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14/03/2018

 

Si realizza, nel 2018, l’incubo che Dwight Eisenhower aveva così descritto nel 1961

di Fulvio Scaglione

 

Anche alla Casa Bianca, l’estinzione del tyrannosaurus Rex Tillerson fa da spartiacque tra due ere. Non che il segretario di Stato, liquidato da Donald Trump con un tweet orgoglioso, abbia mai contato gran che. Negli ultimi tempi, poi, era stato tagliato fuori o quasi da tutti i dossier più importanti, fosse il contrasto con la Corea del Nord o la questione di Gerusalemme, dove a comparire era sempre il vicepresidente Mike Pence. Tillerson, in poche parole, ha influito sulla politica Usa molto più quando è stato presidente e amministratore delegato del gigante petrolifero ExxonMobil che non quando ha cominciato a gironzolare per capitali.

 

Alla fin fine, il tyrannosaurus Rex ha lasciato un segno soprattutto facendosi licenziare. Perché con la sua uscita di scena si completa la conquista della Casa Bianca da parte del potente complesso industrial-militare che, con la sola produzione di armi, vale più del 10% del Prodotto interno lordo degli Usa e che Donald Trump, nella sua prima legge finanziaria, ha gratificato con un bel 10% in più di investimenti. Da ieri, insomma, gli Stati Uniti d’America sono governati da quanto di più simile a una giunta militare le democrazie dell’Occidente abbiano mai visto. Madamine, il catalogo è questo. Il capo dello staff presidenziale è John Kelly. James Mattis è il ministro della Difesa. Joseph Dunford è responsabile degli Stati maggiori riuniti. Tutti e tre sono ex generali dei marine. Herbert Raymond McMaster è il consigliere per la Sicurezza nazionale, ed è un ex generale dell’esercito.

Adesso al posto di Tillerson è arrivato Michel “Mike” Pompeo, l’uomo che Trump pescò dalle file dei Tea party nei primissimi giorni dopo l’elezione per metterlo a dirigere la Cia e che in questo anno e mezzo non è mai stato sfiorato da critiche o invasioni di campo. Anche Pompeo è un uomo dell’establishement con le stellette e della relativa industria. Ingegnere, ha studiato alla prestigiosa Accademia militare di West Point risultando il primo del suo corso. Poi per sei anni ha servito come ufficiale della cavalleria meccanizzata. Una volta congedato ha fondato un’azienda con 400 dipendenti che ha fatto fortuna nel settore aerospaziale. Quindi si è dato alla politica, militando nella destra più a destra del Partito repubblicano. Ha difeso il Patriot Act, la legge che consente di intercettare le comunicazioni tra cittadini americani. Ha osteggiato in ogni modo l’accordo sul nucleare iraniano siglato da Obama nel 2015. Si è opposto alla chiusura di Guantanamo. Ha difeso, definendoli “veri patrioti”, gli agenti Cia accusati di praticare la tortura. Tra quelli c’era anche Gina Haspel, che ora prende il suo posto al vertice della Cia.

Se non somiglia a una junta questa, che cos’altro le somiglia? Si realizza nel 2018, quindi, l’incubo che Dwight Eisenhower, diventato Presidente dopo aver guidato gli eserciti alleati in Europa contro Hitler, aveva così descritto nel 1961, nel suo discorso d’addio:

«… Dobbiamo guardarci le spalle dall’acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro».
 

Non a caso, mentre l’occupazione militare della Casa Bianca progrediva e si perfezionava, sono successe molte cose. Alcune minime: per esempio, dagli uffici governativi non è più uscito un pettegolezzo che fosse uno. Altre più importanti: per esempio, la piega aggressiva della politica estera Usa, in ossequio appunto alle esigenze di quei “poteri” che Eisenhower aveva così ben descritto. Disdetta dell’accordo con l’Iran, minacce alla Corea del Nord, Gerusalemme, aperto impegno militare in Siria, scontro con la Ue sui dazi, braccio di ferro con la Cina. Una politica molto muscolare ma per nulla improvvisata o irrazionale e infatti accompagnata, grazie anche ai massicci investimenti governativi nelle produzioni di quel complesso che comprende aziende del settore militare ma anche civile, da un boom della Borsa con pochi precedenti.
 

A noi, che siamo furbi, non è parso vero dare del fesso a Trump e attribuire ogni svolta clamorosa al suo testosterone impazzito. Ma è chiara la divisione dei compiti. Lui twitta e tiene la scena, i generali dettano la linea per conto dei loro amici industriali. E già si organizzano per rimandarlo alla Casa Bianca, nel 2020, con lo slogan “Manteniamo l’America grande”. Grande al modo in cui la stanno facendo loro.

 

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