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18 Gennaio 2018

 

USA: in Siria per colpire Teheran

di Mario Lombardo

 

Con un discorso tenuto questa settimana all’università di Stanford, in California, il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, ha per la prima volta delineato, in maniera sommaria ma sufficientemente chiara, gli obiettivi principali del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Siria.

 

L’intervento è stato salutato da molti come una doverosa anche se tardiva articolazione delle politiche siriane di un’amministrazione finora quanto meno ambigua sulla crisi nel paese mediorientale.

 

Mentre il riferimento alla lotta ai gruppi terroristi attivi in Siria è stato inevitabile, la presa di posizione di Tillerson è apparsa eccezionale in quanto ha ammesso come il prolungamento dell’impegno del suo paese sia in sostanza da collegare alla necessità di contrastare l’espansione dell’influenza dei rivali strategici degli USA in Medio Oriente.

 

Il numero uno della diplomazia USA ha affermato apertamente che, in Siria, “persistono minacce strategiche contro gli Stati Uniti diverse dallo Stato Islamico” (ISIS), per poi identificare la prima tra di esse, ovvero l’Iran. La Repubblica Islamica, ha spiegato Tillerson, “ha rafforzato in maniera considerevole la propria presenza in Siria tramite l’invio di un contingente dei Guardiani della Rivoluzione, l’appoggio a Hezbollah e l’importazione di forze [addestrate da Teheran] dall’Iraq, dall’Afghanistan, dal Pakistan e da altri paesi”.

 

Tillerson ha poi tratto le proprie conclusioni, chiarendo senza molti equivoci quale sia l’elemento chiave dell’impegno americano in Siria e dell’irriducibile ostilità nei confronti di Teheran. “Grazie al ruolo conquistato in Siria”, cioè, “l’Iran è in una posizione più forte per proseguire con gli attacchi agli interessi degli Stati Uniti e dei nostri alleati nella regione”.

 

La formulazione della strategia siriana da parte del segretario di Stato USA tralascia - com’è ovvio - di spiegare quali siano i presupposti legali che giustifichino la permanenza di soldati americani sul territorio di un paese sovrano e il loro impegno contro la presenza legittima e legalmente ineccepibile di forze iraniane a fianco di quelle di Damasco.

 

A rendere superfluo, dal punto di vista di Washington, qualsiasi interrogativo in proposito è come sempre l’arroganza e il delirio “eccezionalista” dell’imperialismo a stelle e strisce. Quello che occorre rilevare è piuttosto la portata distruttiva della condotta americana per un paese che da sette anni sta pagando un prezzo indicibile alle manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati.

 

La minaccia di un impegno indefinito in Siria, anche quando l’ISIS e le altre forze integraliste, spesso appoggiate proprio da Washington, risultano in ritirata, continua a implicare il totale rifiuto del riconoscimento del contributo della Russia, di Hezbollah e dello stesso Iran alla sconfitta del terrorismo grazie alla stabilizzazione del regime di Assad.

 

A Stanford, quanto meno, Tillerson ha espresso parecchi dubbi sulla riuscita della strategia da lui presentata. Le difficoltà di fronte agli USA sono ben note al dipartimento di Stato e ai vertici militari. La dimostrazione degli ostacoli in Siria e delle conseguenze potenzialmente catastrofiche delle scelte americane è apparsa chiara proprio nei giorni scorsi con l’esplosione di un nuovo fronte dello scontro tra Washington e Ankara.

 

 

Il governo turco di Erdogan ha infatti minacciato un intervento militare oltre il confine meridionale per “soffocare nel sangue” l’esercito curdo che gli Stati Uniti hanno affermato lunedì di volere creare in Siria, ufficialmente per impedire il ritorno dell’ISIS. Forse proprio in risposta agli avvertimenti della Turchia, mercoledì Tillerson ha provato a ridimensionare l’annuncio sulla milizia curda, definendo “inesatto” il concetto di “esercito di confine”, di cui dovrebbero far parte 30 mila uomini.

 

Tra gli obiettivi proclamati da Tillerson per la Siria c’è infine sempre la rimozione di Assad, anche se ciò richiederà “pazienza”, visti gli scenari odierni. A questo scopo, Washington afferma di sostenere il moribondo processo di pace di Ginevra sotto l’egida dell’ONU, a garanzia del quale, ancora una volta, il segretario di Stato assicura sia necessaria la permanenza di soldati USA in Siria.

 

In definitiva, gli Stati Uniti rischiano di invischiarsi in una situazione senza uscita, mettendosi contro non solo i governi di Siria, Russia e Iran, ma anche alleati come la Turchia, con il risultato che la sola ipotetica soluzione per la difesa dei propri interessi strategici sia un impegno militare sempre maggiore, fino a provocare una nuova rovinosa conflagrazione di ampia portata in Medio Oriente.

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