http://www.greenreport.it/ 26 gennaio 2018
La risposta ai cambiamenti climatici dipende dalla speranza, non dalla paura
Gli effetti psicologici dei cambiamenti climatici: il terrore estremo può paralizzare. Chi si preoccupa per gli animali e le piante ha più probabilità di sperimentare stress e depressione legati ai cambiamenti climatici
Incendi violenti, tempeste e grandi eventi meteorologici estremi possono sembrare una minaccia lontana, ma per coloro le cui vite sono state direttamente colpite da questi eventi, la minaccia dei cambiamenti climatici è molto vicina. Mentre i disastri ambientali sono in aumento un team di ricercatori statunitensi ha deciso di saperne di più su come la percezione della minaccia del cambiamento climatico globale influisce sulla salute mentale delle persone. Ne è venuto fuori lo studio “Differentiating environmental concern in the context of psychological adaption to climate change”, pubblicato recentemente su Global Environmental Change da Sabrina Helm, Melissa Barnett, Melissa Curran e Zelieann Craig, dell’università dell’Arizona, e Amanda Pollitt dell’università del Texas – Austin, che ha scoperto che «Mentre alcune persone sono poco ansiose riguardo al clima che cambia la Terra, altre, basandosi sulla loro percezione della minaccia del cambiamento climatico globale, stanno vivendo alti livelli di stress e persino di depressione». La Helm, che insegna alla Norton school of family and consumer Sciences del College of agriculture and life sciences dell’università dell’Arizona, sottolinea che «Mentre una significativa ricerca ha esplorato l’impatto ambientale dei cambiamenti climatici, molti meno studi hanno preso in considerazione il suo effetto psicologico sugli esseri umani». Il team della Helm ha scoperto che «Le risposte psicologiche ai cambiamenti climatici sembrano variare in base al tipo di preoccupazione che le persone mostrano per l’ambiente, con quelle estremamente preoccupate per gli animali e le piante del pianeta che subiscono lo stress maggiore». Nello studio i ricercatori delineano tre diversi tipi di preoccupazioni ambientali: «La preoccupazione egoistica è la preoccupazione su come ciò che sta accadendo nell’ambiente abbia un impatto diretto sull’individuo; per esempio, una persona potrebbe preoccuparsi di come l’inquinamento atmosferico possa influenzare i suoi polmoni e la sua respirazione. La preoccupazione altruistica, si riferisce alla preoccupazione per l’umanità in generale, comprese le generazioni future. La preoccupazione biosferica, si riferisce alla preoccupazione per la natura, le piante e gli animali». In un sondaggio online effettuato su 342 genitori di bambini piccoli, coloro che hanno segnalato alti livelli di preoccupazione per la biosfera hanno riferito di sentirsi maggiormente stressati dai cambiamenti climatici globali, mentre quelli le cui preoccupazioni erano più egoistiche o altruistiche non hanno segnalato uno stress significativo legato al fenomeno. Inoltre, quelli con alti livelli di preoccupazione biosferica avevano più probabilità di riportare segni di depressione, mentre nessun altro collegamento con la depressione è stato trovato per gli altri due gruppi. La Helm aggiunge: «Le persone che si preoccupano degli animali e della natura tendono ad avere una prospettiva più planetaria e pensano ai problemi all’interno di un quadro più grande. Per loro, il fenomeno globale dei cambiamenti climatici influisce molto chiaramente su questi aspetti ambientali più ampi, quindi hanno una preoccupazione più pronunciata, perché lo vedono già dappertutto, parlano già di estinzione delle specie e sanno che sta avvenendo. Chi è prevalentemente preoccupato altruisticamente o egoisticamente preoccupato per la propria salute, o forse per il proprio futuro finanziario, il cambiamento climatico non colpisce ancora a casa sua». All’università dell’Arizona dicono che «Coloro che hanno alti livelli di preoccupazione biosferica hanno anche maggiori probabilità di impegnarsi in comportamenti quotidiani ambientalisti, come il riciclo dei rifiuti o misure di risparmio energetico, ed sono i più propensi a impegnarsi in meccanismi di coping per affrontare lo stress ambientale, che vanno dalla negazione del proprio ruolo individuale nel cambiamento climatico alla ricerca di maggiori informazioni sulla questione e su come contribuire a mitigarla. Sebbene non siano generalmente stressati dai cambiamenti climatici, anche quelli con alti livelli di preoccupazione altruistica, o preoccupazione per il benessere degli altri, sono coinvolti in strategie di coping ambientale e comportamenti pro-ambientali, più di quelli le cui preoccupazioni ambientali sono per lo più egoistiche». La Helm conclude: «Il cambiamento climatico è un fattore di stress globale persistente, ma le sue conseguenze sembrano essere lentamente in evoluzione: è quasi certo che avverrà – ora lo sappiamo – ma l’impatto sugli individui sembra crescere molto lentamente e questo deve essere preso molto seriamente. La ricerca ha importanti implicazioni per la salute pubblica. Se se osserviamo determinati risultati, come gli uragani che abbiamo avuto l’anno scorso, i cambiamenti climatici hanno evidenti effetti sulla salute fisica e mentale ma dobbiamo anche prestare molta attenzione alla salute mentale delle persone nella vita di tutti i giorni, dato che possiamo vederlo, potenzialmente, come uno sviluppo strisciante. Capire che ci sono differenze nel modo in cui le persone sono motivate è molto importante per trovare il modo di affrontarlo, sia sotto forma di intervento che di prevenzione». Lo studio ha riaperto tra la comunità scientifica e ambientalista statunitense il dibattito che si era già infiammato a partire dal 9 luglio 2017, quando David Wallace-Wells pubblicó sulla rivista New York il terrificante articolo ”The Uninhabitable Earth”, il cui incipit era: «E’, lo prometto, peggio di quanto si immagini». Su Anthropocene Sarah DeWeerdt ricorda che «L’articolo provocò un dibattito non solo sull’affidabilità delle sue calamitose predizioni, ma anche sul fatto di spaventare la gente come strategia. Alcune persone sostengono che dobbiamo aver paura per agire contro il cambiamento climatico. Altri argomentano che è controproducente spaventare le persone, perché ci paralizza». Ora lo studio pubblicato su Global Environmental Change inizia a colmare le lacune della ricerca degli effetti psicologici del cambiamento climatico e sulla sua percezione sia a livello personale che planetario. La DeWeerdt fa notare che «Lo studio non affronta direttamente la domanda se la paura estrema aiuta o danneggia gli sforzi per lottare contro il cambiamento climatico. Però i risultati mostrano una foto abbastanza sfumata e sorprendente che suggerisce che la motivazione per agire contro il cambiamento climatico non è proprio la paura, ma dipende da strategie psicologiche di risposta che aiutano le persone a gestire le loro preoccupazioni ambientali. Queste strategie di risposte e le azioni che stimolano sono essenzialmente una forma di speranza». Infatti, i ricercatori statunitensi hanno scoperto non solo che le persone che si preoccupano di più per l’ambiente presentano anche più sintomi di depressione, ma non necessariamente per questo assumono comportamenti ambientali più responsabili «Questo significa che spaventare le persone non è un prerequisito perché adottino comportamenti rispettosi dell’ambiente – chiosa la DeWeerdt su Anthropocene – Al contrario, le persone coinvolte in strategie di risposta psicologica per gestire i loro problemi ambientali avevano comportamenti ambientalmente responsabili. E non avevano sintomi di depressione. Le strategie di risposta possono essere positive (esprimere le emozioni, risolvere i problemi) o negative (negazione o colpa, rassegnazione). I ricercatori sostengono che studi futuri dovrebbero cercare di identificare quali strategie di risposta sono collegate a comportamenti ambientali responsabili». Per ora, quel che emerge dallo studio è che le preoccupazioni ambientali «possono facilitare la depressione o l’isolamento del problema del cambiamento climatico o possono avere un collegamento attivo e fornire un approccio per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatico». La DeWeerdt conclude: «Il fattore rilevante non pare essere il grado di preoccupazione – anche gli autori suggeriscono che il terrore estremo può paralizzare – ma se le persone possono tradurre questo livello di preoccupazione in azioni utili».
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