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9 Apr 2018

 

Striscia di Gaza: Hamas, Israele e i palestinesi

di Azzurra Meringolo

caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report

 

“Lasciate a case le armi. Portate in strada mogli e bambini.” A parlare così alla popolazione della Striscia di Gaza è Ahmed Youssef, il pupillo di Sheikh Yassine, il fondatore di Hamas. Dopo un peregrinare durato anni in giro per il mondo, dal 2005 è tornato nella Striscia di Gaza, dove fa parte della leadership del movimento islamista. Lo scorso anno ha contribuito alle modifiche apportate alla carta fondativa. L’aspetto che più ha fatto notizia è stato l’addio del movimento all’antisemitismo, un gesto che non ha però condotto al riconoscimento di Israele. Innovativa anche l’apertura sulla possibilità della nascita di uno Stato palestinese all’interno dei confini successivi alla guerra del 1967 e non al conflitto del 1948. Ora, a un anno di distanza, le modifiche sembrano continuare, passando dalla teoria alla pratica. Osservando gli eventi degli ultimi dieci giorni lungo il confine tra Gaza e Israele, non solo Hamas ma anche diversi analisti hanno parlato di un cambio di strategia, riguardante proprio la battaglia sul terreno. Le parole di Youssef sono diventate quindi uno slogan, comprato in fretta da giornalisti, analisti e parte della comunità internazionale. Slogan a parte, il nuovo atteggiamento di Hamas va analizzato in modo più approfondito.

 

Il pragmatismo di Hamas
Anche se Ahmed Youssef tende a presentarsi come un riformista, è più accurato definirlo un leader pragmatico che, mentre spiega il cambio di strategia in corso all’interno del suo movimento, non ricorda – probabilmente di proposito – dettagli importanti. Per esempio che cambiare tattica è stata una mossa obbligata, dopo che Israele ha messo in uso l’Iron Dome – con il quale intercetta i razzi provenienti dalla Striscia – e ha iniziato a distruggere i tunnel sotterranei alla Striscia, all’interno dei quali Hamas organizzava le sue attività. Negli ultimi anni insomma, Israele ha neutralizzato quasi tutti gli strumenti attraverso i quali gli islamisti cercavano di portare avanti la sua lotta armata.

Voltare pagina è stato quindi necessario per tentare di incassare almeno qualche risultato, magari non politico, ma interno. Attualmente infatti Hamas sta cercando contemporaneamente di guadagnare sostegno interno, recuperando terreno sull’Autorità Palestinese nelle mani dell’anziano e malato Abu Mazen. Per vincere le elezioni del 2006, Hamas aveva puntato sullo slogan “l’Islam è la soluzione”. Ma dopo oltre 10 anni di dirigenza islamista, i cittadini della Striscia non ci credono più. L’assedio – non solo dal lato israeliano, ma anche da quello egiziano – ha deteriorato la situazione socio-economica di questo fazzoletto di terra, che vive con l’elettricità a ore alterne e l’acqua contaminata. Il tutto in uno stato di totale dipendenza dai convogli umanitari che riescono ad entrare solo quando uno dei due vicini apre i check point. La disoccupazione alle stelle ha poi fatto montare il malcontento.

 

Abu Mazen congela i tagli su Gaza
Tra gli insuccessi, anche i falliti tentativi di riconciliazione con Fatah. Come ha mostrato lo sventato attentato al premier Rami Hamdallah, il 13 marzo, durante la sua visita lampo a Gaza, ogni tentativo di ricompattamento dei fronti è naufragato. Pertanto l’Autorità palestinese non è riuscita a prendere il controllo delle frontiere della Striscia come si era deciso lo scorso anno. In ritorsione, lo scorso mese Abu Mazen aveva annunciato un importante taglio ai fondi allocati nella Striscia. Ogni mese, l’Autorità palestinese sborsa circa 100 milioni di dollari per i servizi dell’enclave (salari dei dipendenti pubblici, sanità, acqua ed elettricità).

 

Fino ad ora, queste minacce sono rimaste tali. Ed è forse questo il primo – e fino ad ora l’unico – risultato del cambio di strategia attuato da Hamas, che organizzando manifestazioni di strada che non si vedevano dagli anni della seconda Intifadah ha spaventato Abu Mazen. Seguendo gli eventi dalla Muqata, il presidente deve aver temuto gli effetti dell’applicazione di misure di austerity su Gaza. E non solo per l’attenzione internazionale che la Striscia sta ricevendo in queste ore, ma anche perché per i palestinesi la Striscia è il magazzino della resistenza, se non addirittura l’unico pezzo di terra che la sta portando avanti. Secondo alcuni collaboratori del presidente, Abu Mazen teme poi un contagio, che potrebbe portare a manifestazioni contro di lui nella Striscia.

 

Dubbi
La resistenza non violenta è ritenuta una tattica moralmente superiore alla guerra armata, ma la sua applicazione sulla Striscia di Gaza solleva dubbi. Ci sono voci – smentite dagli attivisti, ma confermate dal portavoce del movimento islamista- che parlano di soldi arrivati direttamente nelle mani delle famiglie dei morti e dei feriti degli ultimi scontri. Hamas darebbe 3000 dollari alle prime e 500 ai secondi. E vi è il sospetto che gli islamisti spingano i giovani al fronte, facendogli appositamente rischiare la vita. Questo, se estremizzato, potrebbe portare al ritorno dei kamikaze.

 

Per ora questi sono solo dubbi. E difficilmente si chiariranno in fretta. Non solo perché a Gaza ci sono pochissimi giornalisti, ma anche perché la comunità internazionale non riesce a fare luce sugli eventi. Già due volte infatti è stata bloccata la proposta di una risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzi lo svolgimento di un’inchiesta sui fatti.

 

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