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Il ’68 cinquant’anni dopo di Clemente Sparaco A 50 anni dal '68 se ne può, e se ne deve, tracciare un bilancio storico. Rifuggendo da celebrazioni di rito e ancor più dalla retorica, propongo queste considerazioni che vogliono essere provocatorie, ma, nello stesso tempo, ponderate e motivate.
Secondo Marcello Veneziani, il ’68 “fu l’ultima rivoluzione in Occidente”, ma fu una rivoluzione fallita o una rivoluzione a metà (Rovesciare il ’68). “La rivoluzione– ha scritto Pancho Pardi - nessuno sapeva come farla e cosa farne dopo” (Dialogo fra un sessantottino e il suo spirito critico, in Sessantotto: mito e realtà, Supplemento a Micromega, 1/2008).Fra i giovani del movimento che lo animarono non c'era, in effetti, progetto che andasse oltre il momento di rottura. Il Movimento studentesco non aveva uno schema culturale "forte" di riferimento, “faceva, ma non esprimeva” (F. Cardini, Conoscete il ’68, Il grillo 11-6-98).
Era di Sinistra, ma non ortodossamente marxista, perché vi confluivano anche elementi anarchico-libertari e, per di più, vi si combinarono idee provenienti dall’ambiente liberal americano. Kennedy e Martin Luther King furono figure di riferimento al pari del Che e di Ho Chi Minh. Ma, alla fine, fu l’aspetto libertario e individualistaa prevalere su quello collettivista. L’idea della lotta “sopravvisse solo presso le frange estreme della rivolta armata” - ha scritto Enzo Peserico (Il sessantotto italiano, in StoriaLibera.it, data inserimento 30-7-2007).
In Italia, in particolare, con la sconfitta del brigatismo, sembrò definitivamente impraticabile ogni impegno di lotta rivoluzionaria. La rivolta studentesca si istituzionalizzò, si cronicizzò. Così le comuni, le autogestioni, le discussioni interminabili sul rapporto avanguardia-massa, sulla rivoluzione permanente e sull'anarchia, “si sono prolungate fino a noi come rito che trasferiva nei nuovi contesti il presunto anti-autoritarismo dei tempi che furono, l'egualitarismo, l'odio per il privato e ancora altre mitologie alle quali, in realtà, tenevano più i maestri degli studenti” (Gaetano Quagliariello, Facciamo finire il sessantotto, Il Giornale 10-08-2007).
Si è assistito, quindi, da un lato, ad uno svuotamento dei contenuti originari del ‘68e, dall'altro, ad un ritorno alle istituzioni, in quanto molto presto - agli inizi degli anni ‘70 -, “il movimento spontaneo è stato imbrigliato all’interno di un gioco politico” (F. Cardini, Conoscete il ’68 etc.). Allora molti dei sessantottini sono rifluiti nel privato o hanno pensato bene di iscriversi ai partiti, DC, PSI e PCI, per far carriera, magari nell’Università o nell’informazione. Solo una minoranza ha creduto che l'unico rimedio per una società malata di capitalismo fosse la P38 e ha insanguinato col terrorismo gli anni di piombo. Ma, alla fine, del ’68 politico non sono rimaste che le ceneri: teorie e slogan, miti, figure e tendenze, accomunati da una sorta di amore dell'autodistruzione e della distruzione a segnare la deriva nichilista del movimento e della retorica che l’aveva contraddistinto. L’immaginazione non è mai andata al potere, forse anche perché quello non era il suo posto. Quanto all’Università, si è assistito ad un cambiamento, per cui l’Università è diventata alla portata di tutti, ma ciò è stato a detrimento dei livelli dei corsi, delle difficoltà degli esami. L’università di massa non ha, quindi, prodotto una cultura alternativa, ma una massificazione culturale che ha finito per massificare anche le alternative.
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