Fonte: www.strategic-culture.org

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15 luglio 2018

 

Le elites globaliste temono la pace, vogliono la guerra

di Federico Pieraccini

Scelto e tradotto da Markus

 

Talvolta, la realtà è più strana della fantasia. Quello che segue è talmente sbalorditivo che, per dargli credibilità, è necessario citare le fonti e riportare le frasi esattamente così come sono.

 

Un tipico esempio è questo titolo: “Cresce la paura per un possibile accordo di pace fra Trump e Putin”. Il Times, evidentemente, non teme una escalation militare in Ucraina, uno scontro armato in Siria, un finto avvelenamento in Inghilterra o una nuova Guerra Fredda. Il Times non ha paura dell’apocalisse nucleare, della fine dell’umanità, delle sofferenze di centinaia di milioni di persone. No, uno dei più autorevoli e rispettati quotidiani del mondo si preoccupa di una prospettiva di pace! Il Times teme che i capi di stato delle due superpotenze nucleari riescano a parlare fra di loro. Il Times ha paura che Putin e Trump siano in grado di raggiungere una qualche forma di accordo che possa allontanare il pericolo di una catastrofe globale. Questi sono i tempi in cui viviamo. E questi sono i media con cui abbiamo a che fare. Il problema del Times è che influenza l’opinione pubblica nel peggior modo possibile, confondendo, ingannando e disorientando i suoi lettori. Non è un caso che il mondo in cui viviamo sia sempre più scollegato dalla logica e dalla razionalità.

Anche se da questo meeting non scaturirà nessun passo in avanti significativo, la cosa più importante che si sarà ottenuta sarà il dialogo fra i due leaders e l’apertura di canali per futuri negoziati fra le due parti.

Nell’articolo del Times si da per scontato che Trump e Putin vogliano raggiungere un accordo riguardante l’Europa. L’insinuazione (dell’articolista) è che Putin stia manipolando Trump allo scopo di destabilizzare l’Europa. Per anni siamo stati inondati con menzogne del genere dai media, megafono degli editori e dei loro azionisti, tutti appartenenti al conglomerato del Deep State. I fatti hanno però dimostrato che Putin ha sempre voluto un’Europa forte ed unita, un’Europa che fosse integrabile nel sogno euroasiatico. Putin e Xi Jinping preferirebbero vedere un’Unione Europea più resistente alle pressioni americane e in grado di esprimere una maggiore indipendenza. La combinazione delle migrazioni di massa e delle sanzioni contro Russia ed Iran, che hanno finito con il danneggiare gli Europei, apre la strada a partiti alternativi, non necessariamente desiderosi di ottemperare agli ordini di marcia di Washington.

L’obbiettivo di Trump per questo meeting sarà quello di convincere Putin a fare ulteriori pressioni sull’Europa e sull’Iran, magari in cambio del riconoscimento della Crimea e della fine delle sanzioni. Per Putin e per la Russia questo è un problema strategico. Anche se le sanzioni sono un inconveniente, le priorità principali di Mosca sono sempre l’alleanza con l’Iran, la necessità di intensificare i rapporti con i paesi europei e la sconfitta del terrorismo in Siria. Forse solo una revisione del trattato ABM e il ritiro di queste armi dall’Europa sarebbe un’offerta che potrebbe interessare Putin. In ogni caso, la realtà ci insegna che il trattato ABM è un pilastro del complesso militare-industriale di Washington e che sono proprio le nazioni dell’Est Europeo a volere questi sistemi offensivi e difensivi nelle loro nazioni, come deterrente nei confronti della Russia.

Sono vittime della loro stessa propaganda, o ci sono milioni di dollari che arrivano nelle tasche di qualcuno? Sia come sia, in realtà, questo non ha importanza. Il punto cruciale per Mosca sarà il ritiro dei sistemi ABM Aegis Ashore, anche quelli imbarcati sulle navi da guerra. Ma questo è qualcosa che Trump non sarà in grado di negoziare con i propri capi militari. Per il complesso militare-industriale, il sistema AMB, grazie a manutenzione, migliorie e commissioni dirette ed indirette, è una miniera d’oro, che in tanti vorrebbero continuare sfruttare.

Dal punto di vista del Cremlino, la rimozione delle sanzioni rimane la condizione indispensabile per la ripresa di normali relazioni con l’Occidente. Ma questo è difficile da ottenere, dato che Mosca ha poco da offrire come contropartita a Washington. Gli strateghi del Pentagono chiedono il ritiro dalla Siria, la fine del sostegno al Donbass e la cessazione dei rapporti con l’Iran. Ci sono semplicemente troppe divergenze per arrivare ad un punto in comune. Inoltre, le sanzioni europee contro la Russia vanno a beneficio di Washington, ma, contemporaneamente, danneggiano la stessa Europa e perciò indeboliscono uno dei maggiori concorrenti commerciali degli Stati Uniti. Il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo per il Nucleare Iraniano – Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) – può essere visto nella stessa luce: impedire agli alleati degli Stati Uniti di commerciare con l’Iran.

Putin terrà fede ai suoi accordi con la Siria e con i suoi alleati, riluttante a mancare di parola, anche di fronte ad un riconoscimento della Crimea. D’altro canto, come già menzionato, la sua priorità rimane la rimozione degli ABM e, mentre la Crimea è già sotto il controllo della Federazione Russa, la Siria continua ad essere un territorio instabile, che rischia di trasferire il terrorismo islamico al ventre molle della Russia, nel Caucaso. Per Mosca, l’intervento in Siria è sempre stato una questione di sicurezza nazionale, e continuerà ad essere così, anche di fronte alle irrealistiche offerte di Trump.

Bisogna tenere a mente che Putin lavora con una strategia di medio-lungo termine in Medio Oriente, dove Iran, Siria e l’intero arco sciita servono a controbilanciare l’aggressività e l’egemonia dei Sauditi e degli Israeliani. Questa strana alleanza si è dimostrata l’unico modo per scongiurare una guerra e ridurre le tensioni nella regione, e questo perchè le folli azioni di Netanyahu o di Mohammad bin Salman vengono controbilanciate dall’agguerrito esercito iraniano. Prevenire un confronto fra Iraniani e Sauditi/Israeliani significa anche non far apparire Teheran troppo debole o troppo isolata. Considerazioni del genere sembrano essere oltre la portata degli strateghi di Washington, non parliamo poi di quelli di Tel Aviv o di Riyadh.

Anche se sarà difficile che possa scaturire un risultato positivo dall’incontro fra Trump e Putin, è importante, in primo luogo, che ci sia un meeting, contrariamente all’opinione del Times. I media e il conglomerato di potere che ruota intorno al Deep State americano temono sopratutto la diplomazia. La stessa narrativa che aveva preceduto e seguito l’incontro fra Trump e Kim Jon-un viene ora riproposta, pari pari, alla vigilia del meeting fra Trump e Putin.

Washington basa il suo potere sulla forza, sia economica che militare. Ma questa forza è determinata, a sua volta, dall’atteggiamento assunto e dall’immagine proiettata. Gli Stati Uniti e il loro Deep State considerano le trattative con gli avversari sbagliate e controproducenti. Per loro, dialogo è sinonimo di debolezza, e ogni concessione è vista come una resa. Questo è il risultato di 70 anni di eccezionalismo americano e 30 anni di unipolarismo hanno dato agli Stati Uniti la capacità di decidere unilateralmente il destino degli altri.

Oggi, in un mondo multipolare, le dinamiche sono differenti, e perciò più complesse. Non si può sempre utilizzare una mentalità da somma zero, come fa il Times. Il resto del mondo capisce che un dialogo fra Putin e Trump è qualcosa di positivo, ma non dobbiamo dimenticare che, come è successo in Corea, se la diplomazia non porta ad un progresso significativo, allora i falchi che circondano Trump torneranno di nuovo alla carica. I compiti che spettano a Rouhani, Putin e Kim Jon-un sono complessi e abbastanza differenti l’uno dall’altro, ma hanno in comune la convinzione che il dialogo sia l’unico modo per evitare una guerra catastrofica. Ma, apparentemente, la pace non è il miglior risultato possibile per tutti.


Federico Pieraccini

Link: https://www.strategic-culture.org/news/2018/07/13/globalist-elite-fears-peace-wants-war.html

13.07.2018

 

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