissione sulla politica egiziana, in diretta su Facebook dalla sua cucina, o dal suo terrazzo o dalla sua automobile, a New York. Imprenditore nel campo della climatizzazione, questo spavaldo cinquantenne pelato si è creato un bel seguito tra gli spettatori egiziani che amano il suo schietto linguaggio da strada. L’obiettivo della trasmissione, dice, non è specificamente criticare Abdel Fattah al-Sisi, anche se non nasconde il suo disprezzo per il presidente egiziano. Piuttosto, spiega, è “mostrare alla gente ciò che la democrazia potrebbe fare per loro. Ricevo telefonate da egiziani che sostengono al-Sisi e di egiziani che non lo sostengono, e li lascio parlare. Questo è uno dei miei obiettivi: riunire la gente, non solo lottando contro al-Sisi, ma educandola”. Sabr dice di avere circa 60mila spettatori per puntata. Nelle giornate buone, può arrivare a 250mila, sempre che la sua pagina Facebook sia stabile. Negli ultimi anni, racconta, la sua pagina Facebook è stata presa di mira da troll che hanno segnalato il suo profilo, che poi è stato bannato. Più recentemente, le sue dirette sono state ripetutamente bloccate senza preavviso. “A volte mi bloccano un giorno dopo la diretta. Altre volte, aspettano due, tre dirette e poi mi chiudono l’account”. Sabr racconta di essersi recato nella sede Facebook di Manhattan, a Broadway, due volte lo scorso anno, per cercare di avere risposta di persona. La prima volta, dice, si era pure vestito bene per l’occasione. Quando è arrivato e ha spiegato che aveva bisogno di parlare con qualcuno del servizio clienti, gli è stato detto che era tardi. La seconda volta gli hanno dato un iPad perché scrivesse le sue lamentele mentre era in sala d’attesa. Ma prima che potesse finire – ci dice che fa fatica a digitare velocemente – la sessione sul tablet è scaduta. Un impiegato gli ha suggerito di provare a contattare la società dalla propria pagina Facebook. Sabr ha spiegato che la sua pagina era stata bloccata e quindi gli era impossibile. L’impiegato, allora, gli ha detto che sarebbe stato contattato da Facebook. Sta ancora aspettando. Sabr ha tentato varie strategie per aggirare le interruzioni. Ha trasmesso le dirette da pagine di amici, ma anche quelle puntate sono state spesso bloccate. Ha quindi aperto una pagina pubblica, pagando inizialmente 30 dollari di pubblicità, e ha usato la pagina per condividere video dal suo profilo personale chiuso. È riuscito a tenere attivo quell’account, ma non sopporta di dover pagare per qualcosa che crede dovrebbe essere gratis. “È come volersi comprare una macchina e, ogni volta che la si usa, dover pagare di nuovo la fabbrica”, dice. “Ma la macchina è già mia.” ‘Tutto il lavoro si è fermato’ La vita di Ahmed Abdel-Basit Mohamed è stata sconvolta da Facebook tre volte. La prima nel 2015, quando lavorava come assistente di fisica all’Università del Cairo. È stato licenziato perché continuava a postare sulla sua pagina Facebook dopo che l’università gli aveva chiesto di smetterla di pubblicare messaggi critici verso il governo. L’università, all’epoca, ha dichiarato in un comunicato che (Mohamed) aveva provocato violenza e tumulti nel campus, accuse che lui nega. Mohamed ha lasciato l’Egitto e si è trasferito in Qatar, dove ha lavorato all’Università del Qatar. Mentre era a Doha, nel 2016, Mohamed è stato processato in contumacia in Egitto con l’accusa di essere parte della bandita Fratellanza Musulmana e di cospirare per uccidere personale appartenente alla polizia e all’esercito. Amnesty International ha definito il caso un “processo militare palesemente ingiusto”, basato su confessioni estorte sotto tortura. Nel maggio di quell’anno, Mohamed, insieme ad altri sette, è stato condannato a morte. Ha continuato a postare su Facebook. L’Università del Qatar, alla fine, gli ha chiesto di smettere di scrivere di politica sulla sua pagina. “Ho rifiutato – dice – E quindi ho lasciato il Qatar e sono venuto negli Usa”. Mohamed oggi è un insegnante di fisica in una scuola del New Jersey. Facebook, dice, è una parte fondamentale della sua vita personale e di attivista ed è per questo che lo disturba il fatto di essere stato ripetutamente bannato, dopo essere stato preso di mira dai troll negli ultimi mesi. Usa la sua pagina Facebook per raccontare le storie di prigionieri egiziani, in particolare di quelli che sono stati condannati a morte come lui, e per mantenere i contatti con altri attivisti che protestano contro le esecuzioni in Egitto. “Quando mi hanno bannato, per un mese o una settimana, tutto il lavoro si è fermato – dice – Non posso contattare altre persone. Non posso ricevere messaggi da diverse famiglie che hanno figli o parenti in carcere. È davvero brutto per me e per altre famiglie. Confidano molto in me per diffondere il loro dolore e le loro storie tramite la mia pagina Facebook.” A Mohamed è stato anche impedito di condividere regolarmente le proprie opinioni e analisi delle notizie con i suoi 70mila followers. Come l’altro attivista egiziano intervistato da MME, Mohamed dice che Facebook gli ha comunicato il blocco con un messaggio automatico: “Ho ricevuto un messaggio che diceva che ‘avevo scritto qualcosa di sbagliato su qualcuno’ o che ‘avevo violato le regole di Facebook’”. Ma, ricontrollando i suoi post, non è riuscito a trovare niente di quanto descritto, così ha contattato Facebook. “Ho detto: ‘Ecco quello che pubblico. Non ho violato le vostre regole.’ Ma nessuno mi ha risposto.” “Mi sono rifiutato di smettere (di usare Facebook) all’Università del Cairo. Anche quando sono andato in Qatar mi sono rifiutato di chiudere Facebook, quindi mi chiedo: “Perché Facebook mi fa questo?”.
http://nena-news.it/ 13 feb 2018
Seconda parte
Roma, 13 febbraio 2018, Nena News –
Sawsan Gharib, Bahgat Sabr e Ahmed Abdel-Basit Mohamed non sono gli unici egiziani a risentire di questa situazione. Tra gli attivisti intervistati da MME, ci sono: Ahmed Mawlana; Ex membro dell’ala politica di Gabaht Salafya e ingegnere, ha 40mila followers. Nell’ottobre del 2016, ha criticato una lezione sulla cultura islamica tenuta da Abu Ali al-Anbari, un “cervello” dello Stato Islamico ucciso in Siria. Secondo Mawlana, il suo post è diventato virale e quindi è stato rapidamente preso di mira dai troll pro Isis. Nel giro di tre ore, la sua pagina Facebook è stata chiusa. Facebook ha chiesto a Mawlana di inviare il suo documento di identità per verificare il suo profilo, ma poi non ha più risposto né riattivato il profilo. Mawlana ha aperto un secondo profilo con un nuovo indirizzo e-mail, anche questo pesantemente segnalato il giorno stesso e bannato. Facebook ha verificato questo profilo, Mawlana è riuscito a riaprirlo e da allora continua a pubblicare. “Il dipartimento di lingua araba di Facebook è debole. Non sono capaci di dire cosa vada bene e cosa no; qualsiasi segnalazione ricevano, cercano andare sul sicuro e chiudono”. Abdrahman Ezz Akrm Boktor Inondare, attaccare e hackerare gli attivisti online Il potere del social network può aver infastidito Mubarak, che ha bloccato internet pochi giorni prima di cedere il potere nel 2011. Tuttavia, secondo Yannis Theocharis, ricercatore al Mannheim Centre for European Social Research, altri leader hanno osservato e imparato, e così le Primavere arabe hanno spinto i dittatori ad adottare misure repressive più decise. “La grande esplosione c’è stata con la Primavera Araba dalla Tunisia all’Egitto – ha detto Theocharis a MEE – Non che la repressione prima non esistesse, ma non aveva mai raggiunto questa portata”. Oggi, dice, non si può pensare di tagliare completamente internet, visto l’alto livello di interconnessione con l’economia globale, il che costringe i censori a escogitare altri sistemi. La Cina, pioniera nella censura dei social media, ha utilizzato due sistemi ottenendo risultati significativi. Per prima cosa il governo ha assunto agenti per monitorare i social media e scovare gli utenti che cercano di diffondere contenuti a potenziale rivoluzionario. Quindi hanno trovato il modo di togliere loro la possibilità di postare. Il secondo sistema è chiamato “flooding” (inondazione) e prevede che il governo inondi internet di informazioni irrilevanti, come per esempio quanto sia bello il tempo, per distrarre gli utenti. Secondo Theocharis, “lasciano che il dibattito si sviluppi fino a un certo punto. Solo se c’è il rischio di mobilitazione delle persone, allora cercano di soffocarlo”. Nel 2014, il governo egiziano ha cominciato ad arrestare i cittadini in base a ciò che postavano sul social media. Un dipendente di una ong ha raccontato a BuzzFeed che la sua organizzazione è stata coinvolta in diversi casi di utenti portati via da casa dalla polizia “senza prove di quanto era stato pubblicato in rete o senza che questo costituisse reato”. Anche al-Sisi è stato ipercritico contro i social media. Nell’aprile del 2016 ha attaccato gli utenti e i media che avevano accusato le forze di sicurezza egiziane di aver torturato e ucciso Giulio Regeni, il ricercatore italiano ritrovato morto sul ciglio di una strada nel febbraio del 2016. Le loro “chiacchiere incontrollate”, secondo al-Sisi, stavano “per Dio, danneggiando il Paese”. Quello stesso mese, il governo egiziano ha bloccato i servizi Facebook Free Basics dopo che la società aveva rifiutato di dare al governo la possibilità di spiare gli utenti. Oltre agli arresti, alla retorica e agli accessi bloccati, un altro sistema che è stato usato è la chiusura delle pagine Facebook, spiega Ramy Raoof, ricercatore di tecnologia all’Egiptian Initiative for Personal Rights e research fellow al Citizen Lab. “Colpire le pagine Facebook non richiede alcuna tecnologia o strumentazione sofisticata – dice – È molto semplice da fare.” Ci sono tre modi per farlo: inviare a Facebook una richiesta legale; inviare una quantità enorme di segnalazioni negative della pagina; hackerarla. In Egitto, sono le ultime due tecniche che hanno prosperato dal 2014, in particolare dopo che il governo ha esternalizzato attacchi e hackeraggi. “Si tratta, più o meno, di persone che forniscono i loro servizi ad agenzie di Stato per fare cose su cui lo Stato non vuole lasciare impronte”, dice. Alla fine, non importa quanto possa sembrare sofisticato un attacco, c’è sempre un essere umano, dietro. Ma scoprire chi è quell’essere umano può essere estremamente difficile, se non impossibile, e questo è uno dei punti interessanti di questa strategia. “Se qualcuno pensa di essere sotto attacco da parte dell’Isis o del fattorino di Pizza Hut, wow!, si potrebbe avere ragione di crederci – dice – Ma, in fin dei conti, è un’opinione. Non possiamo provarlo”. Il governo egiziano non si è fatto troppi scrupoli a chiudere pagine: nel dicembre del 2016, come riportato dal sito egiziano di notizie Youm7, il generale di brigata Ali Abaza, direttore del Dipartimento del Ministero degli Interni per la lotta alla Criminalità Informatica, ha detto che la sua divisione, nel 2016, ha chiuso 1.045 pagine Facebook che “incitavano alla violenza e all’omicidio di soldati e poliziotti”. “Si sentono molto forti (nel farlo) – dice Raoof riferendosi ai comunicati del Ministero degli Interni degli ultimi due anni – (Dicono) ‘Chiudiamo una pagina (della Fratellanza Musulmana) o una pagina anarchica o qualcuno che dice ‘Fanculo’. Sono molto infantili, si sentono come in Star Wars”. Secondo il rapporto di Facebook sulla trasparenza, tra gennaio e giugno dello scorso anno il governo egiziano ha presentato una richiesta urgente di dati relativamente a due profili. La società riferisce di aver fornito i dati nel 50% di tali richieste. Sottolinea inoltre che il governo ha chiesto alla società di “conservare” i dati relativi a 20 profili, cosa per la quale la società “si impegnerà” ad agire “in concomitanza con le indagini giudiziarie per 90 giorni in attesa di ricevere i procedimenti legali ufficiali.” ‘Facebook è il gigante’ Ci sono, ovviamente, altre piattaforme e mezzi di comunicazione oltre a Facebook. Ma secondo Ellery Biddle, capo di Global Voices’ Advox, network di blogger e attivisti che difendono la libertà di espressione, non sono proprio la stessa cosa. E, soprattutto, spesso non sono sicuri. “Non è che non ci siano altri spazi in cui si possa fare, ma Facebook è il gigante – dice Biddle – Ci fornisce gli strumenti che ci permettono di costruire relazioni e creare fiducia, trovare persone che la pensano come noi, persone con cui abbiamo qualcosa in comune e discutere delle cose in un modo che, nella vita reale, sarebbero rischioso o addirittura impossibile.” La Biddle ha lavorato, di recente, con attiviste femministe in India: hanno lottato per evitare che le loro pagine Facebook venissero chiuse dopo essere state segnalate da “troll folli che volevano davvero chiuderci la bocca”. “Facebook è davvero il loro luogo d’incontro, è lì che fanno il loro lavoro. Tutto comincia su Facebook. Non finisce lì, ma per molte donne che fanno parte del network non è facile fare attivismo IRL (“In Real Life”, nella vita reale)”. E la chiusura delle pagine in rete diventa un problema nella vita reale, dice Theocharis. Casi studio in Cina e Iran hanno dimostrato che la chiusura di pagine online è diventato un serio ostacolo per gli attivisti offline. “Rende davvero molto difficile per la gente continuare perché, se continui, potrebbero non limitarsi a bannarti il profilo.” Se la pagina “We are all Khaled Said” fosse stata lanciata oggi invece che nel 2010, sarebbe riuscita a rimanere su Facebook così a lungo? Nessuno degli attivisti egiziani che hanno parlato con MEE ha ricevuto niente più di una risposta automatica da Facebook quando ha provato a capire perché i post violassero i termini e le condizioni. “Non c’è modo di contattare Facebook – dice Gharib – Questo è il problema. Le ho provate tutte. Ti ignorano. Ogni giorno, presento reclami. Ogni giorno. Loro ti mandano un link agli standard di comunità o un link per mettere il sorrisino o la faccina triste, ma nessuno legge (i miei messaggi)”. Dopo 10 minuti dall’invio di una mail all’ufficio stampa Facebook, MEE ha ricevuto una risposta da un collaboratore di Teneo Blue Rubicon, branca londinese della società di consulenza Teneo, che annovera tra i suoi clienti Coca-Cola e McDonald’s. In una successiva conversazione, ci ha detto che, se avessimo inviato i link ai profili di tutti gli attivisti bannati, Facebook avrebbe controllato cos’era successo e lui ci avrebbe poi potuto dare una risposta. “E l’articolo sarà, forse è difficile saperlo in questo momento, ma sarà critico verso Facebook? – ci ha chiesto – O state solo cercando di sapere essenzialmente cosa sia successo?”. MEE ha inviato una lista degli attivisti e di domande a Facebook il 18 gennaio, ma, fino al momento della pubblicazione, non abbiamo ricevuto risposta. Quindi perché Facebook sta chiudendo queste pagine? La decisione viene presa dal famoso algoritmo di Facebook o da una persona in carne e ossa? E cosa si può fare? I sostenitori della libertà digitale, come gli attivisti egiziani, dicono che sono anni che lottano per avere queste risposte. Lo scorso maggio, Mark Zuckerberg ha rivelato per la prima volta che la società ha 4.500 moderatori di contenuti nel mondo e prevedeva di assumerne altri 3mila. Ma Facebook ha, secondo le stime, due miliardi di utenti, quindi assumere 3mila persone in più vuol dire avere un moderatore per ogni 266.666 utenti, ognuno dei quali può postare diverse volte al giorno, o all’ora. Non sorprende che gli osservatori abbiano messo in dubbio che ci sia un numero sufficiente di moderatori, soprattutto di quelli con un’adeguata conoscenza delle lingue diverse dall’inglese, che possano controllare in modo appropriato la piattaforma in ogni sua sfumatura e sottigliezza. “Sapete quant’è difficile, per persone che hanno grande esperienza e profonda conoscenza, decidere se una singola immagine o affermazione costituisca incitamento all’odio? – dice Biddle – È davvero inquietante pensare che tutto questo processo decisionale avvenga in un batter d’occhio”. Ci sono abbastanza moderatori in carne ed ossa che possano capire, interpretare e giudicare i post in arabo egiziano? “Non credo che abbiano davvero immaginato cosa sarebbe successo quando all’improvviso la gente ha iniziato a postare in così tante lingue – dice Biddle – Non so quante lingue ci siano su Facebook, ma sicuramente sono centinaia, se non migliaia.” Theocharis dice che le società di social media hanno chiaramente sottofinanziato la moderazione dei contenuti, anche se, negli ultimi sei mesi, hanno cercato di assumere più persone. Il punto è, dice, che c’è bisogno di una moderazione ricca di sfumature. “Non è poi così male che la società abbia avuto l’impressione di buttar via i soldi – dice Biddle – Non c‘è molto denaro da fare con l’attivismo. Non si guadagna con la pubblicità… Invece, ci sono contenuti sponsorizzati dai media statali o dalla propaganda.” In dicembre, MEE ha notato, su un sito di assunzioni irlandese, alcuni annunci di lavoro per “analisti politici” con conoscenza della lingua araba per la sede Facebook di Dublino, con stipendio di poco meno di 35.000 sterline all’anno. Tra i compiti previsti, secondo l’annuncio, l’analisi e risoluzione di problemi tra cui le “segnalazioni di contenuti potenzialmente abusivi”. Ma queste nuove assunzioni risolveranno il problema? Secondo Theocharis, anche con nuovi investimenti le società di social media non possono competere con gli ostinati regimi dittatoriali. Il miglior consiglio che darebbe agli attivisti è di organizzarsi usando canali alternativi, non controllabili dai governi. Queste, però, sono parole deprimenti per attivisti come Sawsan Gharib, Bahgat Sabr e Ahmed Abdel-Basit Mohamed, il cui unico scopo è dar voce alle opinioni che non trovano ascolto altrove e creare online quella fiducia che non è più possibile trovare nel mondo reale. Invece oggi condividono le storie dei loro bannaggi sui social, proprio come una volta condividevano i loro progetti di protesta.
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