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1 giugno 2018

 

Madrid, la corruzione affonda Rajoy e riporta a galla i socialisti

di Marco Santopadre

 

Gli scandali per corruzione che hanno coinvolto numerosi pezzi da novanta del Partito Popolare sono costati molto cari al presidente del governo di destra di Madrid, Mariano Rajoy, che oggi ha dovuto dire addio al proprio incarico.

 

Stamattina, infatti, la maggioranza dei componenti delle Cortes – 180 voti a favore, 169 contrari e un’astensione – hanno detto sì alla mozione di sfiducia presentata dal Partito Socialista Operaio Spagnolo, il cui leader Pedro Sánchez è diventato il nuovo primo ministro.

L’esito della votazione era scontato dopo che il Partito Nazionalista Basco – formazione autonomista che rappresenta storicamente gli interessi della borghesia di Bilbao – aveva deciso di appoggiare la mociòn de censura, avendo ottenuto dai socialisti l’impegno ad approvare la stessa legge di bilancio varata dal PP dopo mesi di stallo, contenente un piccolo aumento delle pensioni e un relativamente consistente stanziamento per la Comunità Autonoma Basca a favore dei quali i dirigenti del PNV si erano battuti.

 

Alla fine per disarcionare Mariano Rajoy ai voti del Psoe e del Pnv si sono uniti quelli delle sinistre di Unidos Podemos e delle cosiddette confluencias – le formazioni regionali alleate di Iglesias – quelli dei deputati catalani di Erc e PDeCat e quelli della sinistra nazionalista basca di Bildu.

 

In base alla legislazione spagnola, il leader del partito che ha ottenuto un sostegno maggioritario alla propria mozione di sfiducia diventa il capo del nuovo governo. Nei prossimi giorni Pedro Sánchez annuncerà la lista dei ministri di un esecutivo che, secondo le sue intenzioni, dovrebbe durare qualche mese per traghettare il paese verso nuove elezioni. Elezioni che potrebbero sì sancire forse un recupero elettorale del Psoe – che negli scorsi anni, nonostante la crisi del PP, è stato fortemente ridimensionato – ma soprattutto uno storico sorpasso della nuova destra di Ciudadanos nei confronti della vecchia casa madre popolare. Nelle ultime settimane tutti i sondaggi danno il partito di Albert Rivera – formazione a torto definita moderata e liberale da commentatori alquanto distratti – in forte crescita, e la condanna nel processo Gürtel di alcuni dei dirigenti popolari potrebbe ulteriormente favorire un partito che negli ultimi anni, pur sostenendo il governo Rajoy, ha accentuato il suo messaggio nazionalista e sciovinista anche in seguito della crisi catalana dei mesi scorsi.

 

Il segretario socialista dovrà sciogliere il nodo del carattere del suo governo; governerà da solo con un monocolore e sulla base di un programma già stabilito – in quel caso le ex opposizioni di sinistra dovranno votare una cambiale in bianco semplicemente per tenere il PP e Ciudadanos lontani dal potere – oppure acconsentirà a negoziare un accordo di governo almeno con la formazione di Pablo Iglesias?

I deputati di Ciudadanos, che hanno sostenuto l’esecutivo Rajoy fino alla sentenza del caso Gürtel, hanno votato contro la mozione di sfiducia pur affermando la volontà di porre fine all’esperienza di governo coi popolari, terremotata dalla corruzione che la formazione di Rivera afferma di contrastare. Ciudadanos chiedeva però a Rajoy dimissioni immediate, in maniera da evitare la sfiducia e convocare elezioni anticipate che portassero alla prevista vittoria del catalano unionista Albert Rivera.

Una vittoria che, soprattutto se Sánchez governerà sulla base di un programma comune concordato con Podemos e i nazionalisti baschi e catalani – il Psoe viene già accusato dagli ultranazionalisti spagnoli di “tradimento della patria” e di inciucio con i “radicali” e i “secessionisti” – potrebbe essere ancora più massiccio al termine della parentesi socialista.

 

Ciudadanos potrebbe infatti condurre nei prossimi mesi una aggressiva campagna popolare sia contro “i corrotti del PP” sia contro i “traditori’ del Psoe”, candidandosi a fare il pieno dei voti in fuga dalle due formazioni storiche all’interno di un avvitamento autoritario e nazionalista dell’opinione pubblica iberica.

 

Un clima che si conferma con la pesante condanna inflitta oggi contro otto tra ragazzi e ragazze basche arrestati nell’ottobre del 2016 perché accusati di aver partecipato ad una rissa con due agenti fuori servizio della Guardia Civil in un bar della località navarra di Altsasu.

 

La rissa è stata trasformata dall’Audiencia Nacional in una aggressione premeditata contro i due militari maturata all’interno degli ambienti più radicali della sinistra indipendentista basca. I giovani imputati sono stati condannati a pene detentive tra i 2 e i 13 anni di carcere – per sette i giudici hanno dettato sentenze superiori ai nove anni di reclusione – per i reati di “attentato all’autorità”, “lesioni”, “disordini pubblici” e “minacce”. L’accusa chiedeva pene ancora più pesanti ma la corte ha alla fine respinto le accuse di terrorismo che pendevano sul gruppo di giovani di Altsasu sui quali è piombata comunque una sentenza di natura tutta politica.

 

Il portavoce del Partito Popolare, Rafael Hernando, ha accusato oggi in aula il leader socialista di essere arrivato a guidare il governo grazie “agli amici di Maduro, a quelli che vogliono rompere la Spagna e agli amici dell’ETA”; al contrario i deputati di Unidos Podemos hanno accolto i risultati della votazione di stamattina al grido di “Si se puede” – Sì, si può – tradizionale slogan della formazione.

 

Ma chi spera che l’avvento dei socialisti al governo a Madrid porti ad una rottura con le politiche di Rajoy farebbe bene a moderare le proprie aspettative. I socialisti – che si accordino o meno con Podemos poco cambierà – hanno annunciato che governeranno per pochi mesi allo scopo di riportare il paese in carreggiata, nel solco della continuità e dei dettami dell’Unione Europea, garantendo la “stabilità di bilancio ed economica”, rispettando la tabella di marcia imposta da Bruxelles e il rispetto integrale della Costituzione.

 

D’altronde il Psoe è un partito di centrosinistra di tradizione liberista e thatcheriana fin dagli anni ’80 e pilastro insieme al PP del cosiddetto ‘regime del 78’ nato dall’autoriforma del regime franchista.

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3 giugno 2018

 

Sánchez giura a Madrid, Torra a Barcellona

di Gianluca Vivacqua

 

I due nuovi governi giurano quasi in contemporanea.

 

Giuramenti paralleli. A Madrid al palazzo della Zarzuela, in casa del re Felipe VI, giura come nuovo premier spagnolo il segretario del PSOE, Pedro Sánchez. Quasi nelle stesse ore a Barcellona, al Palau de la Generalitat de la Catalunya, giura anche il nuovo governo catalano, guidato da Quim Torra. Quest’ultimo, in realtà, era in carica ufficialmente già dal 17 maggio, ma la formazione del suo gabinetto è stata “congelata” per alcune settimane. Ad ostacolarne il varo, infatti, le obiezioni di Madrid circa quattro ministri: Jordi Turull e Josep Rull, che si trovavano in carcere proprio nella capitale iberica, in conseguenza dei fatti di settembre-ottobre 2017; e poi Toni Comin e Lluis Puig, fuggiti in Belgio con l’ex presidente Puigdemont sempre in seguito alla situazione culminata nel referendum indipendentista ottobrino. Esso fu contrastato con violenza fin dal suo nascere dal governo di Rajoy, in quanto considerato anticostituzionale, ma venne ugualmente indetto dalle autorità catalane; e, avendo prodotto il risultato temuto, cioè la maggioranza di sì all’indipendenza, provocò l’immediato rigetto da parte spagnola, no scompagnato da feroci misure repressive. In primis, la destituzione del governo.


Il compromesso che ha consentito l’agognato sblocco è stato, in realtà, una soluzione abbastanza semplice: e cioè la rinunzia ai quattro componenti incriminati. Una piccola vendetta simbolica però, Torra e gli altri indipendentisti se la sono presa riservando, idealmente, un posto per la cerimonia del giuramento anche a Puigdemont e agli altri assenti forzati: a rappresentarli tutti, lì, nella sala dove si è consumato il rito, spiccava una sedia vuota, ornata con un cartello recante il simbolo dell’indipendenza catalana, il nastrino giallo.


Molto meno lunga e tormentata è stata, di fatto, la genesi del governo Sánchez a Madrid. Qui c’è stato, in realtà, quello che si potrebbe definire un vero e proprio ribaltone parlamentare. È stata, infatti, una mozione di sfiducia preparata dal Psoe e cresciuta, via via, nei consensi (da parte di Izquierda Unida e Podemos, ma anche dei “vendicatori” catalani PdeCAT e ERC) a determinare la fine del gabinetto Rajoy e la sostituzione del premier (in attesa di nuove, imminenti elezioni) col leader socialista. C’è da dire, comunque, che Rajoy si era già rovinato ampiamente con le sue mani, finendo coinvolto in quella maxi-vicenda di corruzione e fondi neri, nota come caso Gürtel, che ha letteralmente inghiottito il Partito popolare. La mozione del Psoe è stata solo, in un certo senso, il colpo di vanga finale. Perché Sánchez sale direttamente alla guida del governo senza passare da nuove elezioni? Perché viene in suo aiuto la Costituzione spagnola: la quale prevede che, in caso di sfiducia costruttiva, il premier sfiduciato venga rimpiazzato immediatamente dal leader proponente la mozione.


Sono fatti per intendersi, Sánchez e Torra, più di quanto non siano riusciti a fare Rajoy e Puigdemont? Il nuovo presidente della Generalitat un messaggio al nuovo primo ministro del Regno ha già provato a lanciarlo: “Parliamo, assumiamoci entrambi dei rischi, sediamoci a un tavolo e negoziamo lealmente da governo a governo”. La trattativa condotta da pari grado, senza fraintendimenti: ecco il punto più importante per Torra, che tiene a sottolineare come lui e i suoi ministri proseguiranno sulla strada dell’indipendenza. Sánchez, dal canto suo, in passato aveva già espresso le sue critiche sul secessionismo catalano, ma allo stesso tempo si era detto convinto dell’opportunità di “costruire ponti”. Staremo a vedere.

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