http://www.occhidellaguerra.it/ nov 16, 2017
Quelle verità nascoste sui cecchini di Maidan di Gian Micalessin
Chi ha massacrato oltre ottanta fra dimostranti e poliziotti riuniti a Maidan Nezalezhnosti, la Piazza dell’indipendenza di Kiev cuore e simbolo – fino a quel fatidico 20 febbraio 2014 – delle manifestazioni a favore dell’accordo di associazione all’Unione europea? L’opposizione anti russa fattasi governo dopo la cacciata del presidente filo russo Viktor Yanukovych ha sempre puntato il dito contro le forze speciali del deposto presidente accusandole di aver mandato una squadra di cecchini a sparare sui manifestanti per affogare la protesta in un bagno di sangue. Già allora però molti sollevavano dubbi e perplessità.
Il primo a contestare quella versione è stato il ministro degli esteri estone Urmas Paet. Rientrato da un viaggio a Kiev compiuto solo 5 giorni dopo il massacro riferisce in una telefonata alla commissaria agli esteri dell’Unione Europea Catherine Ashton, le rivelazioni ottenute da una dottoressa ucraina che ha esaminato i cadaveri di Piazza Maidan. La telefonata intercetta e diffusa dai media russi è sconcertante.
“La cosa più inquietante – spiega Paet – è che tutte le evidenze dimostrano che le persone uccise dai cecchini – sia tra i poliziotti, sia tra la gente in strada – sono state uccise dagli stessi cecchini…”. Davanti alla perplessità di una Ashton visibilmente imbarazzata il ministro cita la testimonianza della dottoressa ucraina. “Lei parla come medico dice che si tratta della stessa firma, dello stesso tipo di proiettili. È veramente inquietante che ora la nuova coalizione – ribadisce Paet – si rifiuti di indagare su cosa è realmente successo. C’è una convinzione molto forte che dietro i cecchini ci siano…. Che non ci sia Yanukovich, ma qualcuno della nuova coalizione…”.
A quattro anni dall’inizio nel novembre 2013 delle manifestazioni di Maidan noi siamo in grado di descrivere un’altra verità, completamente diversa da quella ufficiale. La nostra storia inizia verso la fine dell’estate 2017 a Skopye la capitale della Macedonia. Lì dopo lunghi e complessi preliminari riusciamo ad incontrare Koba Nergadze e Kvarateskelia Zalogy due georgiani protagonisti e testimoni di quella tragica sparatoria e del successivo massacro.
Sia Nergadze sia Zalogy sono legati all’ex presidente georgiano Mikhail Saakashvili, protagonista nell’agosto 2008 di una breve, ma sanguinosa guerra con la Russia di Vladimir Putin. Nergadze, come dimostra un tesserino identificativo rimasto in suo possesso, è stato membro di un servizio di sicurezza agli ordini del presidente. Zalogy è un ex attivista del partito di Saakashvili. “Ho deciso di venire a Skopije per raccontarvi tutto quello che sappiamo su quel che è successo….io e il mio amico l’abbiamo deciso assieme, bisogna far luce su quei fatti” – ripete Nergadze. Lo stesso dirà qualche mese più tardi Alexander Revazishvilli, un ex tiratore scelto dell’esercito georgiano protagonista della sparatoria di Maidan, incontrato in un altro Paese dell’Est Europa. Tutti e tre i nostri protagonisti raccontano di esser stati reclutati alla fine del 2013 da Mamuka Mamulashvili, un consigliere militare di Saakashvili che dopo i fatti di Maidan si sposterà nel Donbass per guidare la cosiddetta Legione Georgiana negli scontri con gli insorti filo russi. “Il primo incontro è stato con Mamulashvili all’ufficio del Movimento Nazionale – racconta Zalogy – la rivolta Ucraina nel 2013 era simile alla “Rivoluzione rosa” avvenuta in Georgia anni prima. Dovevamo indirizzarla e guidarla applicando lo stesso schema utilizzato per la “Rivoluzione Rosa”.
La versione di Alexander non è diversa. “Mamuka per prima cosa mi chiese se ero stato veramente un tiratore scelto – ricorda Alexander – subito dopo mi disse che aveva bisogno di me a Kiev per scegliere alcune postazioni”. I nostri protagonisti, aggregati a vari gruppi di volontari tra il novembre 2013 e il gennaio 2014, ricevono dei passaporti con nomi falsi e un anticipo in denaro. “Siamo partiti il 15 gennaio e sull’aereo – ricorda Zalogy – ho ricevuto il mio passaporto e un altro con la mia foto, ma con nome e cognomi differenti. Poi ci hanno dato mille dollari a testa promettendo di darcene altri cinquemila più in là”. Una volta a Kiev i nostri tre protagonisti incominciano a comprendere meglio i motivi per cui sono stati reclutati. “Il nostro compito – spiega Alexandere – era organizzare delle provocazioni per spingere la polizia a caricare la folla. Fino alla metà di febbraio però non c’erano molte armi in giro. Si utilizzavano al massimo le molotov, gli scudi e i bastoni”. A metà febbraio però gli scontri intorno a Maidan incominciano a farsi più pesanti. “Intorno al 15 e il 16 febbraio – ricorda Nergadze – la situazione ha incominciato a farsi ogni giorno più seria. Ormai era fuori controllo. E intanto si sentivano i primi spari.” Con il crescere della tensione entrano in gioco nuovi protagonisti.
“Un giorno intorno al 15 febbraio – rammenta Alexander – Mamualashvili visitò personalmente la nostra tenda. Con lui c’era un altro tipo in uniforme. Ce lo presentò e ci disse che era un istruttore, un militare americano”. Il militare americano si chiama Brian Christopher Boyenger ed è un ex ufficiale e tiratore scelto della 101esima divisione aviotrasportata statunitense. Dopo Maidan si sposterà sul fronte del Donbass dove combatterà tra le fila della Legione Georgiana al fianco di Mamulashvili.
“Eravamo sempre in contatto con questo Bryan – spiega Nergadze – lui era un uomo di Mamulashvili. Era lui che ci dava gli ordini. Io dovevo seguire tutte le sue istruzioni”.
I primi sospetti sulla presenza di armi da fuoco tra le fila dei dimostranti coinvolgono Serghey Pashinsky, un leader di Piazza Maidan diventato, dopo la caduta di Yanukovych, presidente del parlamento di Kiev. Il 18 febbraio – come dimostra un filmato girato quel giorno – dal bagagliaio di un’ auto bloccata dai dimostranti spunta un fucile mitragliatore. Pochi secondi dopo Pashinsky si avvicina e ordina di lasciarla andare. Il giorno dopo alcune borse piene di armi vengono distribuite ai gruppi di militanti georgiani e lituani che risiedono nell’Hotel Ucraina, l’albergo affacciato sulla piazza usato come quartier generale dall’opposizione.
“In quei giorni Pashinsky e altre tre persone – tra cui anche Parasyuk – hanno portato all’hotel le borse con le armi Sono stati loro a farle arrivare nella mia stanza” – racconta Nergadze. Volodymyr Parasyuk è uno dei leader della protesta di piazza Maidan. Dopo la strage di dimostranti diventerà famoso per un ultimatum in cui minaccerà di usare le armi per cacciare il presidente Viktor Yanukovych.
“Il 18 febbraio – rammenta Zalogy – qualcuno ha portato delle armi anche nella mia stanza. Nella stanza con me c’erano due lituani, le armi se le sono prese loro”. “In ogni borsa – ricorda Nergadze – c’erano pistole Makarov , mitragliatori Akm, carabine. E poi c’erano pacchi di cartucce. Quando le ho viste sulle prime non ho capito…. Quando è arrivato Mamulashvili l’ho chiesto anche a lui. “Cosa sta succedendo – gli ho detto – a che servono queste armi? E’ tutto a posto? “Koba le cose si stanno facendo complicate, dobbiamo incominciare a sparare – mi ha risposto – non possiamo andare alle elezioni presidenziali anticipate …” “Ma a chi dobbiamo sparare? E dove?- gli ho chiesto – Lui mi ha risposto che il dove non importava, bisognava sparare da qualche parte… tanto per seminare un po’ di caos”.
Mentre Nergadze e Zalogy assistono alla distribuzione delle armi all’hotel Ucraina Alexander Revazishvilli e altri volontari raggiungono il Conservatorio, un altro palazzo che domina la piazza. “Sarà stato il 16 febbraio…Pashinsky ci ordinò di raccogliere le nostre cose e ci portò dentro ….Poi arrivò altra gente, erano quasi tutti mascherati. Dalle borse ho capito… portavano armi…. Le hanno tirate fuori e le hanno distribuite ai vari gruppi.. Parlava solo Pashinsky… “Era lui a dare gli ordini. A me chiese da che parte dovevamo sparare” . “Nel frattempo – spiega Nergadze – anche all’hotel Ucraina i capi della rivolta sottolineano l’ipotesi di ricorrere alle armi. “Ci hanno spiegato di sparare per creare caos e confusione. Non dovevamo fermarci. Non importava se sparavamo ad un albero, a una barricata o a chi tirava le molotov. L’importante era seminare il caos”. Il 20 mattina le armi entrano in azione. “Doveva essere l’alba – ricorda Zalogy – quando ho sentito il rumore degli spari … non erano raffiche, erano colpi singoli … venivano dalla stanza accanto. In quello stesso momento i lituani hanno aperto la finestra. Uno di loro ha sparato un colpo, mentre l’altro ha chiuso la finestra. In tutto avranno sparato tre o quattro volte”. Alexander pur ammettendo di esser stato coinvolto nella sparatoria dal palazzo del Conservatorio sostiene di aver compreso ben poco. “Tutti hanno incominciato a sparare due o tre colpi alla volta. Non avevamo molta scelta. Ci era stato ordinato di sparare sia sui Berkut, la polizia, sia sui dimostranti, senza far differenza. Ero totalmente esterrefatto. È andata avanti per quindici minuti…forse venti. Io ero fuori di me, agitato, sotto stress, Non capivo niente. Poi all’improvviso dopo 15, 20 minuti gli spari son cessati e tutti hanno messo giù le armi”. Mentre feriti e morti arrivano nel salone dell’Hotel Ucraina i cecchini fuggono dalle stanze. E così le vittime si ritrovano accanto ai loro assassini. “Dentro – ricorda Nergadze – c’era il caos, non capivi chi fossero gli uni e gli altri . La gente correva avanti e indietro. Qualcuno era ferito… qualcuno era armato. Fuori era anche peggio. Nelle strade c’erano tanti feriti. E morti tutt’attorno”. Alexander dice di essersene andato di tutta fretta. “Qualcuno gridava che c’erano dei cecchini, sapevo bene di cosa parlavano – spiega – il mio unico pensiero è stato scomparire, prima che si accorgessero di me. Altrimenti mi facevano a pezzi. In quel momento non ho realizzato poi però – spiega – l’ho capito. Siamo stati usati. Usati e incastrati”.
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