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30 Ott2018

 

Una modesta proposta sull’insegnamento della storia: aboliamolo. Lettera aperta ai colleghi storici.

di Aldo Giannuli

 

Un po’ di giorni fa, le associazioni dei docenti di storia e l’Istituto Storico per la Storia della Resistenza hanno lanciato un grido di dolore contro la proposta di abolire la traccia di storia fra quelle degli esami di stato, additando l’incultura di chi ha fatto l’infausta proposta ed hanno colto l’occasione per la solita geremiade sulle cattedre perse, della marginalizzazione delle ore di insegnamento della storia ridotte ad una sola negli istituti tecnici eccetera.

La Commissione ministeriale che ha approvato questa riforma degli esami di Stato è certamente composta da allevatori di bestiame capitati non si sa come in quella posizione, non discuto.

Ma bisogna riconoscere che qualche ragione ce l’hanno: è un fatto che nell’ultimo decennio (più o meno) la traccia è stata scelta solo dall’1% dei candidati. E la cosa, cari colleghi, non vi dà nessun sospetto? Se il 99% degli studenti scansa la traccia di storia, non dipenderà dal fatto che la storia gli è stata insegnata con i piedi?

Non cominciamo con le solite scuse sulla vulgata corrente che marginalizza le materie umanistiche e disincentiva i giovani a studiare la storia, su quella trappola infernale che è internet, eccetera eccetera, il punto è che i nostri docenti non riescono ad interessare i ragazzi alla materia in questione.

E questo si inserisce nel problema più generale dei troppi insegnanti che, magari, conoscono la materia, ma non la sanno insegnare e questo vale per tutte le discipline. In estate lessi di una classe di un istituto livornese dove erano stati bocciati o rimandati 40 studenti su 41 ed un imbecille di docente confessava come giustificazione: “Non riusciamo a farli studiare”. Come dire che “non sappiamo fare il nostro mestiere” visto che il compito del docente è proprio quello di motivare i ragazzi a studiare. Morale: licenziamo in blocco i docenti di quella classe e faremo una cosa santa.

Ma, si dice, della storia ha bisogno non solo la cultura ma anche la democrazia, perché, si dice, la storia ha un alto valore formativo.

Ecco: il punto è proprio questo: la storia, così come viene insegnata, ha ancora questo valore formativo? Direi proprio di no. Per il modo in cui è ora mal insegnata non ha alcun valore culturale e, meno che mai, professionale.

La storia non serve a “far bella figura in società” o ad assecondare una qualche voglia individuale di intrattenimento. La storia ha una funzione precisa nella spiegazione e critica del presente e, solo a questa condizione, è elemento utile al dibattito politico e culturale. Frugare a caso nel passato non serve a niente, quello che serve è risalire lungo la catena dei nessi causa effetto che spieghino l’attuale stato di cose e servano da lente di ingrandimento per individuare cosa va conservato e cosa mutato nell’attuale ordinamento. Ora, c’è qualcuno che ha il coraggio di sostenere che l’attuale insegnamento serva a questo?

Quanti docenti sarebbero in grado di spiegare il passaggio dalla formula merce-denaro-merce a quella denaro1-merce-denaro2 e spiegarne la portata storica? Quale insegnante saprebbe spiegare le conseguenze della decisione di Nixon sulla non convertibilità del dollaro nel 1971? Quanti docenti hanno una pur vaga idea del pensiero politico di Ghandi, Soekarno, Kemal Ataturk o sanno chi sono stati Nasser, Al Qutb o Franz Fanon? E chi saprebbe presentare adeguatamente il processo di codificazione dello stato moderno europeo o il passaggio dalla decretazione alla legge?

Ne dubito fortemente, perché i nostri docenti, in massima parte sono filosofi o letterati che non capiscono nulla di diritto o economia e poco di sociologia o politologia.

D’altro canto, i libri di testo che hanno a disposizione non parlano di certe cose e ripropongono la solita sbobba identica a sé stessa da almeno 60 anni. Si, ci abbiamo appiccicato a forza qualche capitolo sulla storia delle donne, dei giovani o dell’ambiente (che nessun docente trova il tempo di spiegare e che sono posti senza alcun legame con tutto il resto) ma la struttura resta quella di sempre nella quale è possibile distinguere con chiarezza i suoi vari strati alluvionali: alla base il catechismo della “religione della Patria” con i suoi martiri (Menotti, Speri, Bandiera) ed il suo glorioso cammino verso l’unità; poi il capitolo sulla prima guerra mondiale per lo più di derivazione fascista; quindi la grande cupola dell’insegnamento crociano con il suo culto per l’analogia e il suo insopportabile moralismo, per cui il fine della storia è il giudizio morale (insomma, il voto in condotta a chi ci ha preceduto) e la sua totale insensibilità ai dati istituzionali ed economici; infine un po’ di catechismo antifascista.

Beninteso: sono antifascista da sempre, non ritengo affatto che l’antifascismo sia un valore superato, ma non sopporto alcun tipo di catechismo. Si può capire che nel primo trentennio della Repubblica fosse necessario radicare la condanna del fascismo, ma vogliamo capire che la storia del fascismo va studiata in riferimento al tipo di modernità che si è costruita in questo paese? E che dopo il fascismo ci sono stati 70 anni di storia che sono bellamente ignorati dai nostri manuali? E senza che questo attenui di un ette la condanna del fascismo. L’antifascismo va benissimo, ma facciamolo vivere nel quadro del presente e non trasformiamolo in un polveroso museo di memorie.

 

Insomma, è accettabile che il nostro insegnamento ignori cose come la decolonizzazione, la strategia della tensione, il sessantotto, i mutamenti dell’ordine monetario, il crollo dell’Urss e dell’ordinamento bipolare, la trasformazione imperiale della presidenza americana, le rivoluzioni di Cina, Indonesia, Algeria, Vietnam, le guerre mediorientali eccetera eccetera? Cari colleghi, ma in che secolo vivete?

 

E non si tratta solo di recuperare il passato più recente, ma di leggere con altri occhi anche tutto il resto della storia alla luce dell’attuale ordinamento del mondo.Ad esempio, siamo sicuri che la storia degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici sia così importante, mentre si trascurano del tutto le ben più importanti civiltà di India e Cina?

Certo che la storia romana dobbiamo studiarla, ma è necessario beccarsi tutta la solfa delle dinastie gallo-romane. L’ elenco completo delle battaglie di Cesare, gli imperatori più insignificanti, e non tentare una comparazione con le parallele vicende dell’India? Il medio evo va studiato, ma è così fondamentale dare tanto spazio alla lotta per le investiture, piuttosto che dare uno sguardo all’evoluzione dell’economia cinese a metà del XIV secolo, con il passaggio all’economia del riso e con il parallelo affermarsi del dispotismo asiatico?

E, nella storia moderna, si potrebbe restringere un po’ il solito elenco di guerre e battaglie ma dare più spazio alla nascita del diritto commerciale o al colbertismo.

Quanto alla storia contemporanea, va bene che si parli della Shoa, ma non sarebbe più urgente ed importante parlare del colonialismo e del suo residuo permanente. Magari ci riuscirebbe di capire meglio un fenomeno come i terrorismo jhiadista.

Tutto questo, però, presupporrebbe un corpo docente ben altrimenti formato. Anche l’istituzione del corso di laurea in Storia è stato un vero disastro: nessun insegnamento di Economia, Diritto, Scienza della Politica, una infarinatura appena di sociologia, psicologia ed antropologia ed, in cambio una valanga delle storie più minute e meno utili. Solito schema per le storie generali all’interno del solito eurocentrismo. Un marziano che scendesse sulla Terra e leggesse i nostri manuali di storia per farsi una idea, capirebbe che l’unico protagonista della storia è sempre stato l’uomo bianco, salvo qualche rapida comparsata di qualche altro, che la storia umana ha seguito un unico cammino rettilineo e che gli umani si sono sempre preoccupati solo dell’aspetto ideologico , dedicando di tanto in tanto, qualche cenno di attenzione ai processi materiali.

Cari colleghi, diciamolo, voi non fate storia, fate una noiosissima antiquaria. E non parliamo dell’aspetto metodologico: quanti docenti hanno ide a di cosa sia la scienza della complessità o sarebbero spiegare cosa è un modello di simulazione e come funziona (anche un semplice wargame)?
Quanti se la sentirebbero di accennare un approccio comparatistico? E quanti potrebbero provare una spiegazione dei processi storici in termini di psicoanalisi di massa? Lasciamo perdere.

Già sento la risposta “dobbiamo rispettare i programmi ministeriali”. Già, l’annosa piaga dei programmi ministeriali che mi fanno pensare che sia arrivato il momento di sbarazzarci della scuola statale (non ho detto della scuola pubblica ma di quella statale) un modello organizzativo che ha avuto i suoi meriti ma che oggi, forse è il caso di superare. In ogni caso, non mi è capitato di leggere di nessuna protesta dei docenti, dei loro sindacati, delle loro associazioni disciplinari contro i famigerati programmi ministeriali, pecoronescamente applicati.

 

Tutto ciò premesso, come si fa a sostenere che l’attuale insegnamento della storia abbia una qualche utilità e possa riscuotere più di qualche sbadiglio dei ragazzi?

 

Capisco la difesa più che della storia, degli impiegati statali incaricati di spiegare la “storia” da cui cercano “ di tirare quattro paghe per il lesso”, ma, se l’insegnamento della storia deve essere questo, forse è meglio che lo aboliamo del tutto. E forse i ragazzi odieranno di meno la Storia e qualcuno inizierà a studiarla per proprio conto.

Con la stima di sempre, vostro,

Aldo Giannuli

 

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venerdì 2 novembre 2018

 

Chi ha paura della storia?

di Pino Mario De Stefano

 

La vita, a volte, ci offre dei piccoli segnali, ai quali dovremmo prestare più attenzione di quanto non facciamo di solito. 

 

Uno di quei segnali, da tenere sempre sotto controllo, penso sia lo spazio che viene dato alla conoscenza della storia nei sistemi formativi e scolastici di ogni tipo.

Soprattutto perché c’è uno strano fenomeno che periodicamente si ripresenta nella vita delle società e che di solito viene spiegato con argomenti apparentemente razionali oppure pragmatici. Si tratta della pretesa di riscrivere o cancellare o spingere verso l’oblio la memoria storica. A volte con la presunzione di dare inizio all’Anno Zero! 

Pretese e progetti di questo genere non sono sempre evidenti, dichiarati e brutali come nel caso, per esempio, di Pol Pot o dei nazisti o dei giacobini francesi. No, spesso, soprattutto nei regimi democratici contemporanei, il fenomeno si annuncia con lo sdoganamento di parole e linguaggi fino allora nell’ombra, o con qualche atto amministrativo apparentemente innocuo e neutrale, come capita da qualche tempo anche in Italia: tagliare un’ora di storia qua o una là, nei curricoli scolastici, o abolire l’esercitazione su tematiche storiche agli esami di maturità, magari con l’argomentazione che sono pochi gli alunni che scelgono di svolgere il tema storico. Come se bastasse il fatto ormai palese, che sono sempre di meno le persone che si comportano in modo educato e civile per abolire le regole galateo!

In realtà occorrerebbe cominciare a monitorare con più attenzione anche questi piccoli fenomeni a prima vista insignificanti, perché come sanno bene gli alpinisti e gli amanti dei sentieri di montagna, a volte un piccolo masso che si stacca da un costone e un piccolo smottamento possono annunciare eventi futuri molto più estesi e pericolosi.

Certo, qualcosa oggi si avverte nell’aria, non solo in Italia, se una famosa serie tv statunitense, The Man in the High Castle, basata su un romanzo ucronico distopico del grande scrittore visionario Philip K. Dick, pone al centro della trama la caccia, da parte del regime dominante, a film-documentari clandestini che tentano di diffondere narrazioni della storia diverse da quella ufficiale.

Perché la storia fa paura ai regimi assolutistici, autoritari e illiberali di ogni epoca, e anche alle svariate parodie contemporanee del millenarismo, pur sgangherate e boriose?

Il fatto è che la storia è una opportunità, che sta lì anche se magari sono pochi quelli che ne usufruiscono, ma in ogni caso rimane lì, a disposizione, come possibilità sempre attuale di “uscita dalla caverna”; una possibilità in grado di darci la sveglia! 

La storia, i nostri “passati”, sono l’alterità, l’altra dimensione che ci costringe a guardarci “da fuori”, da lontano e ci rivela qualcos’altro di noi stessi.

 

La memoria e la conoscenza della storia ci aiutano a non considerare “naturale” e normale il nostro presente. Anche quando ci ricordano le atrocità e le sofferenze che gli umani sono stati capaci di infliggere ai loro simili, ci aiutano a riconoscerle nel nostro presente.

La conoscenza della storia, il continuo ri-raccontarci la storia e le storie, mette noi stessi nelle nostre mani e ci invita a osare altro!

La paura della storia o la messa in ombra della memoria storica, da parte di regimi repressivi, tendenzialmente violenti e autoritari, è forse il tentativo di far dimenticare che ci sono stati anche momenti della storia dell’umanità, in cui è emersa, con forza, la consapevolezza che era ora di prendere posizione riguardo a un progetto di umanità, o a una forma di civiltà e di valori, da cui sarebbe dipeso, in ogni caso, il destino della comunità umana. . 

Per fortuna la storia non sempre è adatta a confermare o abbellire il nostro presente, ma ci ricorda piuttosto speranze o terrori, vissuti molto tempo fa e poi ammutoliti o repressi, che risorgono improvvisamente, in mezzo al mondo unidimensionale della nostra vita quotidiana. Per qualche istante quei ricordi, se non ammutoliti o oscurati, mettono in luce, dura e stridente, la problematicità di ciò a cui ci siamo apparentemente abituati e conciliati e la banalità del nostro presunto ‘realismo’. 

Abbiamo bisogno, tutti, soprattutto oggi, di più storia non di meno storia. Ne abbiamo bisogno tutti: non solo chi ha scelto studi letterari o umanistici, ma anche chi segue percorsi di studi scientifici, tecnici o professionali o artigianali. Ne abbiamo bisogno, anche se lo studio della storia per la sua connaturata complessità non è sempre divertente.

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare” (Martin Niemöller, citato da G.B.Zorzoli su Alfabeta2, 21 ottobre 2018.

Vuoi sapere chi ha paura della storia, caro lettore?

Ebbene sono tutti quelli che non vogliono che tu conosca questo racconto del pastore Martin Niemöller. O altri racconti simili. E soprattutto non vogliono che tu sia in grado di raccontarlo ad altri.

Sia chiaro, però, che le cose non cominciano quando “quelli” vengono a prenderti. No! Cominciano molto prima: con parole apparentemente innocue, con mezze verità fatte scivolare lì quasi per caso, con discorsi che paiono di buon senso. 

O con piccoli gesti che accadono tra l’indifferenza dei più.

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