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3 luglio 2018 

 

Pensieri sparsi sui 10 anni di Carta di Roma

di Grazia Naletto

 

Giornalisti, ricercatori, attivisti antirazzisti, artisti, si sono ritrovati insieme a fare un bilancio del lavoro svolto in 10 anni di attività, cercando di individuare una possibile strategia per il futuro, nella democrazia dell’algoritmo, individualista e parossistica dove l’attenzione al linguaggio deve essere costante.

 

Non è stato un appuntamento formale né autocelebrativo quello organizzato il 25 giugno a Roma alla Casa del Cinema dall’associazione Carta di Roma. Giornalisti, ricercatori, attivisti antirazzisti, ma anche artisti, si sono ritrovati insieme a fare un bilancio del lavoro svolto in 10 anni di attività, collocandolo naturalmente nell’oggi e cercando di individuare una possibile strategia di lavoro per il futuro. Impossibile riportare i contenuti di tutti gli interventi, dunque cerchiamo di riferire in modo arbitrario il dibattito e di aggiungere qualche spunto di riflessione.

 

Dal codice deontologico all’associazione

Forse vale la pena ricordarlo. La scelta di elaborare la Carta di Roma, codice deontologico per i giornalisti, avvenne dopo la strage di Erba dell’11 dicembre 2006 nella quale persero la vita Raffaella Castagna, il figlioletto Youssef di due anni, Paola Galli, madre di Raffaella, e Valeria Cherubini, una vicina di casa. Unico sopravvissuto e testimone, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini. Per giorni interi la notizia occupò le pagine dei giornali e per giorni il colpevole designato fu uno solo: Abdel Fami Azouz Marzouk, marito di Raffaella e padre di Youssef, “extracomunitario” e “musulmano”. Abdel risultò poi innocente, ma intanto il linciaggio mediatico e politico aveva fatto il suo corso. Di casi come questo in seguito ce ne sono stati molti altri.

 

Proprio quel linciaggio fu all’origine del percorso che portò Acnur, Ordine dei giornalisti e Fnsi a firmare un protocollo deontologico per una informazione corretta sulle migrazioni, nel giugno del 2008. Per promuoverne l’applicazione fu poi costituita nel 2011 l’associazione Carta di Roma che da allora ha riunito giornalisti, ricercatori e organizzazioni della società civile in attività di monitoraggio, di formazione e di informazione finalizzate a promuovere una corretta informazione quando riguarda migranti, richiedenti asilo, rifugiati e rom.

 

10 anni di lavoro: alcune luci…

In questi 10 anni complicati alcuni risultati positivi ci sono stati. Oggi la formazione per i giornalisti è obbligatoria e Carta di Roma ne ha già organizzate moltissime in collaborazione con gli Ordini dei giornalisti regionali, ma anche all’interno delle scuole di giornalismo. Molti incontri sono stati organizzati con le redazioni e le direzioni di alcune testate giornalistiche e televisive. Alcune parole stigmatizzanti come “clandestino” o “zingaro” sono meno presenti sui media. L’Osservatorio avviato su alcun testate giornalistiche e televisive consente di analizzare con maggiore accuratezza rispetto al passato le caratteristiche dell’informazione che riguarda i migranti, i richiedenti asilo, i rifugiati e i rom. Alcune trasmissioni di approfondimento hanno restituito visibilità alle forme di discriminazione e di razzismo che attraversano in modo preoccupante il nostro paese. E di recente la Carta di Roma è stata assunta nel contratto concluso da USIGRai.

 

e… le molte ombre

Sono bagliori di luce che purtroppo, visti con lo sguardo rivolto all’oggi, non sono riusciti a riorientare a fondo gli indirizzi del mondo dell’informazione su questi temi. Alcuni vizi di fondo permangono.

 

Primo fra tutti quello di privilegiare ai fatti le rappresentazioni, soprattutto quelle offerte dalla politica, in primo luogo di quella al potere. Un’informazione tutta proiettata sulla politica interna (lo spazio dedicato agli esteri è sempre più ridotto), sulla propaganda più che sugli interventi effettivi messi in atto, sulle “percezioni” più che sulla realtà, non aiuta a raccontare in modo corretto le migrazioni, le loro cause, le condizioni di vita delle persone che scelgono di venire in Italia e in Europa cercando protezione o, semplicemente (e hanno lo stesso diritto di farlo dei nostri figli che partono per l’estero) cercano una vita migliore di quella che il loro paese di origine può offrire.

 

Secondo vizio che permane è quello del sensazionalismo, che talvolta sconfina nell’urlo violento, quello dei titoli di prima pagina stigmatizzanti di intere comunità (nazionali o religiose che siano) di persone, ogni qualvolta un fatto di cronaca nera coinvolge (o sembra coinvolgere) un cittadino straniero. Gli strumenti per sanzionare a livello disciplinare queste scelte non corrette dal punto di vista deontologico ci sarebbero, ma dire che sono usate in modo molto prudente è un eufemismo.

 

Terzo vizio è la disumanizzazione: parlare dell’Acquarius più delle 629 persone che ha soccorso significa dimenticare letteralmente i corpi e i vissuti delle persone. Privilegiare i numeri, usandoli spesso in modo superficiale, strumentale e distorto, significa annullare la dignità e le storie delle donne, degli uomini, dei bambini cui si riferiscono.

 

Quarto vizio è l’invisibilità pressoché totale delle voci dei migranti e delle associazioni antirazziste, soprattutto nelle trasmissioni televisive. Il massimo di contraddittorio garantito è consentito tra politici, tra giornalisti, tra politici e giornalisti. Ogni tanto è chiamato qualche “esperto” che se va bene si trova del tutto isolato, se va male molto esperto non è.

 

E’ rara la contestualizzazione storica della notizia. Nella ricerca dello scalpore e dello scoop, tutto sembra avvenire per la prima volta. Non importa se un “piano” sulla “sicurezza” riprende pari pari le linee di un “piano” analogo presentato dieci anni prima. Non importa se gli “sbarchi” avvengono regolarmente ogni estate da circa una trentina di anni. Non importa se “allarmi” e “tsunami” annunciati dieci anni fa non ci sono mai stati. I titoli urlati ci consegnano a un’emergenza permanente che non ha mai fine.

 

Sono tutti vizi che conosciamo da tempo e che sono stati ricordati molto bene durante il decimo compleanno della Carta di Roma. E in molti hanno condiviso la necessità di affinare e di usare di più gli strumenti sanzionatori da un lato, di intensificare i programmi di formazione proponendo di dedicare un modulo specifico ai diritti umani fondamentali di cui sembra oggi essersi persa la cognizione.

 

La sfida nella democrazia dell’algoritmo 

C’è però un’ulteriore sfida, molto complessa, con cui chi voglia fare informazione (e comunicazione) in modo corretto sulle migrazioni è chiamato a confrontarsi. E’ quella posta dalla diffusione delle nuove tecnologie che ha modificato radicalmente i sistemi di produzione e di diffusione delle informazioni.

 

Da un sistema gerarchico in cui pochi mezzi di informazione più potenti detenevano il controllo dell’informazione siamo passati a un sistema apparentemente democratico, in cui milioni di persone attraverso i social network producono informazioni e hanno (sempre apparentemente) la possibilità di interagire alla pari con gli altri, con il potere politico e con quello mediatico.

 

La diffusione delle informazioni è cresciuta esponenzialmente, ma solo apparentemente è libera. Le informazioni che leggiamo come utenti della rete sono perlopiù quelle che qualcuno ha scelto per noi: i gestori dei social networks e dei motori di ricerca, o meglio, gli algoritmi da questi utilizzati.

 

L’informazione e la comunicazione tendono a diventare sempre più polarizzate. L’egemonia culturale di un modello di relazioni sociali centrato sulla contrapposizione amico/nemico ha due principali conseguenze: a) tende a rendere sempre più aggressiva la comunicazione in rete – la rete e i social network rappresentano uno dei canali prioritari di stigmatizzazione, di diffusione della violenza e del razzismo; b) anziché favorire processi democratici e il pluralismo, la rete dei social network tende a imprigionare gli utenti in una bolla informativa dalla quale sono escluse idee e opinioni diverse che non sono coerenti con le appartenenze politiche, di genere, religiose e culturali dei singoli utenti. Scompare il dialogo, prevale (anche in termini di visibilità) il conflitto.

 

Politica, media e social media tendono insomma a spingerci verso un modello di società polarizzata in cui, nella solitudine diffusa, assecondata da una socializzazione solo virtuale, tutti sono contro tutti, tutti sono solo “amici” dei propri simili.

 

Con queste trasformazioni il sistema dei media tradizionali è costretto a confrontarsi destinando mezzi e risorse alla gestione delle proprie pagine social, ma anche acquisendo una maggiore consapevolezza dell’impatto infinitamente maggiore rispetto al passato di un titolo che riporta con un virgolettato una dichiarazione politica xenofoba o razzista.

Ma non è il solo. Sfuggire alla polarizzazione è esattamente uno dei compiti della società civile, un compito nostro. Pensare di contestare la propaganda della paura usando lo stesso registro e i livelli di semplificazione che la caratterizzano è del tutto aleatorio e, come oggi possiamo facilmente constatare, del tutto perdente.

 

Privilegiare i fatti, umanizzare le notizie e restituire centralità alle persone, tornare a fare inchiesta là dove i fatti succedono, dare voce alle storie e alle persone, fare attenzione all’uso delle parole, mantenere salda la memoria storica, decostruire con cura le false informazioni, utilizzare i dati in serie storica e interpretarli con accuratezza, seguire l’evoluzione dei fatti sino alla loro conclusione, anche quando è diversa dal previsto, dedicare una maggiore attenzione alle molteplici forme di discriminazione e di razzismo che succedono ogni giorno: sono tutte sfide che vale la pena di affrontare.

 

Perché ciò sia possibile non dobbiamo temere fruttuose contaminazioni tra le conoscenze, le esperienze e le idee di mondi professionali diversi, compresi quelli dell’arte, dello sport e delle agenzie di comunicazione. Il mondo polarizzato dentro il quale tentano di imprigionarci è (per fortuna) solo una parte, del mondo reale: in mezzo c’è un’ampia parte di opinione pubblica silenziosa e invisibile che parla e pratica quotidianamente il linguaggio dei diritti e dell’uguaglianza. A questa tutti insieme possiamo dare rappresentanza e soprattutto voce.

 

Intanto non possiamo che dire grazie a Carta di Roma. E invitare a diffondere l’appello che ha rivolto il 25 giugno ai direttori di giornali e telegiornali, alle redazioni e ai professionisti della comunicazione, disponibile qui: https://www.cartadiroma.org/editoriale/linguaggio-odio-giornalismo-accurato-appello-firmatari/

 

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