https://comune-info.net/ 7 marzo 2018
#MeToo è ormai in the World di Patrizia Larese
Lanciato poco più di vent’anni fa negli Stati Uniti, l’hashtag #MeToo, ideato per una campagna di denuncia da Tarana Burke, è oggi uno dei simboli mondiali del movimento delle donne che rompono il silenzio sulla violenza del patriarcato. Rimbalza dal Sudamerica alla Cina, dal Pakistan all’Arabia Saudita, varcando con estrema facilità i continenti per dar voce a una lotta che non si può fermare. Una lotta che sta alimentando una ribellione planetaria contro l’oppressione e affermando il diritto alla dignità per tutte e per tutti.
Nel 1996 Tarana Burke, attivista americana nera e direttrice di un campeggio per giovani, non avrebbe mai immaginato che sarebbe diventata l’ideatrice di una campagna internazionale che, dopo vent’anni, avrebbe coinvolto milioni di donne nel mondo: il movimento #MeToo.
“Come educatrice – così ha raccontato la Burke alla CNN – dopo aver ascoltato le violenze subìte da una ragazzina da parte del patrigno, mi resi conto che dovevo agire per aiutare le giovani donne nere, sopravvissute ad abusi, assalti e sfruttamento.” Nacque così il movimento “#MeToo” in difesa delle donne violate.
La sera del 15 ottobre 2017 l’attrice Alyssa Milano decide di usare l’hashtag #MeToo, ideato da Tarana Burke, dopo aver commentato con un’amica il racconto di Ashley Judd, pubblicato sul New York Times, sull’aggressione di cui era stata vittima l’attrice nel 1997 da parte del produttore Harvey Weinstein.
La Burke, direttrice di programmi dell’organizzazione di Brooklyn (New York) ‘Girls for Gender Equity’, ha ricevuto il riconoscimento pubblico di Alyssa, che ha diffuso in rete le sue iniziative ed ha considerato ‘straziante ed ispiratrice’ la storia che diede origine al movimento.
“Una delle sfide di “#MeToo”, al di là della sua popolarità attuale, sarà creare un punto di partenza per il recupero per altre sopravvissute. – ha dichiarato Tarana – La violenza sessuale o di genere deve essere affrontata come una questione di giustizia sociale.” La rivista Time ha reso omaggio alle donne che hanno rotto il silenzio nel mondo dello spettacolo, della politica, dei media e, più in generale, in ambito lavorativo premiando come “Persona dell’anno 2017” il movimento #MeToo.
Il settimanale statunitense ha voluto riconoscere quello che è stato definito “il cambiamento sociale più veloce che si sia visto in decenni, nato con atti individuali di donne e anche di alcuni uomini”. Sull’ultima copertina dell’anno sono apparse le foto delle cinque protagoniste che hanno dato il via ad una serie di denunce su scala mondiale: Ashley Judd, la prima attrice di Hollywood a denunciare Harvey Weinstein, Taylor Swift, la cantante che ha portato in tribunale un dj per molestie, la lobbista Adama Iwu, che ha svelato lo scandalo molestie nel governo dello stato di California, l’ingegnere di Uber Susan Fowler che ha fatto lo stesso a Silicon Valley e la raccoglitrice di fragole Isabel Pascual.
“Sono loro le donne simbolo che hanno dato il via ad un fenomeno che sembra nato ieri ma che in realtà ribolliva da anni, decenni, secoli!” ha scritto il Time.
Negli Stati Uniti il 20 gennaio scorso si è svolta in oltre 600 città la seconda edizione della Women’s March (la marcia delle donne) con una moltitudine di 3-4 milioni di persone. A distanza di un anno, le donne sono scese di nuovo in strada con l’onda rosa, dal colore dei cappelli simbolicamente indossati dalle dimostranti. Tra i messaggi scritti sui cartelli e sui volti delle attiviste c’erano vari riferimenti al movimento #MeToo.
Erano presenti attrici famose e politiche, come la leader dei Democratici alla Camera Nancy Pelosi e la senatrice democratica Kirsten Gillibran, ed anche molti uomini. A Los Angeles ha preso la parola di fronte alla folla l’attrice Scarlett Johansson, una delle prime 300 donne a costituire l’associazione Time’s Up, il cui scopo è combattere le molestie sessuali e i comportamenti inappropriati a Hollywood e nei normali posti di lavoro. Anche a Roma si è svolta una Women’s March. Tra le partecipanti c’era l’attrice Asia Argento, una delle donne che hanno subìto gli abusi di Weinstein. Intervistata in piazza ha dichiarato: “Il resto del mondo sta cambiando, qui in Italia non c’è stata solidarietà femminile da parte delle mie colleghe che lavorano nel cinema. Sono passati quattro mesi da quando è iniziata questa rivoluzione e nessuna donna, nessuna attrice ha alzato il pugno per dire ‘Sono dalla parte di Asia, di Miriana Trevisan’ quindi mi chiedo come possano cambiare le cose in questo Paese se non c’è solidarietà femminile. Sono qua per continuare ad affermare ciò che le altre donne nel resto del mondo stanno facendo…. L’attrice, la vedette, la donna che lavora nello spettacolo è un corpo, una meretrice, non viene creduta. Noi siamo in effetti le persone più in pericolo, ma allo stesso tempo siamo persone che possono parlare ai media e quindi possiamo cambiare le cose… Per quanto riguarda le parole espresse da Catherine Deneuve, penso che siano parole infelici che mi rendono triste come le parole di Brigitte Bardot. Donne che hanno lottato per l’aborto, per la pillola anticoncezionale, per il divorzio oggi si trovano a dire che gli piace avere una mano sul sedere quando si trovano sul tram. Penso che Brigitte Bardot, Catherine Deneuve non abbiano mai preso un bus, una metro nella loro vita, quindi non sanno cosa significhi. Questa è una battaglia per mia figlia e per le persone che avranno un futuro diverso grazie a questa lotta.”
Lo scandalo Weinstein ha dato vita negli Stati Uniti ad un nuovo movimento femminista che in pochi mesi ha conquistato il centro del dibattito politico. Le donne americane stanno entrando in politica con numeri mai visti prima. Lo racconta la rivista Time: “È in corso un aumento senza precedenti di donne che si candidano per ricoprire incarichi di vario tipo, dal senato statunitense ai parlamenti locali fino ai consigli scolastici. Nella maggior parte dei casi fanno parte del Partito Democratico e si candidano a qualcosa per la prima volta in vita loro.”
Attualmente le donne al congresso sono pochissime (circa il 20 per cento) e su cinquanta stati solo sei sono governati da donne. Il Partito democratico discute da anni di quale sia il modo migliore per aumentare la partecipazione e la rappresentanza politica femminile, ma ora la risposta sembra essere arrivata dal basso, proprio da quei movimenti che sono scesi in strada dal primo giorno della presidenza Trump. “Nel 2016 queste donne si consideravano semplici elettrici, nel 2017, quando c’era da contrastare il candidato Trump, sono diventate attiviste, e nel 2018 stanno scendendo in campo.”
In Francia, dove si sta preparando una legge contro le molestie di strada, il presidente Emmanuel Macron ha definito l’uguaglianza fra donne e uomini un grande obiettivo del suo mandato in una società, malata di sessismo.
In una lettera aperta apparsa su Le Monde, un centinaio di donne, fra cui l’attrice Catherine Deneuve, hanno assunto una posizione critica nei confronti del movimento contro le molestie sessuali.
“#MeToo ha dato vita a una campagna di delazioni e di accusa pubblica nei confronti di individui che, senza la possibilità di rispondere né di difendersi, sono stati messi esattamente sullo stesso piano di aggressori sessuali.” – ha affermato la Deneuve – Non mi piace questo effetto-branco, oggi troppo comune e per questo avevo delle riserve fin da ottobre su questo hashtag ‘#BalanceTonPorc’ (#denunciailtuoporco), diffuso in Francia. Mai nel testo della lettera si afferma che nelle molestie ci sia del buono, altrimenti non l’avrei firmato.”
“Lo stupro è un crimine. Ma l’adescamento insistente o maldestro non è un reato né la galanteria un’aggressione maschilista”, scrivono le firmatarie della lettera tra cui si trovano anche l’autrice Catherine Millet, l’editrice Joëlle Losfeld, l’attrice Ingrid Caven ed la giornalista Elisabetta Lévy.
Anche nelle società più patriarcali dell’America Latina, dove impera il machismo, la battaglia contro le molestie sessuali sta prendendo forza. Da Città del Messico a Buenos Aires, una generazione nuova sta alzando la voce, proponendo cambiamenti politici ed attirando l’attenzione sui soggetti inquietanti per i quali guardare maliziosamente, palpeggiare o peggio è prassi quotidiana. Tutto il Sud America ha firmato la convenzione delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne. 31 Paesi hanno bandito le molestie sessuali nel 2016, 24 lo avevano già fatto nel 2013 ed i burocrati continuano a prendere indicazioni dalle segnalazioni che provengono dalle strade.
Prima del ciclone Weinstein, un protagonista di una soap opera brasiliana fu messo alla gogna quando una delle vittime del suo studio rese pubblici i suoi reati in un blog femminista. Poco dopo altre donne celebri dello spettacolo indossarono in difesa della vittima una T-shirt con la scritta: “Mess with one woman, you mess with us all.” (Importuni una donna, importuni tutte noi). “Noi sapevamo che stavamo andando contro una delle figure pubbliche maschili con maggiore visibilità in Brasile”, ha dichiarato Manoela Miklos, responsabile del blog sulle donne e sul genere dove fu postata la storia della soap opera. “Purtroppo ci sono moltissime storie come questa da denunciare.” Durante le manifestazioni che si sono svolte le donne hanno richiesto tutele legali in Cile, nella Repubblica Domenicana, in Ecuador e in Messico, dove la violenza contro le donne è aumentata in maniera esponenziale.
In Argentina, nel 2016, il brutale stupro e l’uccisione di una adolescente di 16 anni ha provocato uno scalpore nazionale che si è riflesso anche all’interno del Congresso, tradizionalmente a prevalenza maschile. Le proteste contro la violenza hanno fatto sì che la legislazione fosse cambiata tanto che l’Argentina è il quinto paese latinoamericano a richiedere la parità di genere nelle liste dei candidati per la rappresentanza parlamentare.
Quando scoppia il caso Weinstein anche in Cina nasce il movimento #MeToo con l’hashtag #WoYeShi (#???) ma il governo e la stampa di regime cercano di sedare le discussioni on-line affermando che il problema delle molestie sessuali sia un evento prettamente occidentale. Le statistiche cinesi invece riportano dati ben diversi, ad ottobre 2017, è uscito un documento delle corti penali secondo cui l’aumento dei divorzi è dovuto principalmente a violenze domestiche. La violenza di genere è molto presente in questo Paese dove la società è maschilista, basti pensare che nell’ambito dei ruoli apicali del Partito Comunista non è presente neppure una donna. In una tale situazione è stato molto importante ciò che è avvenuto il primo giorno dell’anno, quando Luo Xixi ha pubblicato un lungo post su Sina Weibo – il principale sistema di microblog nella Repubblica Popolare – in cui accusava di molestie Chen Xiaowu, suo professore alla prestigiosa università Beihang di Pechino. «Dobbiamo avere il coraggio di dire no», ha tuonato Luo. Letto in pochi giorni quasi cinque milioni di volte, il messaggio ha acceso i riflettori sulle molestie sessuali in Cina.
Le molestie di Luo Xixi risalgono a 12 anni fa, ora la donna ha un Ph.D. e vive negli Stati Uniti. Proprio in America ha trovato la forza di denunciare e, prima di pubblicare il post, la trentenne ha raccolto prove e cercato testimonianze tra le colleghe di università. Quando il post di Luo Xixi è diventato virale, studentesse da una ventina di atenei cinesi hanno denunciato casi simili. Secondo un’indagine condotta in 15 università cinesi dalla Federazione delle donne – l’associazione ufficiale del Partito comunista – il 57% delle studentesse ha subìto una qualche forma di molestia sessuale. Mentre una ricerca dell’Università di Hong Kong rivela che l’80% delle donne cinesi ne è stata vittima sul luogo di lavoro. Per le attiviste femministe, in Cina è ancora troppo forte lo stigma sociale, così è improbabile che molte ragazze saranno disposte a farsi avanti. Anche chi decide di parlare deve fare i conti con leggi vaghe e lacunose, con la difficoltà nel fornire prove delle molestie subìte e la resistenza della polizia nell’accettare le denunce, soprattutto se coinvolgono personaggi ricchi e influenti. L’università Beihang, tuttavia, ha confermato che il professor Chen ha compiuto una «grave violazione» del codice di condotta dell’ateneo ed ha annunciato il suo allontanamento.
Anche in Pakistan c’è qualcosa di molto simile a #MeToo si chiama #UnbanVerna e significa “togliete il divieto su Verna“. È nato dopo l’uscita del film ‘Verna’, dove si racconta la storia di uno stupro, ed in seguito alla decisione del governo pakistano di vietarne la diffusione perché basato su un «tema troppo sensibile». Molte donne hanno iniziato a usare l’hashtag #UnbanVerna per parlare delle loro esperienze e affrontare un argomento che in Pakistan viene considerato tabù e per il quale si finisce spesso per colpevolizzare le stesse vittime di stupro.
In un primo momento il film era stato vietato perché secondo i censori “screditava le istituzioni” pakistane. Dopo una massiccia campagna di protesta, però, il bando è stato tolto. Verna è uscito nelle sale il 17 novembre e ha ottenuto un buon successo di pubblico, pur non convincendo interamente la critica.
In India Sunitha Krishnan è una delle più importanti attiviste in difesa delle donne, fondatrice di “Prajwala”, un’organizzazione che assiste le donne che sono state schiave sessuali, ha scritto sul suo account Twitter: “#MeToo è un movimento coraggioso per rompere il silenzio degli abusi sessuali, il giorno in cui diventerà #MeTooWillReport (#anch’io testimonierò) soltanto allora si trasformerà in una guerra contro i crimini sessuali. #MeToo dovrebbe essere sostituito completamente da #MeTooWillReport, solo quando gli uomini avranno paura e ci sarà una politica di prevenzione efficace, quando si romperanno le mura del silenzio, solo allora si potrà guardare avanti.”
Quando aveva 15 anni Sunitha fu violentata da otto uomini. Il suo ambiente, la sua comunità la giudicarono colpevole e non vittima di un crimine, deliberarono che non aveva un bel carattere e che aveva fatto qualcosa per meritarselo. Fu isolata, la sua famiglia smise di essere invitata ad eventi sociali, la ragazzina fu considerata una prostituta. “Dopo quel fatto, promisi a me stessa che non avrei lasciato che quell’evento mi distruggesse, che avrei recuperato ed avrei dedicato la mia vita a combattere la violenza sessuale. Volevo dare visibilità al problema ed aiutare altre donne. Ci sono migliaia di donne che non sono state violate solo una volta, come è successo a me, bensì cento volte…” Con il suo attivismo Sunitha si impegna nei confronti delle istituzioni, esigendo migliori politiche di assistenza e di prevenzione. “Non bisogna educare le nostre figlie affinché ‘badino’, ma è importante insegnare ai nostri figli che non siano aggressori ma che abbiano rispetto.” – sostiene la Krishnan.
Il movimento #MeToo è arrivato fino al cuore dell’Islam, alla Mecca, in Arabia Saudita. Su Twitter le testimonianze di musulmane che denunciano d’essere state vittime di abusi o molestie sessuali sono sempre più numerose, in particolare riferiscono di episodi accaduti durante l’Hajj, il pellegrinaggio alla Mecca, che riunisce circa due milioni di pellegrini da tutto il mondo ogni anno nei luoghi santi dell’Islam.
Ad innescare questo ennesimo processo di denuncia di abusi è stata la giornalista egizio-americana Mona Eltahawy che, all’inizio di febbraio, ha lanciato l’hashtag #MosqueMeToo. “Ho condiviso la mia esperienza di violenza sessuale subìta durante l’Hajj nel 1982, quando avevo 15 anni, nella speranza che sarebbe stata d’aiuto alle donne musulmane per rompere il silenzio e il tabù che circonda le loro esperienze di molestie o aggressioni patite durante il pellegrinaggio ai luoghi sacri.”
Una testimonianza che ne ha scatenate moltissime altre: 6.000 tweet sono stati pubblicati sul social network. “Una delle mie amiche è stata toccata durante l’Hajj e quando ha protestato i suoi compagni di pellegrinaggio le hanno chiesto di lasciar perdere”, dice Farisa Nabila.
“Le donne musulmane, come tutte le donne, sono molestate, ma quando accade in un contesto religioso, viene detto loro di stare zitte per una causa più grande di loro. È allo stesso tempo ingiusto e opprimente”, denuncia Aisha Sarwari, editorialista e femminista. Tarana Burke
Tutte le rivoluzioni sociali avanzano con difficoltà, a singhiozzo: due passi avanti ed uno indietro, fino a che non si realizzano completamente. Il movimento #MeToo ha già mostrato chiaramente che è servito come catarsi.
Personaggi famosi del mondo del cinema, della televisione e, negli ultimi giorni, anche manager e volontari di grandi ONG quali OXFAM, Save the Children e Medici senza Frontiere sono stati accusati di molestie, personaggi politici importanti hanno abbandonato i propri incarichi perché segnalati dai loro stessi partiti.
Le donne, grazie a questo movimento globale, si sentono meno sole nell’affrontare e sopportare l’ignominioso fardello della violenza, hanno vinto la vergogna, hanno acquisito maggiore consapevolezza nel riconoscere e denunciare i crimini di cui sono state vittime. Sentendosi appoggiate da migliaia, milioni di altre loro simili, sono state in grado di conquistare la determinazione e la fermezza necessarie per rivendicare la propria individualità e femminilità non solo nei propri confronti ma anche rispetto alle donne che non riescono ad avere l’energia e la forza per superare i terribili traumi patiti.
|