http://www.lintellettualedissidente.it 26 febbraio 2018
Ur-Leadership, cronache dell’Italia decaduta di Filippo Albertin
Come il partito dell’uomo forte ha inquinato la democrazia reale. Scenari politici, fascismi mediatici e possibili paradigmi per un rinnovamento reale.
L’ultimo quarto di secolo ha consegnato al popolo sovrano un’Italia debole, asservita alle invisibili mani della tecnocrazia europea, senza lavoro, senza un welfare funzionante ed equo, senza ideali, e carica di una corruzione che per certi versi farebbe rimpiangere la Prima Repubblica. Ma cosa è successo veramente in Italia in questo ampio ventennio? La risposta è stata per certi versi già formulata, ma a frammenti; cocci di un vaso la cui interezza originaria in pochi hanno narrato (ovviamente nell’assordante silenzio generale).
Tutto parte dal vero e proprio progetto reazionario che più di ogni altro, a distanza appunto di anni, e col maledetto senno del poi, appare come la vera e propria manifestazione ante litteram delle fake news di cui oggi tanto si parla e straparla: la caduta del Muro di Berlino. L’iconografia è chiara: vento di libertà, caduta dei regimi della Guerra Fredda, ragazze e ragazzi intenti a distruggere il simbolo per eccellenza della divisione post-bellica con piccozze e altri oggetti contundenti, a ritmo della sdoganata musica pop. Ma quale è stata la verità intrinseca di quell’atto in fondo calato dall’alto, se non l’apertura definitiva delle dighe che arginavano il neoliberismo più sfrenato e speculativo? Crollano i regimi, sì, per fare spazio ad altri regimi, ben più subdoli ed efficaci.
A distanza di appena un anno furono infatti Maastricht e i suoi trattati a imporre in Europa una nuova dittatura, salutata come la ricetta che avrebbe portato ovunque benessere e pluralismo: quella delle privatizzazioni e del cosiddetto libero mercato. Una panacea i cui effetti positivi, visti gli esiti disastrosi che solo oggi appaiono visibili anche ai più liberisti dei commentatori economici con un minimo di buona fede, si sarebbero contemplati solo in virtù di una propaganda ideologica di parte, ambientata nell’iperuranio inconsistente del sogno europeo affiorante dalle macerie del muro stesso.
In Italia, nel frattempo, con lo scenario di un’economia che vedeva la svendita al migliore offerente dei più strategici settori dell’industria e la continua fusione di banche per raggiungere una competitività sufficiente a resistere ai colpi del mercato, la già debole struttura istituzionale veniva colpita dall’uragano Tangentopoli, che nel giro poche decine di mesi radeva al suolo non già, come si sarebbe dovuto, la cricca di affaristi che avevano trovato nei partiti mainstream la loro cuccagna, ma al contrario, e follemente, l’intera impalcatura democratica e ideologica protagonista della Costituente e dei valori in essa espressi. Uno smantellamento improvviso che a distanza di anni appare, se non in malafede, come minimo il naturale preludio a un golpe senza carri armati, che sarebbe stato portato avanti non già attraverso le oscure trame del neofascismo gelliano e delle sue logge deviate e coperte, ma alla luce del sole, con grandi sorrisi e spot pubblicitari.
Licio Gelli
Ecco dunque il nodo fondamentale: l’avvento di un nuovo ordine mondiale, del tutto concreto e privo di qualsivoglia retorica complottista, che in Italia si sovrappone a un vuoto politico e dunque istituzionale. Un vuoto che, come nella grande tradizione del catastrofismo, porta alla nascita di una nuova forma di rappresentanza politica: quella dell’anti-politica, ovvero un ripristino in forma mediatica e non guerresca di quella dittatura dell’uomo forte che sembrava essere ormai un ricordo lontano, o almeno concluso dopo la stagione degli anni di piombo.
Con Forza Italia e la discesa in campo del Cavaliere nasce, di fatto e senza mezzi termini, un nuovo fascismo, o per meglio dire un fascismo di nuova generazione. Una dittatura a tutti gli effetti, come nelle note profezie di Pier Paolo Pasolini sul potere mediatico che a suo dire aveva avviato in Italia il vero grande “genocidio culturale” che il regime del ventennio non era riuscito, con la sola forza della violenza, a imporre. E visto che il fascismo era un’entità imprescindibile da Mussolini (le parole sono di Montanelli, e non di Serra o Veltroni), anche Forza Italia, partito dalla morfologia vagamente rotaryana, ma con ben altri intenti, sarebbe stata emanazione univoca del suo duce incontrastato.
Video: Pier Paolo Pasolini riflessioni sull'omologazione del nuovo fascismo - https://youtu.be/cI7vwhQcXVQ
In Italia, cioè, mentre si apre il nefasto capitolo della grande globalizzazione, si passa dalla semplice leadership di sempre (di un segretario, di un presidente, di un comune ministro, all’interno di un normale partito o istituzione) a quella che può essere denotata con una nuova espressione: urleadership, ossia, pasticciando con gli idiomi sassone e germanico, dominio assoluto di un amministratore unico, idolatrato dalle masse per ragioni puramente mediatiche, come detto anti-politiche, estetiche ed emozionali. E chi poteva essere il grande condottiero e ur-leader se non il già ben noto Silvio Berlusconi, emblema da tempo del furbo palazzinaro con acute conoscenze politiche, dell’italiano medio che prende dieci e lode copiando il compito, colui che era riuscito a costruire un impero in appena una manciata di anni e a trasformare il cavo di una città satellite nei pressi della sua amata Milano da bere in un network capace di contrastare il servizio pubblico?
L’uomo forte, in grado di sedurre contemporaneamente il giovane aspirante galoppino (di Mediolanum o Publitalia ‘80) e la casalinga di mezza età appassionata di rotocalchi e telenovelas, il pensionato assiduo ammiratore di Buongiorno e Vianello, così come il fedele socialista solo di nome o democristiano rimasto improvvisamente orfano di partito. La politica, in Italia, torna dunque ad essere improvvisamente plebiscitaria, ma attraverso la subdola mediazione del mezzo televisivo.
Silvio Berlusconi
Ma il modello della ur-leadership non si limita a nascere, ma lentamente e inesorabilmente comincia a fare scuola, inquinando e deturpando ogni virgulto realmente democratico che incontra lungo il cammino. Via via che il rapporto con le ideologie comincia ad essere silenziosamente intaccato dal nuovo che avanza, anche i partiti eredi del glorioso PCI berlingueriano si adattano, prima di nascosto, poi sempre più sfacciatamente. Essere di sinistra non è più di moda. Bisogna guardare alla democrazia americana, cambiare simboli, cambiare forme, usare nomi di alberi o di fiori. L’imperativo è mantenere i voti della falce e del martello senza farla mai vedere in giro. In sintesi, l’inizio della fine che porterà ad espressioni come l’invito a dire qualcosa di sinistra.
Ma la vera grande prova del nove circa l’inconsistenza politica della ur-leadership, ossia di una rappresentanza riferita a partiti identificabili in un solo soggetto e non in un credo diffuso e condiviso, è rappresentata dal secondo eloquente urleader della storia della Seconda Repubblica: Antonio Di Pietro, l’eroe di Mani Pulite, ovvero lo sceriffo d’Italia, l’unico uomo al mondo che avrebbe potuto cacciare il Cavaliere dell’Apocalisse nell’unico luogo che era riuscito a evitarsi, la galera. Ecco dunque che nasce L’Italia dei Valori, sigla partitica che in pochissimo tempo diventa espressione di un nuovo, irresistibile e seguitissimo radicalismo italiano: si pensi al successo delle battaglie referendarie, alla corposa presenza durante tutta la prima metà degli anni Duemila in importanti giunte della penisola, alla seduzione mediatica di questo poliziotto dagli alti ideali e dalla favella incerta e sanguigna. Una prima forma di populismo forcaiolo, si direbbe: uno slogan che in Italia avrebbe fatto strada.
Antonio Di Pietro
Ma di tutto questo antagonismo giustizialista, a distanza di una decina scarsa di anni cosa rimane? Nulla, visto che formalmente L’Italia dei Valori esiste ancora, ma, in virtù di un banalissimo intrigo di palazzo, a non esistere di fatto più è il suo condottiero. Perché questo è il problema dell’assenza di ideologia e il suo intrinseco teorema costitutivo: un urpartito segue direttamente le grazie e le disgrazie del suo urleader. Ossia: un ur-partito è per definizione un’entità ad interim, tanto potenzialmente esplosiva all’inizio (effetto testimonial o influencer, si direbbe oggi), quanto instabile, debole dalle fondamenta, caratterizzata da una fragilità intrinseca che prima o poi trascinerà nella sua decadenza il lavoro di centinaia di attivisti che magari ci credevano. A quanti altri partiti capiterà la stessa cosa?
Alla luce di queste considerazioni di fondo, che dire del Movimento Cinque Stelle? Chi era Grillo se non il Di Pietro ante litteram, che nella metà degli anni Ottanta già sbraitava a favore dell’ecologia e contro i partiti ladri? Il Grillo cacciato dalla RAI per le sue idee, il Grillo istrione talentuoso applaudito a Sanremo e redarguito dal Pippo Baudo nazionalpopolare, lo stesso che lo aveva scoperto e portato al successo; in una parola, il Grillo martire. Quale testimonial migliore per un nuovo soggetto politico contro tutto e contro tutti?
Beppe Grillo a Fantastico 7 (1986)
Ecco dunque lo scenario alla vigilia di queste elezioni che si preannunciano tra le più convulse e chiassose di sempre, nonché al limite della farsa. Un Partito Democratico ormai ai minimi storici, che per le sue politiche di fatto destrorse e claudicanti si sta perdendo tutti gli elettori (si pensi ai flop della Buona Scuola e del Jobs Act, ossia al crollo elettorale dovuto alla defezione di insegnanti pubblici e intere categorie del mondo del lavoro). Scissionismi ricattatori ovunque, con improvvisati testimonial (Pietro Grasso docet) buoni solo per raccattare manciate di voti e renderli disponibili per future, squallide contrattazioni.
Di contro, un cosiddetto centrodestra dove questo Berlusconi ormai impresentabile e irriconoscibile è costretto a servirsi delle stampelle populiste di neofascisti e leghisti del tutto in disaccordo con le sue idee in materia di Europa (per non parlare del traditore Alfano, che ben si guardò dall’ereditare la bagnarola forzista, oppure della spasmodica ricerca di appoggi alternativi e quarte gambe di turno). E infine loro, i nemici numero uno di tutti, in quanto primo partito dell’Italia disfattista del piove governo ladro, quei Pentastellati confusi e felici che, passati dalle scie chimiche ai complotti massonico-ufologici, ovunque abbiano governato hanno espresso le più deludenti performance immaginabili.
Virginia Raggi
Attorno a questi, un tripudio di progetti, movimenti, girotondi, da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa che ce provano ancora a improbabili riproposte, fino ovviamente ai vari Casa Pound e Forza Nuova. Tutto ciarpame? Tutto narcisismo? In parte sì, in parte no. Degna di nota politica solo la lista Potere al Popolo, che effettivamente dal basso, con coraggio e determinazione, sta raccogliendo consensi per ricostruire, dopo l’ovvia disgregazione del Brancaccio, una vera alternativa di Sinistra di natura keynesiana e sovranista. Un’alternativa impegnata nella costruzione, anche in collaborazione con movimenti extranazionali quali La France Insoumise del grande leader socialista Jean-Luc Mélenchon, di un vasto movimento di dissenso verso le derive neoaristocratiche e reazionarie di questa Europa dei trattati e dei pareggi di bilancio. Schieramenti quali Rifondazione Comunista e il giovanissimo e attivo Risorgimento Socialista partecipano con grande forza a questa lista, che però accoglie numerosissimi altri soggetti eterogenei: intellettuali, scrittori, associazioni, progetti sociali, sindacati, comitati di iniziativa popolare e via discorrendo.
Indipendentemente da valutazioni strettamente elettorali, il quadro è evidente: o permanere in questo vuoto politico fatto di autoreferenzialità e servile obbedienza ai trattati, che certamente assumerà la forma di una palese ingovernabilità, o tentare, contro ogni autoreferenziale abbandono della nave, un progressivo accorpamento delle forze che costituirono la base della partecipazione democratica in Italia. Anche perché il vero partito vincitore nelle ultime tornate elettorali resta solo uno: l’astensionismo, la voce muta di un popolo che ha definitivamente rinunciato alla sovranità che gli spetta, e che oggi insegue il lavoro in una nazione che sul medesimo, giova ricordarlo, dovrebbe essere addirittura fondata. Cosa banale, ma grave, e sulla quale si dovrebbe riflettere a fondo. |