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16 maggio 2018

 

Medio Oriente, il controllo della violenza di Hamas e le prossime mosse di Israele nella trappola di Gaza

L'analisi di Fabio Scuto

 

La leadership dell'organizzazione guidata da Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh ha il pieno comando su ciò che accade, specie nella gestione delle manifestazioni. Netanyahu, dal canto suo, non ha una vera politica per affrontare i problemi dall’altro lato della barriera di sicurezza. E la situazione economica e sociale rimane drammatica per i palestinesi

 

Nessuno sa esattamente cos’è accaduto fra Hamas e Israele la notte fra lunedì e martedì scorso. È noto che in quelle ore Hamas ha inviato a Israele una serie di messaggi – attraverso l’intelligence egiziana e anche intermediari del Qatar – che indicavano il suo desiderio di contenere il livello di violenza, che il giorno prima aveva provocato 60 morti e 2.700 feriti nelle proteste lungo la Barriera. Israele ha risposto con passi propri. Il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha approvato una direttiva per chiedere all’Esercito israeliano di riaprire il passaggio di confine di Kerem Shalom tra Israele e Gaza per il passaggio delle merci, nonostante i pesanti danni provocati alla parte palestinesedurante gli ultimi due week end di proteste. Nello stesso tempo l’Egitto ha approvato il trasferimento dei manifestantigravemente feriti attraverso il valico di frontiera con Gaza a Rafahper ricevere assistenza medica negli ospedali egiziani. Sembrano passi coordinati, in uno sforzo congiunto, per calmare la situazione lungo i confini la Striscia.

La “svolta” di Hamas dimostra ciò che è apparso chiaro nel corso delle ultime sette settimane: la leadership dell’organizzazione guidata da Yahya Sinwar e Ismail Haniyeh ha il pieno controllo su ciò che accade a Gaza. Ha incoraggiato le masse a raggiungere la Barriera di confine e sta gestendo l’intensità della violenza nelle manifestazioni. È la leadership di Hamas che ha deciso di astenersi dal lanciare missili contro Israele, nonostante i numerosi morti, anche nelle precedenti settimane. Questa leadership ha dimostrato a Israele cosa è in grado di fare con la folla dei disperati di Gaza, quanta rabbia e violenza può lasciare dilagare. Con devastanti effetti, anche per Israele. Se l’asimmetria dello scontro mette da un lato un esercito moderno, sofisticato e ben armato come l’Idf e dall’altro masse di civili disarmate con aquiloni e pietre, la débâcle mediatica e diplomatica è certa. Come la dura reazione dell’Onu e della comunità internazionale.

Adesso è difficile accettare la spiegazione dell’intelligence fornita dall’esercito israeliano e dal servizio di sicurezza Shin Bet negli ultimi tre anni. Ogni volta che i missili venivano lanciati da Gaza, Hamas era in difficoltà nel reprimere i gruppi salafiti più piccoli. È chiaro adesso che Gaza è tranquilla quando questo è ciò che vuole Hamas, e quando ha un interesse nell’altra direzione la violenza aumenta. Il cambio di strategia di Hamas lunedì notte, sembra essere legato in particolare all’elevato numero di morti – quasi 60 vittime lunedì, dopo altre 50 nelle manifestazioni precedenti, oltre a migliaia di feriti. Questi numeri impongono un enorme onere al sistema sanitario di Gaza, sempre condannato a una cronica penuria dei materiali medici, dalla prima assistenza nel pronto soccorso alle protesi per gli amputati.

Ci possono anche essere altre considerazioni. Ieri Israele ha minacciato – attraverso il ministro della Sicurezza Gilad Erdan e anche attraverso l’intelligence egiziana – che se ci sarà un’escalation delle violenze al confine, potrebbero riprendere le “eliminazioni mirate” delle figure di alto livello di Hamas. È il momento per l’organizzazione islamica di una pausa tattica dopo i recenti sviluppi, almeno fino alle prossime manifestazioni già annunciate per venerdì. L’intelligence israeliana ritiene che Hamas non voglia lo scontro. L’ipotesi ragionevole è che i capi dell’organizzazione volessero ripristinare la narrativa della resistenza popolare palestinese contro Israele in occasione della Nakba e, attraverso le uccisioni al confine, spingere lo Stato ebraico ad accettare concessioni sull’economia di Gaza e la libertà di movimento, due condizioni che potrebbero fermare il deterioramento condizioni di vita dentro la Striscia. Hamas sta attraversando un momento difficile nella gestione della Striscia per il suo isolamento diplomatico, i tagli all’assistenza finanziaria da parte dell’Anp di Abu Mazen e degli stati del Golfo.

Dall’altro lato della Barriera di sicurezza, anche se la violenza dovesse scemare, Israele non ha una vera politica per affrontare i problemi della Striscia, oltre che rifiutare fermamente le richieste di Hamas. Non ha programmi che possano aiutare a estrarre Gaza dalla trappola in cui si trova. I professionisti della Difesa, incluso il servizio di sicurezza Shin Bet, condividono la valutazione della terribile situazione dell’economia e delle infrastrutture di Gaza. Ma ci sono serie limitazioni al margine di manovra del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ciascuno dei partiti nella coalizione del suo governo si sta dando da fare per assicurarsi che nessun altro lo scavalchi a destra. Nessuno oggi in Israele vuole passare per una “colomba”. È un’immagine perdente. Anche di fronte alla sua impressionante serie di recenti successi, nemmeno Netanyahu può permettersi di essere considerato troppo morbido con Hamas. In pratica, la trappola resta chiusa. Gli effetti dei tragici fatti di questa settimana si vedranno nei sermoni del venerdì nelle moschee e nelle manifestazioni in Paesi come la Giordania e la Turchia. Il resto dipenderà dalla capacità di Hamas nel continuare a spingere la gente di Gaza verso la Barriera di confine, al prezzo delle loro vita.

 

 

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