http://contropiano.org/ 23 maggio 2018
Chi comanda, qui? di Dante Barontini
Cuocere a fuoco lento i possibili ministri indesiderati e costringere l’improvvisata coalizione “giallo-verde” a mettere da parte qualsiasi velleità populista di stampo euroscettico.
Sembra proprio questa la strategia scelta dal Quirinale, che continua a rinviare la convocazione del povero Giuseppe Conte, indicato da Di Maio e Salvini come presidente del consiglio conto terzi.
Per rendere più facile il compito al presidente della Repubblica, il sistema dei media mainstream si è scatenato obbedendo all’ordine “trovate qualcosa di impresentabile nelle loro biografie”. Un curriculum con qualche menzione (forse) di troppo, qualche dichiarazione interpretata pro “metodo stamina”, è tutto quello che è stato possibile trovare sul conto di Conte. Ma non è importante il “cosa”, tanto è decisivo il “come” lo si racconta…
A Paolo Savona, indicato come ministro dell’economia, è andata meglio, visti i suoi trascorsi come alto dirigente di Banca d’Italia e direttore generale di Confindustria, poi ministro dell’industria nel governo Ciampi. Ma “La Stampa” ha pubblicato inorridita stralci del suo ultimo libro ancora in tipografia, in cui – papale papale – il potenziale ministro scrive “l’euro è una gabbia tedesca”, auspicando ovviamente che l’Italia ne esca. Savona non è certo un estremista di sinistra, non partecipa alle riunioni della Piattaforma Eurostop e tantomeno simpatizza per Potere al Popolo (che nel programma si propone di “rompere l’Unione Europea dei trattati”). E’ un economista “operativo”, non accademico, uno che conosce a menadito forza e debolezze della struttura industriale italiana. Uno che insomma ha potuto misurare matematicamente gli effetti – negativi – dell’ingresso dell’Italia nell’Unione Europea e il rispetto dei trattati che la costituiscono, euro compreso. Solo gli scemi possono considerare la “questione europea” come un problema “ideologico”, perché chiunque si chini sui dati economici constata che in questi 25 anni trascorsi dai trattati di Maastricht l’economia di questo paese è andata peggiorando vistosamente. E lo si può misurare.
Se questa è la situazione oggettiva, cioè un fatto reale, la si può analizzare da molti punti di vista, ma sostanzialmente due: a) quello degli industriali italiani, preoccupati del declino del proprio ruolo nella divisione internazionale dei profitti; b) dal lato dei lavoratori e delle classi popolari, che perdono occupazione, livelli salariali, diritti, servizi sociali ed anche – indirettamente, certo – un patrimonio industriale utilizzabile per altri scopi (per questo motivo, ricordiamo, durante la Resistenza gli operai difesero le fabbriche dalla distruzione pianificata dalle truppe naziste in ritirata).
C’è insomma un euroscetticismo “padronale”, espresso soprattutto dalla parte meno competitiva del sistema industriale, è c’è un euroscetticismo popolare, che nasce dal peggioramento continuo delle condizioni di vita ed anche dalla preoccupazione di poter mantenere una capacità produttiva senza la quale non sarebbe possibile nessuna politica sociale, redistributiva, egualitaria. Gli “euro-entusiasti”, invece, sono fondamentalmente servi ben retribuiti dell’establishment continentale… Paolo Savona, come detto, è da sempre un rappresentante di punta dell’industria italiana e sa spiegare benissimo perché il suo antico euroentusiasmo si sia andato con gli anni affievolendo fino a diventare euroscetticismo, fondamentalmente anti-tedesco.
“La Germania non ha cambiato la visione del suo ruolo in Europa dopo la fine del nazismo, pur avendo abbandonato l’idea di imporla militarmente. Per tre volte l’Italia ha subito il fascino della cultura tedesca che ha condizionato la sua storia, non solo economica, con la Triplice alleanza del 1882, il Patto d’acciaio del 1939 e l’Unione europea del 1992. È pur vero che ogni volta fu una nostra scelta. Possibile che non impariamo mai dagli errori?“. Comprensibile, diciamo, che Sergio Mattarella si preoccupi di cosa potrebbero dire i suoi colleghi europei nel trovarsi davanti un ministro decisivo come quello dell’economia – che siede di diritto nell’Eurogruppo – schierato così esplicitamente contro l’azionista di maggioranza della Ue. Uno che peraltro coglie anche la contraddizione tra apparenza democratica delle istituzioni e realtà dittatoriale vigente nell’Unione: dietro il “paravento della liberaldemocrazia, c’è una concezione sovietica. La conseguenza è un fascismo senza dittatura e, in economia, un nazismo senza militarismo“.
Stabilito insomma che Savona da ministro dell’economia sarebbe una bomba piazzata nelle relazioni tra governo italiano e resto dell’Unione, c’è comunque il problema – per Mattarella – di giustificare un eventuale rifiuto di nominarlo in qualsiasi posizione all’interno del governo. In base a quale principio?
Savona non è Cesare Previti, l’avvocato di Berlusconi che il Caimano – per motivi ultranoti – voleva mettere sulla poltrona di ministro della giustizia. Non lo si può insomma accusare di voler utilizzare a fini privati una funzione pubblica di primo piano.
L’unica motivazione possibile è dunque relativa proprio ai suoi convincimenti economico-politici. Mattarella dovrebbe insomma invocare la superiorità dell’ordinamento europeo rispetto alla Costituzione italiana e al voto popolare che ha premiato forze moderatamente euroscettiche. Il che mette in discussione le stesse regole della democrazia parlamentare perché, se non vince una coalizione che sta bene a quelli di Bruxelles, allora non vale.
E’ quello che scrive esplicitamente Ugo De Siervo nel suo editoriale odierno su La Stampa (e due!): “la nostra adesione alle Comunità europee e poi all’Unione europea si basa, infatti, proprio sulla prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale (per capirci: le decisioni fondamentali dell’Ue divengono automaticamente efficaci negli Stati membri, senza che vi sia necessità di alcuna recezione) e quindi una nostra riforma costituzionale divergente ci porterebbe automaticamente fuori dall’Unione.”
Non sappiamo se De Siervo se ne renda pienamente conto (supponiamo di sì, comunque), ma questa affermazione comporta la cancellazione pressoché completa dell’attuale Costituzione italiana (tranne l’obbligo all’”equilibrio di bilancio” inserito nell’art. 81) e la trasformazione di questo paese in una “regione” dell’Unione. Non è insomma per un capriccio che Potere al Popolo sta raccogliendo le firme per modificare l’art. 81 o Eurostop sta facendo altrettanto per poter votare con un referendum democratico sui trattati europei. Noi, tutti, siamo qui. Questo è il campo su cui si gioca ogni conflitto, compresi quelli sociali (contro i quali l’establishment europeista e quello euroscettico si compattano in un attimo). Chi non lo capisce gioca per qualcun altro, senza neanche accorgersene.
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