Il Manifesto
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25 ago 2018
Atenei britannici con Il Cairo,
i docenti con Giulio e gli egiziani
di Chiara Cruciati
Più di 200 professori contro gli accordi tra Londra e il regime di al-Sisi. Dimenticando Regeni e la repressione degli studenti. A gennaio i due esecutivi hanno siglato un’intesa per l’apertura di campus in Egitto: le università sono ormai imprese e i giovani dei meri consumatori, il fine è il profitto
Roma, 25 agosto 2018, Nena News –
Ci sono firme dall’Università di Cambridge, quella con cui Giulio Regeni stava conducendo la sua ricerca sui sindacati indipendenti egiziani; dall’Università di Liverpool, che appena due mesi fa al Cairo siglava un memorandum d’intesa con il ministero egiziano dell’Educazione. E poi da Leeds, dalla London School of Economics, da Glasgow, Leicester.
In tutto sono oltre 200 le firme di accademici britannici in calce a una lettera pubblicata sul Guardian: criticano con durezza le partnership che il governo di Londra mantiene e amplia con le autorità egiziane. Rapporti consolidati nel tempo e che hanno condotto numerosi atenei a progettare l’apertura di campus in Egitto.
«Sembra che i funzionari del governo e i manager delle università – si legge nella lettera – abbiano dimenticato che solo due anni fa Giulio Regeni, dottorando di Cambridge, veniva rapito, torturato e ucciso mentre conduceva una ricerca al Cairo. Giulio era uno dei tanti studenti e accademici arrestati, torturati, imprigionati e uccisi negli ultimi anni in Egitto, nell’ambito di una più vasta campagna di repressione contro opposizione politica, sindacati, società civile, media indipendenti».
Qui sta il cuore della denuncia: basta stringere mani e accordi con un regime repressivo come quello inaugurato nel luglio 2013 dal generale golpista al-Sisi. Il sospetto, concludono i firmatari, «è che si tratti di un mero e cinico atto commerciale: vendere diplomi con l’imprimatur di un’università del Regno unito, mentre si resta in silenzio di fronte alla scomparsa di accademici critici e agli attacchi al diritto degli studenti egiziani di studiare senza paura».
Il barbaro omicidio di Giulio non è un’eccezione. Soprattutto dal 2013, quando i campus sono diventati tra i principali luoghi di opposizione ad al-Sisi. Il regime ha risposto con compagnie di sicurezza private a pattugliare gli atenei, l’esplusione di centinaia di studenti dissidenti (di diverse estrazioni politiche, dai Fratelli musulmani ai Socialisti rivoluzionari), i processi di fronte a corti militari, la repressione delle manifestazioni.Mezzi che hanno fatto crollare il numero di proteste (dalle 1.677 dell’anno accademico 2013/2014 alle poche decine di oggi) e impennare quello di giovani universitari tuttora prigionieri politici.
La lettera giunge a seguito della visita di undici atenei britannici, a fine giugno, al Cairo con la supervisione del governo di Londra. L’obiettivo era la firma di accordi di collaborazione, programmi di scambio e apertura di campus in Egitto. Il paese nordafricano è il quinto al mondo per presenza accademica britannica, con 19.800 egiziani registrati in programmi britannici. Durante la visita, l’Università di Liverpool ha siglato un’intesa con il primo ministro Madbouly e il ministro dell’Educazione Ghaffar per «sviluppare una partnership strategica attraverso ricerca congiunta e attività di innovazione, scambio e formazione di accademici e studenti».
Ma il discorso è più ampio: come riporta il British Council, le università britanniche puntano a inserirsi nel progetto Vision 2030, piano di sviluppo economico e ricerca innovativa di cui ancora si sa poco (il sito ufficiale è pressoché vuoto). Già a gennaio Ghaffar aveva firmato con il ministro britannico all’Università Gyimah un accordo bilaterale per l’espansione transnazionale degli atenei del Regno Unito attraverso filiali in Egitto.
A scorrere l’elenco degli atenei presenti al Cairo, si capisce qualcosa in più: come spiega al manifesto una professoressa della londinese Soas, la maggior parte (la Queen Margaret di Edinburgo, Portsmouth, la Edinburgh Napier University, Cardiff, la Canterbury Christ Church University) sono atenei piccoli, preoccupati dalla fuga di studenti europei a causa della Brexit: per i cittadini Ue le tasse universitarie raddoppieranno dalla già elevata quota attuale di 9mila sterline. Sono alla caccia di matricole extra-europee, come già accade con il «mercato» asiatico, e di finanziamenti da fondazioni e governi.
Il tutto rientra in un processo di privatizzazione dei campus, paragonabili oggi a imprese il cui obiettivo è il profitto a scapito dell’aspetto educativo e del reinvestimento del surplus. A reggerle corporazioni, manager e consigli di amministrazione e, come spiega Stefan Collini in un articolo del 2013 sul London Review of Books, dalle tasse studentesche (e i conseguenti prestiti bancari) che hanno largamente sostituito i fondi pubblici.
Lo studente non è che un mero consumatore. E quando le politiche migratorie impediscono l’arrivo di extra-europei, è il campus a spostarsi: negli ultimi anni, aggiunge Collini, filiali delle università britanniche sono spuntate come funghi in tutto il mondo. E ora mirano all’Egitto. |
Il Manifesto
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29 ago 2018
«L’accademia libera fa paura: toglie al regime
il monopolio dell’informazion»
di Chiara Cruciati
Intervista al professore egiziano alla Cambridge University, Khaled Fahmy: «Giulio Regeni non faceva nulla di illegale. Il suo era uno studio delicato, ma non più di altri. E mai era accaduta una cosa simile: gli attacchi all’ateneo servono solo a distogliere l’attenzione»
Roma, 29 agosto 2018, Nena News –
Oggi cadono 31 mesi dalla scomparsa dal Cairo di Giulio Regeni. Il 25 gennaio 2016 il ricercatore italiano veniva rapito in una capitale blindata: era il quinto anniversario della rivoluzione di Piazza Tahrir.
Due giorni fa 200 accademici britannici hanno fatto appello al loro paese e alle università perché non stringano accordi di cooperazione con il regime egiziano, senza che si sia aperto un varco nel muro di gomma su cui da due anni e mezzo rimbalzano le richieste di verità per l’uccisione di Regeni.
Un muro di gomma su cui rimbalza anche la situazione interna dell’Egitto, dei suoi giovani, degli studenti, dei professori. Ne abbiamo discusso con Khaled Fahmy, professore egiziano di studi arabi moderni alla Cambridge University, dal 2010 al 2013 docente all’American University del Cairo e membro dell’Association for Freedom of Thought and Expression, con sede in Egitto.
Lei ha studiato e insegnato in Egitto. Può spiegarci i limiti nel lavoro di ricerca e le ragioni dello stretto controllo da parte delle autorità egiziane?
Fare ricerca sul campo è difficile, lo è sempre stato. Le autorità egiziane non rispettano la libertà accademica, in particolare quella legata alle scienze sociali e umanistiche. Dagli anni ’60 è difficile condurre interviste, fare ricerca storica e antropologica. Il ricercatore è guardato con sospetto perché il suo lavoro contraddice la natura stessa dello Stato egiziano, uno Stato militare e di intelligence, retto dai servizi. Lo Stato opera con le armi e i carri armati, ma anche e soprattutto attraverso la raccolta e la diffusione di informazioni. Ricerca accademica e giornalismo sfidano il cuore di questo potere, il monopolio della raccolta e la diffusione di informazioni. Per questo nei loro confronti c’è sospetto, se non ostilità.
Come si riesce a fare ricerca?
Attraverso la richiesta di permessi. Le autorità considerano i ricercatori dei soggetti sospetti, se egiziani; se stranieri, li considerano delle spie. Dunque per poter accedere, ad esempio, all’Archivio nazionale servono dei permessi dalla sicurezza, e non dal ministero dell’Educazione. Ci vogliono mesi, a volte anni, per ottenerli: durante questo periodo i servizi svolgono indagini sul ricercatore e sull’oggetto del suo lavoro. Oggi ottenere tali permessi è difficilissimo. Per questo da sempre si opera attraverso ricerche sul campo, cercando di essere prudenti e senza mai mentire. Dalla nostra abbiamo la legge: la costituzione e la legge interna non vietano la ricerca, anzi la proteggono.
Lei ha fatto da supervisore a studenti stranieri in Egitto. In Italia si è molto discusso della questione, il governo e una parte della stampa hanno attaccato Cambridge definendola responsabile della morte di Giulio e spostando l’attenzione dal Cairo.
Giulio non stava facendo nulla di illegale, non stava violando la legge egiziana. Come dicevo, è la costituzione stessa che tutela la libertà accademica e diverse leggi impegnano il governo a proteggerla. La sua era una ricerca delicata, ma non più di altre: ho fatto da supervisore per ricerche simili, ho studenti che hanno lavorato sui Fratelli Musulmani, sulle mutilazioni genitali femminili, sulla storia della polizia. Io stesso ho condotto una ricerca sulla storia dell’esercito. Non è stato facile, ma è stato pienamente legale.
Detto questo, nessuno mai si sarebbe immaginato una cosa simile: nel caso di studenti egiziani, accade che vengano convocati, interrogati, minacciati; nel caso di stranieri che gli venga revocato il visto e vengano deportati. È successo anche a dei miei studenti. Ma mai e poi mai avremmo potuto immaginare che uno studente straniero venisse rapito, torturato e ucciso. Penso che la campagna contro Cambridge sia una mossa deliberata del governo italiano e della stampa per distogliere l’attenzione dai rapporti che Roma continua ad avere con l’Egitto.
Tornando all’Egitto, gli ultimi anni hanno visto una stretta nei confronti dei campus universitari: arresti, processi in corti militari, compagnie di sicurezza private che li pattugliano. Qual è lo stato della libertà accademica nel paese?
La situazione è cupa. E diversa dal passato: sotto Mubarak condizione a promozione e libertà di ricerca era la vicinanza al partito, per non avere problemi con le autorità. Oggi non c’è più un partito di governo, al-Sisi non ne ha uno, ma governa attraversa i servizi di intelligence. Che sono presenti anche nei campus, insieme a compagnie private come i Falcon. Così se un professore vuole viaggiare all’estero, deve ricevere l’autorizzazione. Ogni meeting privato nell’ufficio di un docente deve ricevere l’autorizzazione. Ogni evento pubblico deve essere autorizzato. Ogni lezione è monitorata. Una mania di controllo su ogni possibile voce di opposizione o di semplice critica.
La lettera dei 200 accademici britannici può avere effetto su una tale situazione?
La lettera è importante: dice a tutto il mondo che in Egitto i professori non sono liberi di lavorare, di partecipare a conferenze, di viaggiare all’estero. E chiede trasparenza. Dovremmo batterci perché l’Egitto introduca il visto per studio, come accade in tutto il mondo. Un piccolo passo per garantire maggiore protezione allo studente e al ricercatore, perché toglie ai «controllori» la scusa del controllo. Dobbiamo continuare a combattere per la libertà d’espressione.
Approfondisci
Campus Egitto: gli studenti contro il regime.
Prima Parte
10 mar 2017
Campus Egitto: gli studenti contro il regime.
Seconda Parte
10 mar 2017 |