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Dal 1979, l’Iran difende la causa palestinese Prof. Tim Anderson Traduzione di Alessandro Lattanzio
Nonostante decenni di brutali assalti, la resistenza palestinese all’apartheid d’Israele non è scomparsa. In effetti, nel pieno di una situazione apparentemente disperata, ci sono alcuni raggi di speranza. Uno di questi è Gaza. Nel 2005 lo Stato sionista smantellò le colonie e si ritirò dalla striscia di Gaza. Ariel Sharon, brutale capo sionista che aveva ripetutamente attaccato Gaza, disse che la ragione del ritiro israeliano era “garantire ai cittadini israeliani la massima sicurezza”. La ragione di fondo fu l’incessante resistenza del popolo coraggioso di Gaza, sin dalla fine degli anni ’40. Dal 2005 l’affollato territorio palestinese è stato oggetto di un blocco simile a una prigione e a ripetuti assalti punitivi. Lo Stato dell’apartheid, in diverse operazioni, massacrò migliaia di persone. Ma il ritiro da Gaza segnò il limite del piano di pulizia etnica del “Grande Israele”. L’anno seguente, incoraggiato dall’imponente piano di Washington del “Nuovo Medio Oriente”, Israele invase di nuovo il sud del Libano, tentando di disarmare il partito sciita Hezbollah, creato proprio a causa delle precedenti invasioni israeliane. Anche se le forze sioniste uccisero molti, subirono anche gravi perdite e furono costrette a ritirarsi, non riuscendo a raggiungere alcun obiettivo. Quindi, la sconfitta dell’invasione del 2006 fu un secondo raggio di speranza, imponendo un altro limite all’espansione sionista. Nel decennio successivo, sebbene alcuni territori libanesi siano ancora annessi, Tel Aviv diffidò dell’avventurismo al confine col Libano. A differenza di molti sostenitori occidentali d’Israele, i capi militari dello Stato sionista ascoltano e, a loro modo, rispettano il Segretario Generale di Hezbollah, Sayad Hasan Nasrallah, e sanno anche che Hezbollah è ora meglio preparato ed armato rispetto al 2006. Se non fosse per Hezbollah, il Libano del Sud sarebbe probabilmente entrato con Cisgiordania e alture del Golan come altro territorio occupato. Non vanno ignorati questi risultati. Il leader iraniano Ayatollah Khamenei osservava che, dagli anni ’80, “il regime sionista non ha potuto aggredire nuove terre, ed ha anche iniziato a ritirarsi”. La resistenza palestinese ha svolto il “ruolo maggiore e decisivo” in ciò, dice l’ayatollah Khamenei. Il ruolo dell’Iran nel guidare l’alleanza regionale che sostiene realmente la resistenza palestinese è il terzo raggio di speranza per il futuro della Palestina. L’ascesa dell’Iran e le vittorie in Siria e Iraq contro i fantocci-terroristi di NATO-Arabia Saudita hanno rafforzato questa alleanza. I capi israeliani temono la sconfitta di SIIL, al-Nusra e altri gruppi settari, per mano delle forze siriano-iracheno-iraniane. Sanno che ciò porterà a una potente coalizione guidata dall’Iran al confine tra Palestina occupata e Siria occupata. Temono, in particolare, la liberazione delle alture del Golan occupate, un’operazione per la quale Siria ed alleati avranno il pieno appoggio del diritto internazionale.
Dopo la resistenza palestinese, fu la Repubblica islamica dell’Iran a guidare la lenta ma costante ondata contro lo Stato razzista. Lo studioso sunnita libanese, sceicco Ahmad al-Zayn, osserva che fu il leader iraniano Imam Khomeini che spostò l’attenzione sulla Palestina, non per odio dell’ebraismo, ma per salvaguardare dignità umana e giustizia, e rifiutare aggressione, razzismo ed estremismo’. Dal 1979, la Repubblica Islamica ha costantemente elevato e difeso la causa dell’autodeterminazione palestinese. La grande nazione ha finanziato le famiglie palestinesi dei combattenti della resistenza caduti, dopo che le loro case furono demolite nelle violente punizioni collettive d’Israele. Ha sostenuto con addestramento e armi quasi tutte le milizie palestinesi che resistono allo Stato dell’apartheid; includendo anche gruppi legati alla Fratellanza musulmana anti-sciita. Non si tratta di “mezzaluna sciita”, poiché i palestinesi sono soprattutto sunniti. Alcuni palestinesi furono reclutati dai piani settari incoraggiati da Washington, Riyadh e Tel Aviv. Tuttavia, il piccolo gruppo di capi palestinesi ingannati prendendo soldi da Qatar e Arabia Sauditi per unirsi alla guerra contro la Siria, ora è in disgrazia o si rivolge all’Iran. L'”Asse della resistenza”, alleanza dell’Asia occidentale, riunisce Resistenza palestinese, Iran, Siria e Hezbollah, principale vera opposizione allo Stato dell’apartheid. È ciò che Israele teme. Quando questa alleanza sarà ben consolidata, sarà una forza in grado di costringere Tel Aviv ai negoziati. Washington e Tel Aviv lo sanno; è per questo che persistono nei tentativi di dividere e destabilizzare la regione. Ci sono numerosi opportunisti che sostengono di supportare il popolo palestinese, ma si oppongono ai loro alleati. Criticano Israele, apparentemente in nome di uno Stato d’apartheid più bello e gentile. Fingono di sostenere i palestinesi, ma solo se vittime passive. Gli negano il diritto di resistere; e attaccano ferocemente Iran, Hezbollah e Siria. Molti di noi sono arrivati a definire la versione occidentale di costoro “sionisti di sinistra”. Tali “sionisti di sinistra” hanno spacciato i loro marci miti sulla resistenza. Ad esempio, durante gli attacchi sionisti a Gaza cercarono di equiparare crimini israeliani e presunti attacchi indiscriminati coi razzi palestinesi su Israele. In effetti, sappiamo da prove indipendenti (ONU ed Israele stessa, contro il proprio interesse) che, nell’assalto a Gaza del 2014, oltre il 75% dei 1088 palestinesi uccisi erano civili; mentre solo il 6% dei 51 morti nei territori occupati erano civili. Non esiste un’equivalenza morale, per carattere e “danni collaterali”, tra pulizia etnica ed assalti punitivi dello Stato sionista e resistenza del popolo palestinese. La chiarezza morale su tale questione va ripetuta.
L’alleanza regionale a sostegno della resistenza palestinese è un fattore cruciale per il futuro della nazione; l’altro è l’unità del popolo palestinese. In questo senso, i colloqui per l’unità tra le diverse fazioni sono cruciali. È risaputo dai sondaggi che i palestinesi hanno scarsa fiducia nelle fazioni e nei loro leader, ma continuano ad esprimere forte sostegno alle loro istituzioni nazionali. Le divisioni alimentano un morale basso. Il leader dell’Iran, l’Ayatollah Khamenei, afferma che le differenze tra i gruppi erano “naturali e comprensibili”, ma che “era necessario aumentarne cooperazione e profondità“. Una maggiore unità rafforzerà la fiducia popolare, favorirà la concentrazione e l’organizzazione e consentirà nuovi passi avanti. Il futuro della Palestina è offuscato da divisioni, grandi dolori, sacrifici e paura dei formidabili nemici. Tuttavia, è tutt’altro che disperato. Ci sono stati reali progressi negli ultimi anni. La Resistenza ha imposto dei limiti all’espansione del piano coloniale, a nord e a sud. I tentativi di distruggere e dividere l”Asse della Resistenza’ sono falliti e ci sono segni di un’Alleanza dell’Asia Occidentale emergente e rafforzata. Infine, i colloqui per l’unità tra le fazioni palestinesi potrebbero infondere nuova volontà a un popolo malconcio ma coraggioso e resiliente.
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