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24 Ottobre 2018

 

La disuguaglianza nelle società capitalistiche contemporanee

di Andrea Brandolini

 

Il 25 ottobre 2018, alle ore 18.30 al Circolo dei Lettori di Torino, Andrea Brandolini - Capo del Servizio Analisi statistiche, nel Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia - per il ciclo Parole del contemporaneo: salario.

 

Nel 2015 appena 62 individui disponevano della stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone – la metà più povera dell’umanità (Oxfam, 2016). 

 

La disuguaglianza dei redditi e della ricchezza è tema di grande attualità. Non passa giorno senza che il rapporto di un’organizzazione internazionale, un’inchiesta giornalistica, un blog ne sottolineino il valore elevato o l’inesorabile tendenza crescente, nei paesi avanzati e a livello globale. L’espressione “1 per cento” è entrata nel lessico quotidiano per indicare i ricchissimi, in contrapposizione alla massa assai più povera costituita dal rimanente 99 per cento della popolazione. Il successo di pubblico, oltre che accademico, del monumentale volume di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo è l’esempio forse più rappresentativo di un’attenzione impensabile fino a un decennio fa. 

 

È in larga parte una conseguenza della Grande Recessione del 2008-09 e della difficoltà dell’economia globale di tornare su un sentiero di crescita sostenuta, pur nella grande diversità tra le varie aree del mondo. Probabilmente rimane minoritaria la posizione di chi individua nella sperequazione dei redditi negli Stati Uniti uno dei fattori principali all’origine della Grande Recessione, ma non v’è dubbio che la crescita debole, se non ristagnante, abbia considerevolmente aumentato la preoccupazione per le disparità economiche all’interno dei paesi avanzati. All’indomani della Grande Recessione, un commentatore autorevole come Martin Wolf scriveva sul Financial Times che la riduzione della disuguaglianza è una delle sette sfide che il capitalismo dovrà affrontare per sopravvivere. Qualche mese dopo, il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, indicava disuguaglianza e qualità della crescita fra le tre priorità della politica economica mondiale: “la crescita è essenziale per il futuro dell’economia globale, ma deve essere una crescita di tipo differente. Una crescita che non sia semplicemente la conseguenza indiretta di una globalizzazione senza freni. Una crescita che sia inclusiva”.

 

Che esistano grandissime disparità economiche all’interno e tra i paesi del mondo è indiscutibile. La citata stima dell’Oxfam si basa su ipotesi di calcolo ardite e basi statistiche frammentarie, ma il suo significato non muterebbe se anche il numero dei ricchissimi fosse 100 o 1000 volte quello indicato. Non è però un fatto nuovo. Le stime della distribuzione dei redditi tra gli abitanti del mondo, anch’esse da prendere con grande cautela, indicano come la disuguaglianza globale abbia probabilmente raggiunto i valori più elevati, assai maggiori di quelli osservati in qualsiasi singola nazione, intorno ai primi anni Novanta. 

In gran parte dei paesi avanzati è da oltre un trentennio che la disuguaglianza dei redditi è in aumento. Lo segnalano sia i dati raccolti con le indagini campionarie sia le informazioni desunte dai dati fiscali. Questi ultimi, alla base dei lavori di Piketty, mostrano come la quota sui redditi prima delle imposte dell’1 per cento più ricco della popolazione diminuisca dagli anni tra le due guerre mondiali fino alla fine degli anni Settanta (Figura 1). Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Canada questa tendenza discendente si inverte bruscamente negli anni Ottanta e la quota è oggi sui valori anteguerra. Anche in Italia e in Svezia la dinamica cambia negli anni Ottanta, ma l’aumento seguente è assai più contenuto. In Germania l’inversione nel trend si manifesta in modo pronunciato più tardi, negli anni Duemila. In Francia la tendenza alla crescita è appena percettibile. Gli indici di concentrazione di Gini per i redditi disponibili equivalenti che riflettono l’effetto perequativo della tassazione e la condivisione delle risorse all’interno della famiglia, danno indicazioni qualitativamente simili per il lungo periodo, sebbene vi siano differenze su intervalli temporali più brevi.

Perché la disuguaglianza preoccupa e perché solo ora? Per rispondere a queste domande occorre volgersi all’intreccio tra fatti e teorie e tra spinte politiche e forze economiche.

 

Vizi privati, benefizi pubblici

 

... se un popolo aspira a essere grande, il vizio è necessario allo Stato quanto la fame per mangiare. La virtù da sola non può far vivere le nazioni nello splendore; coloro che vorrebbero far tornare l’età dell’oro insieme con l’onestà debbono accettare le ghiande.

Bernard Mandeville, 1714 

 

Bernard Mandeville era un medico olandese, nato a Rotterdam nel 1670, specializzato in isteria e ipocondria. Passò gran parte della vita adulta a Londra, dove divenne famoso per un pamphlet politico pubblicato nel 1714 con il titolo La favola delle api: ovvero vizi privati benefizi pubblici. Il pamphlet raccontava di una società di api ricca e prospera, invidiata e temuta dagli alveari vicini, nonostante che vi fossero grandi disparità: molti che svolgevano lavori faticosi, altri che vivevano nell’ozio e nel lusso. Un giorno, per intervento divino, tutte le api divennero probe e oneste. Scomparvero sprechi, lusso e ingiustizie, ma alla fine le api, tese a produrre solo ciò che era necessario senza alcuna concessione al superfluo si ridussero in miseria. Non gli rimase altro che essere contente della propria onestà.

Il pamphlet destò scandalo, perché considerato portatore di idee libertine, ma ebbe grande influenza sull’agenda degli economisti nei decenni successivi. Il suo influsso trapela nella famosa descrizione che Adam Smith diede della divisione del lavoro: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi”.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v80), quality = 75 Bernard Mandeville.

 

L’idea che il benessere collettivo si raggiunga quando ciascuno è libero di perseguire egoisticamente la propria utilità personale ha permeato una parte importante della disciplina economica. Il primo teorema fondamentale dell’economia del benessere di Kenneth Arrow e Gérard Debreu, il culmine della ricerca teorica fondata sull’ipotesi di agenti atomistici che massimizzano la propria utilità, stabilisce che sotto certe condizioni un equilibrio concorrenziale è un ottimo Paretiano, cioè non esiste alcuna allocazione alternativa dei consumi che aumenti l’utilità di un individuo senza ridurre quella di qualcun altro. Nondimeno, l’efficienza dell’equilibrio competitivo non implica che esso sia anche equo, perché dipende da una distribuzione originale delle risorse che è data e può essere assai sperequata. “Se la vita della massa dei poveri non può essere resa migliore senza intaccare la ricchezza dei ricchi”, scrive Amartya Sen, “la situazione sarebbe un ottimo Paretiano nonostante la disparità tra i ricchi e i poveri”.

 

Le condizioni alla base del teorema di Arrow e Debreu non sono mai soddisfatte in realtà e la ricerca successiva ha a lungo indagato cosa accade quando l’informazione è imperfetta, i beni non sono omogenei, le imprese hanno potere di mercato, esistono barriere all’entrata e così via. Parallelamente, tuttavia, una nozione stilizzata di equilibrio economico generale diveniva la base (“micro-fondazione”) della teoria macroeconomica anti-keynesiana sviluppatasi negli anni Settanta e centrata sul concetto di “agente rappresentativo”. Per costruzione, spiegare gli andamenti economici in base al comportamento ottimizzante di un unico agente “rappresentativo” degli individui (o delle imprese) che interagiscono nella società significa ignorarne la grande eterogeneità. Non vi sono molte possibilità per analizzare la distribuzione personale dei redditi con questo approccio, largamente dominante pur con sfaccettature diverse. Non sorprende, quindi, la lapidaria affermazione di Robert Lucas: “Tra le tendenze dannose per una solida analisi economica, la più seducente, e a mio parere la più velenosa, è concentrarsi sulle questioni distributive. ... Il potenziale per migliorare le vite dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione corrente è nulla in confronto al potenziale apparentemente illimitato di incrementare la produzione”.

 

Anche abbandonando il mondo dell’agente rappresentativo, è diffusa l’idea che esista un conflitto tra equità ed efficienza, per almeno due ragioni. Da un lato, l’accumulazione di capitale può richiedere un’elevata concentrazione della ricchezza poiché molti investimenti sono indivisibili e richiedono un ingente ammontare iniziale di risorse che non può essere raccolto su mercati finanziari imperfetti. Dall’altro, una distribuzione egualitaria può rappresentare un disincentivo per gli individui a impegnarsi nelle loro attività. Come scriveva Arthur Okun in Equality and Efficiency. The Big Tradeoff: “Una società capitalistica democratica andrà alla continua ricerca dei modi migliori per tracciare il confine tra il dominio dei diritti e il dominio dei dollari. E può fare progressi. Di certo però, non verrà mai a capo del problema, perché il conflitto tra uguaglianza ed efficienza economica è inevitabile”.

I nessi tra distribuzione delle risorse e crescita economica sono tuttavia molto più complessi. Primo, la distribuzione può influenzare la domanda aggregata. Una maggiore disuguaglianza può ridurre la domanda attraverso effetti di tipo keynesiano, poiché la propensione al consumo è correlata negativamente con il reddito. Inoltre, nelle fasi di decollo industriale, l’esistenza di un’ampia classe media può essere una condizione per il consolidamento dell’industrializzazione quando l’adozione di tecnologie più avanzate richieda un livello critico di domanda interna: con un’eccessiva concentrazione della ricchezza la domanda dei possidenti si rivolgerebbe a beni di lusso prodotti all’estero, mentre con una distribuzione egualitaria si rischierebbe di non generare domanda sufficiente ad attivare la produzione interna. Secondo, ipotizzando che gli individui abbiano preferenze ben definite in funzione del loro reddito, la combinazione di imposte e trasferimenti scelta in un sistema democratico maggioritario è quella preferita dall’elettore “mediano”, che si colloca esattamente a metà della distribuzione dei redditi.

 

Quanto più questi è povero, tanto maggiore è la redistribuzione preferita e tanto minore è, di conseguenza, la crescita, poiché le imposte influenzano negativamente gli incentivi a investire: così la disuguaglianza (misurata dalla distanza della mediana dalla media) ostacola la crescita economica. Terzo, le imperfezioni nei mercati finanziari possono impedire agli individui poveri di sfruttare le possibilità di investimento quando non abbiano abbastanza capitale da offrire in garanzia: non potendo prendere a prestito, potrebbero per esempio trovarsi nell’impossibilità di investire in istruzione ed essere costretti ad accettare lavori a più bassa qualifica e meno retribuiti. Una distribuzione sperequata intralcia così l’accumulazione di capitale umano e frena la crescita. L’interazione tra asimmetrie informative e distribuzione disuguale può portare ad allocazioni delle risorse inefficienti in vari altri modi.

Una volta confutato sul piano teorico che esista necessariamente un conflitto tra uguaglianza e crescita, la questione si sposta sul terreno empirico. Le stime degli anni Novanta sono giunte a risultati contrastanti, anche se in prevalenza il legame è risultato positivo. Gli studi più recenti confermano che la relazione è complessa ed è difficile trovare una solida relazione univoca. Tralasciando i problemi posti dalla qualità dei dati, la ragione di questa indeterminatezza va probabilmente ricercata nel fatto che la relazione tra distribuzione delle risorse e crescita economica dipende dalle istituzioni politiche, sociali ed economiche e varia quindi nel tempo e tra paesi.

Ciò nonostante, la concreta possibilità che una distribuzione sperequata abbia conseguenze negative per la crescita, unitamente alla consapevolezza che occorra tenere conto dell’eterogeneità degli agenti economici, visto il fallimento dei modelli macroeconomici basati sull’agente rappresentativo, spiega perché all’indomani della Grande Recessione sia rapidamente salito l’interesse per gli aspetti distributivi. È un interesse “strumentale”: il livello della disuguaglianza è importante per i potenziali effetti destabilizzanti sull’economia, non perché segnala una distribuzione delle risorse ingiusta. Gli sviluppi dell’analisi teorica ed empirica non sono però l’unica ragione per l’emergere della questione distributiva.

 

Effetto tunnel

 

Supponiamo che io percorra in automobile una galleria a due corsie, entrambe orientate nello stesso senso di marcia, e che m’imbatta in un brutto ingorgo di traffico. Per quanto riesco a vedere (che non è molto), nessuna automobile si muove né nell’una né nell’altra corsia. Io mi trovo nella corsia di sinistra, e mi sento avvilito. Dopo qualche tempo, le automobili nella corsia di destra cominciano a muoversi. Naturalmente, il mio umore migliora considerevolmente, perché so che l’ingorgo è stato risolto, e che il turno della mia corsia verrà da un momento all’altro. Anche se sto ancora fermo, mi sento molto meglio di prima, grazie appunto all’attesa che assai presto potrò muovermi. Ma supponiamo che l’attesa venga delusa, e che soltanto la corsia di destra continui a muoversi. Ebbene, in questo caso io, e con me i miei compagni di sventura, sospetterò un imbroglio; e ad un certo punto molti di noi monteranno su tutte le furie, e saranno pronti a correggere la patente ingiustizia ricorrendo all’azione diretta (per esempio attraversando illegalmente la doppia striscia bianca che separa le due corsie).

Albert Hirschman, 1973 

 

Nel dibattito sulle politiche di sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta, Albert Hirschman introdusse “l’effetto tunnel” per spiegare come la tolleranza sociale per le disuguaglianze dipenda dalle caratteristiche del processo di crescita e come una distribuzione diseguale dei frutti dello sviluppo non generi necessariamente instabilità politica, rivolte popolari e risposte autoritarie. L’intuizione dell’effetto tunnel è però più generale.

Nell’ultimo trentennio il funzionamento dell’economia globale è stato radicalmente trasformato dall’integrazione dei mercati reali e finanziari e dalla rivoluzione delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Questa trasformazione è coincisa con un miglioramento degli standard di vita in molte aree del pianeta, in particolare in Asia. Secondo le stime della Banca Mondiale, il numero delle persone che vivono in povertà estrema (con meno di 1,90 dollari al giorno a parità di potere d’acquisto del 2011) si è più che dimezzato tra il 1990 e il 2012, passando da 1.959 a 897 milioni; la loro quota sulla popolazione mondiale è diminuita dal 37,1 al 12,7 per cento. Il processo di convergenza che ha visto le economie emergenti crescere molto più rapidamente delle economie mature non ha solo ridotto l’incidenza della povertà estrema in quei paesi, ma ha anche contribuito a ridurre il livello della disuguaglianza mondiale, nonostante l’aumento dei divari di reddito all’interno di molti paesi. Si è attuata quella che François Bourguignon ha definito una “internalizzazione” della disuguaglianza mondiale per cui le disparità tra americani e cinesi sono state in parte rimpiazzate da maggiori disparità tra ricchi e poveri negli Stati Uniti e tra ricchi e poveri in Cina.

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v80), quality = 75 Albert Hirschman.

 

Questa internalizzazione è l’altra faccia dei cambiamenti innescati dai progressi tecnologici e dalla globalizzazione. Nelle economie mature, l’organizzazione del lavoro è mutata, a favore dei lavori più qualificati e a svantaggio delle mansioni più ripetitive; pressati dalla mobilità dei capitali, allo scopo di recuperare competitività i governi hanno liberalizzato i mercati dei beni, deregolamentato il mercato del lavoro, diminuito le aliquote fiscali marginali, ridimensionato le politiche sociali e assistenziali. Questi processi hanno generato vincitori e perdenti. Le differenti dinamiche dei redditi sono state inizialmente “tollerate”, talvolta anche sostenendo i livelli di vita con un maggiore indebitamento, in attesa di un riequilibrio che non è però avvenuto. In linea con l’effetto tunnel, questo stato di cose non poteva durare senza che a un certo punto riemergesse la questione dell’equità della distribuzione. Ciò è avvenuto con la Grande Recessione, innescata da comportamenti speculativi, più o meno leciti, su mercati finanziari deregolamentati, ma dalle pesanti ripercussioni sull’economia reale. La crescita delle posizioni populistiche e antisistema è l’esito politico dell’effetto tunnel. È un esito che contribuisce a spiegare l’attenzione attuale alla questione distributiva anche in circoli finora refrattari a tenerne conto. Un esito prevedibile. Come avvertiva Dani Rodrik vent’anni fa, “la sfida più seria all’economia mondiale negli anni a venire sta nel rendere la globalizzazione compatibile con la stabilità domestica, sociale e politica – ovvero, detto in modo ancor più diretto, nell’assicurare che l’integrazione economica internazionale non contribuisca alla disintegrazione sociale domestica”.

 

Episodi non trend

 

… è fuorviante parlare di “trend” nel descrivere l’evoluzione dal dopoguerra della distribuzione dei redditi … in numerosi paesi può essere meglio pensare in termini di “episodi” in cui la disuguaglianza è diminuita o aumentata.

Anthony Atkinson, 1997 

 

I sette paesi ricchi considerati nella Figura 1 condividono un profilo temporale della disuguaglianza a U. Quest’evidenza può spingere a concludere che l’andamento della disuguaglianza sia determinato da fattori comuni, che è naturale identificare con la globalizzazione e la rivoluzione tecnologica. A un’analisi più accurata si osserva tuttavia che la forma della U è diversa da un paese all’altro: varia il periodo in cui si osservano i valori minimi e la lunghezza di questo periodo; varia di quanto il braccio destro è speculare a quello sinistro; la dinamica non è uniforme, ma segmentata. Come nota Anthony Atkinson, la disuguaglianza appare muoversi in modo irregolare, configurando una successione di episodi più che trend ben definiti di lungo periodo. Mutamenti cospicui si concentrano spesso in tempi relativamente brevi, intercalati da fasi in cui poco cambia.

Ciò suggerisce che le cause di fondo comuni come progresso tecnologico, globalizzazione ed evoluzione demografica interagiscono con fattori nazionali specifici, riconducibili ai cambiamenti dei sistemi fiscali e di protezione sociale, degli istituti del mercato del lavoro o della struttura proprietaria, in ultima analisi agli equilibri politico-sociali di una comunità nazionale. Questi fattori non sono indipendenti l’uno dall’altro. Per spiegare l’evoluzione della distribuzione occorre quindi calare l’analisi delle grandi forze comuni nel contesto storico di un paese, concentrandosi in particolare sugli snodi cruciali in cui cambiano questi equilibri politico-sociali.

 

Era il tempo della speranza

 

In un clima di forte e crescente tensione il 21 dicembre, con la mediazione del ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, viene firmato il contratto nazionale dei metalmeccanici per il settore privato. Quello per le Partecipazioni statali era già stato firmato il giorno 9. Tra i risultati conseguiti ci sono: le 40 ore settimanali di lavoro; gli aumenti salariali uguali per tutti; i vincoli allo straordinario; il diritto di assemblea in fabbrica; le garanzie contro gli abusi disciplinari; il superamento delle differenze tra operai e impiegati nei trattamenti di malattia e infortunio. Si chiudeva così una vicenda importante e, per certi versi, una stagione.

     Il 1969 sindacale è stato certamente un fattore di proporzioni straordinarie, ma non una rottura assoluta con il passato. Come lo era stato invece per gli studenti. Tutto il decennio Sessanta può essere infatti considerato una lunga incubazione, una lunga preparazione teorica e pratica. Un importante (e forse irripetibile) periodo di sperimentazioni contrattuali e rivendicative.

Pierre Carniti, 2001 

 

L’“autunno caldo” è uno snodo cruciale per la società italiana. Esso chiuse la stagione di “incubazione” degli anni Sessanta e ne aprì un’altra, una fase “egualitaria” durata poco più di un decennio che ha radicalmente cambiato gli assetti sociali e distributivi del Paese. Quella fase egualitaria coincise con un periodo di grandi mutamenti del quadro internazionale, caratterizzato dalla fine degli accordi di Bretton Woods, da due shock petroliferi, dal ritorno dell’inflazione e dalla fine di quel trentennio di rapida crescita delle economie capitalistiche seguito alla seconda guerra mondiale poi definito l’era d’oro del capitalismo.

In Italia, per tutti gli anni Settanta il conflitto sociale si mantenne molto acuto e la capacità di rappresentanza dei sindacati raggiunse un punto di massimo (Figura 2). I rapporti di forza si spostarono nettamente a favore del lavoro e alla metà del decennio la sua quota sul prodotto nazionale raggiunse i valori più elevati dal dopoguerra. Nell’industria, i redditi dei lavoratori dipendenti giunsero a rappresentare quasi i due terzi del valore aggiunto, da meno della metà nei primi anni Cinquanta. In un contesto in cui le domande retributive erano fortemente egualitarie maturò la riforma del meccanismo di indicizzazione del 1975 che portò all’adozione del punto unico di scala mobile. Associata a tassi di inflazione a due cifre, questa regola di indicizzazione si tradusse in una rapida compressione della struttura retributiva almeno fino ai primi anni ottanta, come anticipato all’epoca dalle analisi più attente.

La tendenza verso una minore dispersione delle retribuzioni negli anni Settanta fu generalizzata: si manifestò in una riduzione dei differenziali tra i diversi livelli di inquadramento (almeno nel comparto metalmeccanico), dei divari tra i vari settori, delle disparità complessive tra i lavoratori dipendenti, anche al netto delle imposte sul reddito. Questa spinta perequativa si propagò dalle retribuzioni ai redditi personali imponibili e ai redditi familiari complessivi: come mostrato nella Figura 1, la quota di reddito ante-imposta dell’1 per cento più ricco e l’indice di Gini dei redditi disponibili equivalenti scesero nei primi anni Ottanta a valori storicamente tra i più bassi.

 

La fase egualitaria non si limitò alla distribuzione dei redditi, ma riguardò altre dimensioni della qualità di vita, come gli orari e le condizioni sul posto di lavoro, ricordati nella citazione di Carniti, o la protezione offerta dal sistema di sicurezza sociale. Nel 1978 venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale, il primo dell’Europa continentale, volto ad assicurare trattamenti sanitari universali, gratuiti e uguali per tutti. Quelle riforme contribuirono a diminuire le disuguaglianze nei livelli di vita, in un senso più ampio di quello colto dai soli redditi monetari, anche negli anni seguenti. Lasciarono tuttavia questioni irrisolte: l’aumento della spesa sociale avvenne al prezzo di un’impennata del debito pubblico ed emersero problemi strutturali che avrebbero indebolito la crescita economica nei decenni successivi.

 

La società dell’insicurezza     

 

... tanto maggiore diventerà il numero dei rapporti di lavoro “deregolamentati” e “flessibilizzati” e tanto più la “società del lavoro” tenderà a trasformarsi in “società dell’insicurezza”. E nel regime dell’insicurezza tutto può essere teoricamente possibile, ma nulla può essere concretamente prevedibile e, tanto meno, predeterminabile. La società dell’insicurezza sfugge infatti a qualsiasi previsione. Sia per le persone e le loro condizioni di vita, sia per le dinamiche politiche e sociali. Nulla autorizza a escludere che una tale prospettiva non possa addirittura mettere in pericolo la stessa democrazia. 

Pierre Carniti, 2001 

            

La spinta egualitaria venne meno nei primi anni Ottanta e, come si è visto, in molti paesi avanzati iniziò allora un lungo periodo di aumento delle disuguaglianze. In Italia, la parola d’ordine degli aumenti salariali uguale per tutti e l’appiattimento retributivo conseguente anche all’operare della scala mobile contribuirono a incrinare il rapporto tra le tre maggiori confederazioni sindacali e le fasce più professionalizzate dei lavoratori. La “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati della Fiat nell’ottobre del 1980 a Torino – che “quarantamila non erano”, commenterebbe Pierre Carniti – segnò simbolicamente la spaccatura.

           

Questa frattura costituì un elemento importante nell’indebolimento della capacità di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori, un elemento del tutto interno alla strategia sindacale, che discese dal perseguimento di un obiettivo intrinseco, l’egualitarismo salariale, a prescindere dal contesto e dalle conseguenze. Come ha osservato Trentin, la “scorciatoia egualitaria nelle rivendicazioni salariali” rappresentava, nonostante molti giusti motivi, “... l’illusione velleitaria di definire in un contratto un salario più o meno indipendentemente non solo dalla realtà, dura a morire, di un mercato del lavoro nel quale la domanda e l’offerta erano anche influenzate dalla scarsità relativa di lavoro professionalizzato, ma anche dalla articolazione professionale effettivamente esistente nel mondo del lavoro e in tutti i luoghi di lavoro. Un’articolazione questa, che rifletteva anche un patrimonio di saperi e di competenze, a volte acquisiti ad alto prezzo, con duri sacrifici, da lavoratori che il sindacato avrebbe dovuto difendere con maggiore rigore, tenendo conto non solo delle loro specifiche e diverse condizioni di prestazione, ma anche delle loro specifiche aspirazioni”.  Non fu però questo il solo elemento di erosione della forza del sindacato, né fu il più rilevante.

           

L’era d’oro del capitalismo aveva portato a una compressione dei profitti e a un rafforzamento della posizione contrattuale delle organizzazioni dei lavoratori che sfidava l’autonomia decisionale delle imprese sugli investimenti e sulla stessa organizzazione del lavoro. La risposta del capitale prese la forma di politiche di outsourcing di parte delle attività, di offshoring e graduale spostamento dell’attività di produzione verso paesi “emergenti”, di sviluppo di tecnologie che permettono di risparmiare lavoro, soprattutto non qualificato. Sotto questo profilo, rivoluzione tecnologica e globalizzazione assumono un connotato in parte differente: non sono solo il frutto di fattori esogeni quali i risultati della ricerca scientifica o l’evoluzione delle relazioni internazionali, ma rappresentano anche scelte strategiche che hanno consentito alle imprese di recuperare potere negoziale. Ne è disceso un indebolimento progressivo della capacità dei sindacati di contrastare uno spostamento della divisione del prodotto a favore dei manager e degli azionisti, a scapito soprattutto dei lavoratori inquadrati nelle mansioni più basse e meno qualificate, e più in generale di condizionare le decisioni aziendali.

           

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v80), quality = 75 Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

 

Queste tendenze sono state più marcate negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove le dinamiche più strettamente economiche si sono intrecciate con la riscossa di una cultura centrata sul ruolo esclusivo del mercato, teorizzata dalla reazione anti-keynesiana nella disciplina economica e culminata con le vittorie politiche di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. In entrambi i paesi, a un aumento dei differenziali nelle remunerazioni da lavoro si sono sommate le politiche decise dai governi conservatori di riduzione delle imposte sui redditi più elevati e ridimensionamento della spesa sociale. Nell’Europa continentale, probabilmente per la resistenza di un modello di relazioni sociali più corporativo e per una diversa struttura produttiva, queste tendenze si sono sviluppate più lentamente e in forme diverse. Hanno però spinto le organizzazioni sindacali su posizioni sempre più difensive, portandole a concentrarsi sulla difesa della propria base di rappresentanza rispetto alla tutela di interessi più generali. Anche per questa ragione, gli oneri delle riforme della disciplina dei rapporti di lavoro e dei sistemi previdenziali sono ricaduti soprattutto sui nuovi entranti nel mercato del lavoro e hanno penalizzato maggiormente le classi più giovani.

           

In Italia, l’esito dei cambiamenti nell’organizzazione del lavoro è evidente osservando l’incidenza dei rapporti di lavoro “atipici” tra le varie classi di nascita, dove con atipico si intende, con una rozza approssimazione, ogni occupazione a tempo determinato o a tempo parziale, dipendente o autonoma. Tra i 30 e i 35 anni di età, aveva un’occupazione atipica appena il 6 per cento dei nati negli anni Cinquanta; questa quota sale al 12 per cento per i nati negli anni Sessanta e al 22 per i nati negli anni Settanta e, in futuro, a valori probabilmente ancora più alti per i nati nei due decenni successivi (Figura 3). Allo stesso tempo, le retribuzioni reali al primo impiego sono diminuite progressivamente, comportando un peggioramento della condizione dei giovani sul mercato del lavoro dovuto non tanto alla riduzione delle possibilità occupazionali quanto alla flessione dei livelli salariali e all’accresciuta incertezza sulle prospettive di carriera, con riflessi duraturi sui loro redditi complessivi lungo il ciclo di vita.

           

Questa tendenza alla frammentazione dei rapporti di lavoro è comune a tutte le economie avanzate. È probabilmente destinata ad accentuarsi con la diffusione di micro-attività imprenditoriali rese possibili dall’innovazione, come guidare un taxi per Uber o affittare una stanza nel proprio appartamento con Airbnb. Come ha scritto Branko Milanovic, la prospettiva è di una società dove “nessuno sarebbe disoccupato e nessuno avrebbe un impiego”. Sul futuro del lavoro e dell’uguaglianza incombe il rischio che la nuova rivoluzione tecnologica dei robot e dell’internet delle cose possa portare a una massiccia distruzione di posti di lavoro. Anche se questa previsione non è universalmente condivisa, si pone la questione politica se le scelte tecnologiche siano di esclusiva competenza delle imprese. La risposta di Atkinson, nel suo illuminante Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, è negativa: secondo la prima delle sue quindici proposte per ridurre la disuguaglianza, “la direzione del cambiamento tecnologico deve essere una preoccupazione esplicita dei decisori politici; va incoraggiata l’innovazione in una forma che aumenti la possibilità dei lavoratori di avere un’occupazione e metta in risalto la dimensione umana nella fornitura di servizi”.

 

Per concludere

           

Tre punti meritano di essere ripresi alla fine di queste sparse riflessioni sulla disuguaglianza nelle società capitalistiche contemporanee. Il primo è che l’interpretazione della dinamica della disuguaglianza nel lungo periodo richiede l’analisi di una molteplicità di forze, alcune trasversali alle economie del mondo, altre specifiche dei contesti nazionali. Vi sono congiunture storiche ove si situano i punti di svolta: lo studio di questi “momenti fatali” è essenziale. Secondo, la preoccupazione per la disuguaglianza risponde sia a motivi intrinseci – l’aspetto normativo di equità – sia a motivi strumentali – le conseguenze che può avere su altri obiettivi rilevanti. Perseguire gli uni indipendentemente dagli altri può mettere a rischio il fine di una minore disuguaglianza. Terzo, gli andamenti distributivi non sono solo l’esito dell’interazione tra forze economiche e strutture politico-istituzionali, ma dipendono anche dalle teorie economiche e dagli usi che se ne fanno nell’indirizzare le scelte di politica economica. Sta agli economisti superare una certa inerzia di pensiero, soprattutto nel momento in cui si affronta la questione del “che fare” per ridurre le disuguaglianze.

 

Evoluzione della disuguaglianza dei redditi in sette paesi avanzati.

 

Fonti e note: Quota di reddito dell’1% più ricco: elaborazione su dati tratti da The World Wealth and Income Database–WID (scaricati il 28 agosto 2016) relativi ai redditi imponibili lordi; per il Canada, la serie 1920-2000 è calcolata su dati tabulati per classi di reddito, mentre la serie 1982-2010 è calcolata su dati individuali per contribuente; per il Regno Unito, i dati si riferiscono a coppie sposate e adulti singoli fino al 1989 e individui adulti dal 1990 in poi. Indice di concentrazione di Gini: elaborazione su dati tratti da fonti nazionali per i redditi disponibili equivalenti; le serie sono indicative degli andamenti qualitativi, poiché ottenute retropolando segmenti di serie parzialmente comparabili e ignorando alcune discontinuità. Per entrambe le statistiche, i livelli non sono comparabili tra paesi a causa delle diverse definizioni dei redditi sottostanti.

 

Conflitti di lavoro, rappresentanza sindacale e quota del lavoro in Italia.

 

Fonti e note: Tasso di conflittualità sul lavoro: ore non lavorate per conflitti di lavoro nell’industria e nelle costruzioni per unità standard di lavoro dipendente; elaborazione su dati tratti da Istat per i conflitti di lavoro e da Prometeia (1951-1995: R. Golinelli, “La banca dati su dischetto per la contabilità nazionale in Italia in base 1990 (1951-1995)”, mimeo) e Istat (1995-2015) per le unità standard di lavoro dipendente. Grado di rappresentanza sindacale: quota degli iscritti al sindacato (al netto degli iscritti che sono lavoratori autonomi, disoccupati, studenti e pensionati) sul totale dei lavoratori dipendenti; elaborazione su dati tratti da J. Visser, “ICTWSS Data base – Version 5.0” (Amsterdam, Amsterdam Institute for Advanced LabourStudies AIAS, October 2015, archive.uva-aias.net/208). Quota del lavoro dipendente: rapporto tra i redditi da lavoro dipendente e il valore aggiunto al costo dei fattori nell’industria; elaborazione su dati Prometeia e Istat.

 

Fonti e note: elaborazione su dati Istat, Rilevazione sulle forze di lavoro. Tasso di occupazione: rapporto tra numero di occupati e popolazione residente in ciascuna classe di età. Quota di occupati “atipici”: rapporto tra numero di lavoratori con un’occupazione a tempo determinato o a tempo parziale, dipendente o autonoma, e numero di occupati totali in ciascuna classe di età.

 

 

Questo saggio è estratto da Pensiero, azione, autonomia. Saggi e testimonianze per Pierre Carniti, Edizioni del lavoro, 2017. Per facilitare la lettura secondo la nostra linea editoriale sono state tolte le note.

 

 

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