https://www.linkiesta.it/it/ 16 Luglio 2018
Regno Unito, ovvero il pietoso spettacolo di un Paese che si suicida al rallentatore di Sabrina Provenzani
Theresa May nel pallone. Boris Johnson che aspira a diventare l’uomo di Trump in terra britannica. La questione Brexit che si è trasformata in uno psicodramma. Cronache di decadenza di una ex grande democrazia
Ora Theresa May passa al contrattacco mediatico, interviene all’Andrew Marr show e restituisce a Donald Trump un paio di coltellate sulla schiena: ‘Il “consiglio brutale” del Presidente? Su Brexit non negoziare affatto e invece fare causa all’Unione Europea”. È uno scenario surreale, com’è surreale, per il concetto e la pratica comune dei rapporti diplomatici ed internazionali, tutto il complesso sfascista delle politiche di Trump, che forse segue un disegno suo, forse quello di Putin, forse la propria natura, ma ad ogni tweet esternazione ed ordine esecutivo delegittima istituzioni, equilibri e valori comuni. Tutti test da regime pre-fascista, secondo l’indispensabile analisi dell’editorialista dell’Irish Times Fintan O’Toole. La May è costretta a reagire, e a dire finalmente le cose come stanno, in un fine settimana di necessaria sovraesposizione mediatica. Oltre l’intervista a Marr firma anche un editoriale sul Times on Sunday in cui avverte tutti che il rischio è che non ci sia nessuna Brexit, se proseguono i tentativi, da destra e da sinistra, di azzoppare il suo piano per i futuri accordi commerciali. Un piano già impallinato in casa, prima ancora di arrivare a Bruxelles: sempre ieri, il dimissionario Ministro per la Brexit David Davis ha accusato il Primo Ministro di ‘sconvolgente disonestà” nel dire che non ci siano alternative al suo piano. Il suo vice Steve Baker, dimissionario per lo stesso motivo, ha rivelato al Telegraph di aver scoperto i piani di ‘una certa elite dell’establishment per una soft Brexit ”denunciando l’impossibilita per il suo Dipartimento di imporre una reale negoziazione. Perfino l’arci-Remainer Peter Mandelson ha definito il Libro Bianco “impraticabile” e il piano della May “un’umiliazione”.
Proprio oggi Theresa - a cui va riconosciuta una resilienza sovrannaturale, chissà se ispirata dalla Fede, dal senso del dovere o dall’attaccamento al Potere - deve superare, alla Camera dei Comuni un altro voto cruciale sul Trade Bill che importa nella legislazionebritannica tutti gli accordi commerciali firmati con laUE. L’approvazione o meno di certi emendamenti, da parte degli hard-brexiteers Tories o de i soft-brexiteers Labour, potrebbe vanificare il suo impegno di uscire dall'unione doganale, facendo saltare ogni progetto di strategia commerciale indipendente. “Il tradimento finale del referendum su Brexit” scrive, lasciandosi andare anche lei alla tossica retorica di questi tempi. E poi: ”È il momento di essere pratici e pragmatici”. Il Regno Unito che conoscevamo, pre-referendum, era proprio questo: pratico e pragmatico, e per questo affidabile, come la sua valuta. Un luogo di libertà condizionata - dal buonsenso. Un luogo sicuro, per camerieri e investitori internazionali. Molti osservatori, contro ogni evidenza, confidano nel fatto che lo sia ancora, e che il pasticcio Brexit si risolverà, alla fine, con qualche soluzione da uomini di mondo. Ma oltre l’ottimismo della volontà resta la spaventosa fotografia dell’intera fase post referendum: la proverbiale efficienza del civile service britannico imbavagliata dal conflitto di interessi fra le due anime del Partito Conservatore, la generale incompetenza della leadership, il servilismo dei media, la prevalenza di una propaganda mai così becera e irresponsabile, il prevalere nei partiti principali di calcoli immediati, di basso cabotaggio, mentre il Paese rischio lo schianto contro la realtà post Brexit.
Ha abbracciato la campagna per il Leave per ritagliarsi un ruolo da protagonista contro l’amico di una vita Cameron, certo che si trattasse solo di un facile ascensore per la leadership, una volta fatto fuori l’Ukip di Nigel Farage. Come tutti, non si aspettava che il Leave vincesse. E quando il Leave ha vinto si è trovato per le mani una bestia troppo difficile da domare. Si è ritirato dalla corsa, e poi ha passato il tempo a fare la spina nel fianco di Theresa May, approfittando di ogni occasione per sabotarne l’azione politicacon editoriali o dichiarazioni alternativi. Sono visioni grandiose e teoriche, richiami alla grandezza dell’impero, piani neocolonialisti, appelli alla sovranità perduta, ma nessuna soluzione negoziale pragmatica, nessun progetto per il confine nord-irlandese, nessuna consapevolezza delle preoccupazioni, per esempio, del mondo del business, liquidate settimane fa con un eloquente “Che vadano a farsi fottere”. Che si apra l’abisso, Boris si salverà.
Ora che Brexit non è più un gioco, e che la stima di cui godeva nel partito si è trasformata in sfiducia e derisione per le sue gaffes e la sua inadeguatezza, l’unica possibilità che gli resta per approdare a Downing Street è radicalizzarsi. Diventare l’uomo di Trump nel Regno Unito, la pedina del suo disegno di de-potenziamento dell’Europa. L’alleanza è stata preannunciata dalle dichiarazione favorevoli del Presidente su un suo eventuale mandato da Primo Ministro: e da oggi Boris riconquista il suo editoriale settimanale al Telegraph, quotidiano strategico per parlare all’elettorato conservatore non urbanizzato.
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