New York Times http://nena-news.it/ 31 gen 2018
Di come Arafat riuscì ad eludere la “macchina omicidi” di Israele. Prima Parte di Ronen Bergman
Le forze di sicurezza nazionale hanno tentato per anni di uccidere il leader dell’Olp. Ora, ex agenti raccontano la storia di come hanno fallito. Dalla Seconda Guerra mondiale, Israele ha utilizzato l’assassinio e l’omicidio mirato più di ogni altro Paese occidentale, in molti casi mettendo a rischio la vita di civili
Roma, 31 gennaio 2018, Nena News –
Il radar del F15 captò il segnale dell’aereo di linea, un DHC-5 Buffalo, 370 miglia (600 km.) all’interno dello spazio aereo mediterraneo. Il pilota si mise in contatto radio. “Abbiamo il permesso di attaccare?” Era il pomeriggio del 23 ottobre 1982. In centro a Tel Aviv, nel profondo sottosuolo, all’interno del principale bunker di comando e controllo dell’aviazione israeliana, nome in codice Canary, la domanda del pilota risuonò dall’altoparlante. Tutti gli occhi erano puntati sul comandante. Tutti aspettavano l’ordine di aprire il fuoco, ma il comandante in capo dell’aeronautica militare, Maggiore David Ivry, solitamente un uomo risoluto, esitava. Sapeva che i suoi caccia avevano tutto ciò che dovevano avere: positiva l’identificazione visiva, campo libero in cielo aperto su un oceano sgombro. Il via libera all’abbattimento dell’aereo e del suo passeggero era arrivato dal Ministro della Difesa, Ariel Sharon. Il loro compito, il compito di Ivry, era eliminare obiettivi, non selezionarli. Ma Ivry venne sopraffatto dai dubbi. ”Negativo”, rispose al pilota “Ripeto: negativo, non aprite il fuoco”. L’operazione militare – l’assassinio mirato di Yasser Arafat, presidente dell’OLP e nemico dello Stato di Israele – era stata avviata dal Mossad il giorno prima. La Tzomet, unità del Mossad responsabile del reclutamento e della gestione delle risorse all’estero, aveva ricevuto da due informatori interni all’OLP un rapporto secondo cui Arafat sarebbe decollato da Atene il giorno seguente, su un volo privato diretto al Cairo. Caesarea, l’unità del Mossad che gestiva gli omicidi mirati, inviò immediatamente due agenti a raccogliere più informazioni. Avvantaggiati dalla scarsa sicurezza dell’aeroporto di Atene, questi attesero Arafat nell’area di sosta degli aerei privati. Sharon, nel frattempo, aveva mantenuto costantemente sotto pressione il Tenente Generale Rafael Eitan, capo di stato maggiore delle Forze Armate israeliane, affinché l’operazione procedesse. L’aviazione militare mise in allerta due F-15 per il decollo immediato dalla base di Tel Nof. Ivry, sempre prudente, informò personalmente il capo pilota. Aveva capito la posta in gioco. Gli era chiaro quanto sarebbe stato disastroso se Israele avesse abbattuto l’aereo sbagliato. “Non aprite il fuoco senza il mio ok – disse al pilota – Chiaro? Anche in caso di problemi di comunicazione, se non sentite il mio ordine – sottolineò questa frase: sentire il mio ordine – non aprite il fuoco”. Alle 14.05 del 23 ottobre, uno degli agenti di Caesarea ad Atene chiamò il quartier generale del Mossad. “È qui – disse – Identità confermata”. La sua eccitazione era palpabile. Disse che aveva visto il leader dell’OLP e i suoi uomini fare gli ultimi preparativi per imbarcarsi su un DHC-5 Buffalo con la coda dipinta di blu con disegni marroni e numero di matricola 1169. Il Mossad passò la conferma a Canary. A Ivry, tuttavia, qualcosa non tornava. “Non conoscevo tutta la vicenda” mi disse anni dopo, seduto nella sua suite manageriale con vista su Tel Aviv, dove oggi lavora come presidente di Boeing Israel. “Non mi era chiaro perché Arafat avrebbe dovuto volare al Cairo. Secondo l’intelligence, non aveva motivo di andare lì, in quel momento. E, se ci stava andando, perché usare quel genere di volo di linea? Non era decoroso per un uomo del suo status. Chiesi al Mossad di verificare che fosse proprio lui”. I due agenti di Caesarea ribadirono che era proprio Arafat. “L’obiettivo si è fatto crescere una lunga barba per confonderci”, dissero. Il Mossad riconfermò l’identificazione. Alle 16.30, gli agenti comunicarono che l’aereo era decollato. Ivry ricevette l’ordine ufficiale, al telefono, da Eitan: “Abbattetelo”. Ivry disse ai piloti dei caccia di decollare. Non ci sarebbe voluto molto per intercettare il lento volo civile. Mentre i caccia si avvicinavano, Ivry ancora nutriva dubbi. Disse al suo assistente di contattare di nuovo il Mossad e chiedere che fornissero un’ulteriore conferma che l’uomo sull’aereo fosse proprio Arafat, e non magari qualcuno che gli assomigliava. Ivry raramente lasciava trapelare le emozioni. “Ma si vedeva che era preoccupato” ha detto uno dei suoi sottoposti, presente in quel momento. Ivry aveva bisogno di prendere tempo. Sapeva anche che capitava che i piloti fossero impazienti, che a volte trovavano una scusa per sparare a un bersaglio, per esempio interpretando il fruscio di un’interferenza radio come ordine di aprire il fuoco. “Non aprite il fuoco” ripeté ai suoi piloti. “Se non c‘è contatto radio, non sparate”. Eitan continuò a chiamare per capire cosa stesse succedendo e se il suo ordine di abbattere l’aereo fosse stato eseguito. Anche se gli agenti di Caesarea avevano confermato e riconfermato che quello era Arafat, Ivry dette sempre la stessa risposta: “Raful” disse, usando il soprannome di Eitan, “non abbiamo ancora avuto la conferma definitiva che sia lui.” Separatamente, Ivry disse al Direttorato dell’Intelligence Militare (conosciuto con l’acronimo AMAN) e al Mossad che l’identificazione visiva era insufficiente e che aveva richiesto un altro controllo incrociato che Arafat fosse su quell’aereo. Stava succedendo questo, quando i piloti intercettarono il segnale e chiesero l’autorizzazione ad attaccare. Ivry non poteva temporeggiare oltre. Gli era stato dato un ordine diretto. Se non avesse fatto abbattere l’aereo velocemente, avrebbe dovuto spiegarne il motivo a Eitan e Sharon. La tensione aumentava. I minuti passavano. A quel punto, cinque minuti prima delle 17, 25 minuti dopo che i caccia erano decollati, squillò un telefono a Canary. Era la linea sicura che connetteva direttamente al quartier generale del Mossad. “Sono sorti dei dubbi”, disse la voce al telefono, imbarazzata. Il Mossad aveva altre fonti che sostenevano che Arafat non era neanche lontanamente in Grecia, e che l’uomo sull’aereo non poteva assolutamente essere lui. In assenza di un nuovo ordine, i due caccia continuarono a seguire il Buffalo. Ivry ripeté i suoi ordini. “Siamo in attesa di maggiori informazioni. Tenete d’occhio l’obiettivo e aspettate’. Alle 17.23, arrivò un’altra informativa a Canary. Alcune fonti del Mossad e di AMAN dicevano che l’uomo a bordo dell’aereo era Fathi Arafat, il fratello minore di Yasser, a lui somigliante, pediatra e fondatore della Mezzaluna Rossa palestinese. Con lui c’erano 30 bambini palestinesi feriti, sopravvissuti al massacro che la Falange cristiano-maronita libanese aveva perpetrato nei campi profughi di Sabra e Shatila, a Beirut, un mese prima. Fathi Arafat li stava accompagnando al Cairo per le cure mediche. Ivry tirò un sospiro di sollievo. “Inversione di rotta – ordinò al pilota – Rientrate alla base”. La scelta davanti alla quale si trovò Ivry quel giorno dell’ottobre 1982 è solo un esempio del dilemma affrontato da molte autorità israeliane nel corso della breve storia del Paese, il violento e a volte inconciliabile scontro tra i principi fondamentali della democrazia e l’impulso di una nazione all’autodifesa. Come giornalista in Israele, ho intervistato centinaia di persone dell’intelligence e della Difesa e ho analizzato migliaia di documenti segreti che rivelano una storia nascosta, sorprendente anche considerando la reputazione già feroce di Israele. Molte delle persone con cui ho parlato, spiegando perché hanno fatto quel che hanno fatto, si limitavano a citare il versetto del Talmud babilonese: “Se qualcuno vuole ucciderti, alzati e uccidilo prima tu.”. Nel mio lavoro, ho scoperto che, dalla Seconda Guerra mondiale, Israele ha utilizzato l’assassinio e l’omicidio mirato più di ogni altro Paese occidentale, in molti casi mettendo a rischio la vita di civili. Ma ho anche scoperto una lunga storia di profondi – e spesso rancorosi – dibattiti interni su come lo Stato debba essere preservato. Una nazione può usare metodi terroristici? Può colpire civili innocenti nel farlo? Qual è il prezzo? Dov’è il limite? Sempre più spesso la gente vuole parlare. È stato durante la conversazione del 2011 con un ufficiale superiore in un caffè di Tel Aviv nord che, per la prima volta, ho sentito di come Sharon, nel 1982, avesse ordinato l’abbattimento di un aereo civile che trasportava Arafat. Mi descrisse tutto nel dettaglio, ma mise una condizione imprescindibile per la pubblicazione della storia: un’altra persona avrebbe dovuto raccontare la stessa storia e registrarla. Solo così avrei potuto pubblicarla. Andai a trovare quella persona, sapendo quanto sarebbe stato difficile farla parlare dell’episodio. La presi alla larga fino ad arrivare al punto. L’uomo mi fissò con il suo sguardo glaciale, ma poi gli si dipinse sulla faccia un’espressione più mite, vagamente triste. “Sono più di 30 anni – disse – che aspetto che qualcuno venga a chiedermi di questa storia.” Nessun obiettivo ha frustrato, tormentato e afflitto l’apparato israeliano per gli omicidi più di Yasser Arafat, il leader carismatico dell’OLP morto nel 2004. A volte è semplicemente scappato, altre volte la missione è stata annullata dagli agenti ad essa preposti perché non si riusciva ad avere conferma dell’obiettivo o perché il prezzo in vite civili era considerato troppo alto. Più di una volta, il desiderio di uccidere Arafat mise Israele al centro del dibattito che continua ancora oggi su cosa una nazione possa o non possa fare per sopravvivere. Negli anni successivi alla fondazione di Fatah, embrione dell’OLP, fondata da Arafat nel 1959, il Mossad liquidò lui e i suoi amici come studiosi e intellettuali. Nel 1965, quando già Fatah stava compiendo le prime azioni di guerriglia e terrorismo contro Israele, Rafi Eitan, il capo delle operazioni del Mossad in Europa (nessuna parentela con Raful Eitan, generale dell’esercito israeliano), chiese al direttore del Mossad, Meir Amit, di ordinare a Caesarea di fare irruzione in un appartamento che Arafat stava utilizzando come base a Francoforte e ucciderlo. “Possiamo riuscirci facilmente – scrisse ad Amit – Abbiamo accesso all’obiettivo, e questa è un’opportunità che potrebbe non ripresentarsi”. Secondo Eitan, Amit rifiutò di dare il via libera. Considerava il gruppo come una semplice banda di giovani delinquenti.“Purtroppo non mi diedero ascolto”, mi disse Eitan decenni dopo. “Avremmo potuto risparmiarci un sacco di fatica, mal di testa e dispiaceri.” Alla fine, comunque, prevalse l’orientamento di Eitan. La convinzione che uccidere il leader dell’OLP avrebbe risolto l’intera questione palestinese sarebbe stata la posizione dominante nell’intelligence israeliana per molti anni a venire. “Israele deve colpire al cuore le organizzazioni terroriste” scrisse nel suo diario Yehuda Arbel, comandante dello Shin Bet a Gerusalemme e Cisgiordania alla fine degli anni ‘60. “L’eliminazione di Abu Ammar – Arafat – è il requisito indispensabile per trovare una soluzione alla questione palestinese.” E questo è esattamente ciò che Israele tentò di fare, per diverse volte. A volte il tentativo comportò azioni militari dirette. Subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, Arafat lanciò una serie di azioni di guerrilla da Gerusalemme Est alla Cisgiordania. In base a una soffiata, l’esercito israeliano assaltò la casa in cui faceva base Arafat, troppo tardi. Trovarono sulla tavola il cibo ancora caldo. Alcuni piani erano più elaborati. Ispirandosi al film “Va’ e uccidi”, gli israeliani passarono tre mesi, nel 1968, a cercare di trasformare un prigioniero palestinese in un sicario. Cinque ore prima di essere rilasciato perché portasse a termine la sua missione, questi si consegnò alla polizia, consegnò la pistola e spiegò che l’intelligence israeliana aveva tentato di fargli il lavaggio del cervello per fargli uccidere Arafat. Oltre ad assicurarsi l’adorazione del suo popolo, Arafat iniziò anche a farsi amicizie importanti all’estero. Il leader della Germania Est, Eric Honecker, lo considerava un vero rivoluzionario, come Fidel Castro, e le sue spie rifornirono i palestinesi di intelligence e armi. Nello stesso tempo, la CIA si era coltivata Arafat con trattative informali, uno sforzo supportato ai massimi livelli. Mentre gli anni ‘70 volgevano al termine, Arafat sembrava intoccabile. Era un capo di Stato de facto, supportato da un ampio consenso. Uccidere alla luce del sole un tale soggetto avrebbe infranto tutte le norme delle relazioni internazionali. Gli israeliani se ne rendevano conto e schiumavano di rabbia. Dal 1979, Israele e l’OLP avevano intrapreso un percorso abitudinario e apparentemente interminabile di attacchi e contrattacchi. A quel punto, un orrendo assassinio innalzò ulteriormente la tensione. Il 22 aprile 1979, un gruppo di terroristi del Fronte di Liberazione della Palestina, gruppo affiliato all’OLP, raggiunsero in gommone la spiaggia di Nahariya, città israeliana a sei miglia a sud del confine con il Libano. Uno dei quattro componenti era Samir Kuntar, allora sedicenne. Dopo aver tentato di fare irruzione in una casa ed essere stati scacciati a colpi d’arma da fuoco, e dopo aver ammazzato un poliziotto che aveva tentato di arrestarli, entrarono in casa di una famiglia e presero in ostaggio Danny Haran e sua figlia Einat, di 4 anni. Li trascinarono in spiaggia, dove erano già dispiegati soldati e polizia, e ci fu uno scontro a fuoco. Kuntar ammazzò Danny sparandogli e poi fracassò il cranio di Einat con il calcio del fucile, uccidendola. La moglie di Danny, Smadar, si era nascosta in cantina con la figlia di due anni, Yael. Smadar tappò con la mano la bocca della bambina per impedirle di gridare e farle scoprire. Nel panico, la soffocò. In seguito alle atrocità di Nahariya, Raful Eitan, generale dell’esercito israeliano, diede al comandante regionale Avigdor Ben-Gal un semplice ordine: “Ammazzateli tutti ”, intendendo tutti i membri dell’OLP e chiunque fosse legato all’organizzazione in Libano. Con la benedizione di Eitan, Ben-Gal nominò a capo della campagna nel sud del Libano quello che considerava il massimo esperto dell’IDF per le operazioni speciali, Meir Dagan. I tre misero insieme il Fronte per la Liberazione del Libano dagli Stranieri. Questa operazione venne svolta quasi interamente senza che il resto dell’esercito, il Ministro della Difesa, le agenzie di intelligence o il governo avessero dato l’autorizzazione o ne fossero a conoscenza. (Non ho parlato con Eitan, che è morto nel 2004, di nessuno di questi episodi). Tra il 1979 e l’inizio del 1983, quando si sciolse, il Fronte uccise centinaia di persone.David Agmon era a capo del personale del Comando Settentrionale dell’IDF, uno dei pochi a conoscenza dell’operazione segreta di Dagan. “L’obiettivo – disse – era seminare il caos tra palestinesi e siriani in Libano, senza lasciare traccia del nostro intervento, per farli sentire costantemente sotto attacco e instillare in loro un senso di insicurezza”. Per farlo, Dagan e i suoi reclutarono alcuni libanesi: drusi, cristiani e musulmani sciiti che ce l’avevano con i palestinesi e li volevano fuori dal Libano. Il 5 agosto 1981, il Primo Ministro Menachem Begin nominò Ariel Sharon Ministro della Difesa di Israele. Begin, eroe del movimento clandestino nell’epoca precedente alla nascita di Israele, aveva una profonda ammirazione per l’ex generale – “glorioso comandante degli eserciti”, lo chiamava – ma era alquanto preoccupato per la riluttanza di Sharon ad accettare l’autorità dei superiori. “Sharon è capace di attaccare la Knesset con i carri armati”, aveva scherzato uno dei deputati di Begin due anni prima. L’Operazione Olimpia prevedeva che gli agenti israeliani piazzassero un’enorme quantità di bombe sotto il palco VIP in allestimento in uno stadio di Beirut in cui, il 1 gennaio 1982, l’OLP avrebbe celebrato l’anniversario della sua prima operazione contro Israele. Premendo un bottone, sarebbero riusciti a far fuori l’intera leadership palestinese. Era tutto pronto, comprese le potenti cariche esplosive nascoste sotto il palco e tre autobombe che sarebbero state parcheggiate nelle vie adiacenti lo stadio; avrebbero dovuto saltare in aria circa un minuto dopo le esplosioni sul palco, quando il panico sarebbe stato al massimo e i sopravvissuti alla prima esplosione avrebbero tentato di abbandonare la scena. Ci si aspettava un livello di morte e devastazione “di dimensioni mai viste, anche per il Libano” dichiarò un alto ufficiale del Comando Settentrionale. Ma un gruppo di funzionari del’AMAN, preoccupati, insieme al viceministro della Difesa, andarono a chiedere a Begin di ordinare a Dagan di annullare l’operazione. Un agente ricorda di aver detto a Begin: “Non puoi far fuori un intero stadio. Tutto il mondo ce l’avrà con noi”. Begin fermò l’operazione. (continua)
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