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9 Giugno 2018
Michele Boldrin: “Il debito pubblico? Dobbiamo crescere, solo così smetterà di essere un problema”
di Lidia Baratta
Mentre lo spread è alto e il nuovo governo parla di flat tax e reddito di cittadinanza, l’economista dice: “Smettiamola di pensare al debito, concentriamoci sulla crescita e sul taglio della spesa. Ci reggiamo solo sull’export e non abbiamo molto tempo prima che salti tutto in aria”
Economista, professore alla Washington University in Saint Louis, ed ex leader del partito “Fare per fermare il declino”. Non c’è figura migliore di Michele Boldrin per fare un’analisi della situazione economica italiana e delle ricette proposte dal nuovo governo Lega-Cinque Stelle. «Ma smettiamola di concentrare tutta l’attenzione e la preoccupazione sul debito pubblico italiano!», dice Boldrin, arrivato a Milano per partecipare a un dibattito sul fisco e la tenuta dei conti pubblici organizzato da Linkiesta e Moneyfarm nell’ambito della rassegna “Redazione Finanza”. «Il debito pubblico non è un problema in sé. La retorica politica ha messo enfasi su questo, facendo nascere l’idea di dover ripagare il debito, ma non è così. Smettiamola di alimentare la mitologia dei tedeschi cattivi e pensiamo a preoccuparci invece di come diventare credibili e di come non far diventare il debito un fattore di rischio. La soluzione è puntare sulla crescita».
Professore, perché il debito pubblico non è un problema?
C‘è una strana concezione che gira, secondo cui il problema del debito è che noi dobbiamo ripagarlo. Ma nessun debito pubblico serio si ripaga! I debiti pubblici più seri della storia della finanza mondiale, quelli dell’impero inglese, avevano per definizione la seguente spiegazione: questi soldi non ve li restituiremo mai. Voi mi date cento pound? Io li spendo come voglio perché sono The Queen e poi vi prometto che vi pago il 2,5-3% forever.
Allora da dove nasce l’idea di dover ripagare il debito?
Spunta quando percepisci che non è più solido. È una specie di reazione pavloviana di un creditore che dice: “Meglio che porto a casa quello che posso”. Per cui spingersi continuamente sulla linea argomentativa del dover ripagare il debito significa suggerire: “Guarda che io sono un debitore poco affidabile”. Che non è una bella cosa.
E cosa bisogna fare allora?
Devi fare l’opposto. Cioè garantire anzitutto che non stai facendo crescere il debito più della tua capacità di servirlo. Il rapporto tra debito e Pil serve proprio a mostrare che tu sei in grado di pagare gli interessi; che il rapporto fra quanto sei esposto e quanto gettito sai generare è stabile; e che quindi c’è ragione di credere che tu questo debito riuscirai a soddisfarlo a tempo indeterminato. Ciò che conta dal punto di vista di un creditore è la capacità dello Stato di estrarre risorse dall’economia privata trasformandolo in gettito fiscale per servire il debito.
E noi come siamo messi?
Quando un Paese come l’Italia si è avvicinato alla soglia massima della capacità di estrarre valore aggiunto dal settore privato per pagare i suoi costi, è chiaro che chi ti sta prestando soldi dice: “Aspetta un attimo”. Quando sei molto lontano dal limite, allora è un’altra cosa, anche se il rapporto tra debito e Pil è simile al nostro. Il debito argentino, ad esempio, è continuamente un fattore di rischio anche se il rapporto sul Pil è inferiore al nostro. Perché l’Argentina è un Paese che ha obiettivamente raggiunto il limite della sua capcaità di estrarre gettito dal settore privato. Quindi il debito si trasforma in rischio. Io l’approccio al debito in Italia lo farei da questo punto di vista, che poi porta sempre a ragionare dei problemi atavici di questo Paese.
Quali sono i fattori di debolezza italiani?
Il problema della crescita, del sistema fiscale poco efficiente che non favorisce la crescita, e la spesa. Se tu continui ad avere una struttura della spesa alta e rigida, per niente ciclica ma strutturale, è chiaro che stai dicendo a chi ti presta i soldi: “Sì, sono uno che viaggia sulla lama del rasoio e a qualsiasi colpo di vento rischio di cadere sul rasoio”. È questo il rischio del debito, non il debito per sé. Sarebbe importante riuscire a eliminare dal dibattito tutti questi discorsi che hanno a che fare con l’ammontare del debito, con la necessità che gli altri Paesi ci aiutino ad assicurare il nostro debito o che la Bce ce lo monetizzi comprando da noi più debito degli altri come se fosse la Befana che fa regali solo agli italiani. Se togliamo questa mitologia, forse evitiamo anche i conflitti assurdi con i tedeschi, con la Bce, con gli altri partner europei e ci concentriamo sulla cosa che conta. Che è garantire che siamo in grado di servire il debito. Poi nessuno ci chiederà di ripagarglielo. Invece c’è gente che va in giro facendo proposte vicine alla stregoneria su come miracolosamente assicurare il debito pubblico, e questo ci toglie credibilità.
A che cosa si riferisce?
Recentemente, ad esempio, insieme ad altri economisti, mi sono trovato a criticare un articolo del Corriere della sera sul debito pubblico. Nell’articolo si esponeva una proposta fatta da alcuni economisti di mutualizzazione del debito, con la costruzione di un fondo europeo che assicurerebbe il debito italiano coprendo la perdita in caso di default. Ora, gli altri saranno anche cattivi e mangeranno crauti ma non sono scemi, ma dicono: “Scusa, mi stai dicendo che devo pagare io per te?”. Non si può costruire una reputazione internazionale dicendo cose del genere e non è possibile che il maggior quotidiano italiano diffonda cose del genere e poi non abbia l’onesta di dire “Abbiamo sbagliato”. Si corregge il New York Times, può anche correggersi il Corriere della sera, no?
Quindi c’è anche un problema di come raccontiamo il debito pubblico?
Certo, in Italia c’è questa idea di massa che occorre fare cose strane di ingegneria finanziaria a livello europeo per proteggerci da noi stessi. Questo ragionamento continua a far pensare che queste cose non possiamo farle perché Draghi è cattivo e i tedeschi sono cattivi. Invece non è così. Quando sei un Paese credibile, con un Pil che cresce, non devi inventarti tecniche di ingegneria. Se la classe politica avesse la capacità di spostare l’attenzione dal debito pubblico ai problemi della crescita, dell’aggiustamento della pressione fiscale, del miglioramento della produttività, credo che il mondo potrebbe anche dire “gli italiani non hanno più voglia di fare trucchi”. È chiaro che dobbiamo anche dirgli che non vogliamo fare esplodere il debito nei prossimi cinque anni. Ma se io ho tanto debito e ti prometto che farò reddito futuro, e quindi gettito fiscale, divento credibile.
E allora come risolvere il problema del gettito fiscale italiano? La proposta di flat tax contenuta nel contratto di governo Lega-5S può essere una soluzione?
No, l’idea che il problema del nostro gettito fiscale possa provenire da una riduzione delle aliquote è meglio gettarla alle ortiche. Quello che invece è vero è che l’Italia ha un sistema di tassazione particolarmente punitivo su certi tipi di reddito, ma non mi pare che ci sia nulla nel contratto di governo su questo. Ridurre le aliquote crea comunque una riduzione del gettito. Non c’è maniera di discutere di riduzione complessiva del carico fiscale in Italia se non si discute di riduzione della spesa, perché altrimenti l’unico effetto che hai è che crei un buco di bilancio di 2-3 punti percentuali e lo rendi strutturale.
Sei anni fa con un gruppo di economisti stilava il programma di “Fare per fermare il declino”: quelle ricette sono ancora valide?
Le cose da fare sono ancora quelle. Basta proclami, basta promesse: comincino a tagliare la spesa per davvero, dai forestali alle pensioni. E ad alleggerire burocrazia onnivora che mina la produttività e causa spreco di risorse.
Eppure si parla di crescita e di ripresa.
Il problema è che non c’è crescita nostra. L’Italia ha una fortuna straordinaria, cioè il fatto di avere che ha una macchina da guerra intorno al Po che riesce a produrre una quantità di roba stupenda nonostante tutto. Un gruppo di 15-18mila imprese è riuscito a creare la ripresa e ad approfittare della crescita mondiale. In questo momento, alla faccia delle cretinate sull’euro che ci uccide, grazie alla stabilità dell’euro, la macchina export italiana tiene in piedi tutto. Non c’è nient’altro che si sia ripreso. Se io fossi al governo, penserei a quelli. A come tenerli in piedi, a come evitare che becchino un’altra botta gigantesca come quella del 2009-2011, a vedere se ne arrivano degi altri e se qualcuno di questi trovi ragioni di profitto ed efficienza per cominciare a scendere lungo la dorsale appenninica e a fare impresa un po’ più giù. Lo si può fare con un governo saggio che non faccia annunci sciocchi. Che buttino alle ortiche sciocchezze come il reddito cittadinanza e la flat tax: si mettano a governare il Paese! Se quel motore si inceppa un’altra volta, siamo rovinati. Ma non abbiamo molto tempo.
Quanto ci resta?
Dobbiamo augurarci che gli altri Paesi che comprano da noi continuino a crescere, perché non è che i periodi di crescita durano all’infinito. Non abbiamo molto tempo per permettere a questa crescita trainata dall’export di diventare endogena con la nascita di imprese. Invece di perder tempo a dir cose strane, quindi, si dedicassero a cercare di espandere le imprese laddove non ci sono. Perché se l’impresa del bergamasco che fa freni non ha più domanda da parte dell’impresa in Bavaria che fa le macchine, poi anche il fornaio vende meno pane.